Emily Dickinson: vivere è scrutare l’infinito

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This is my letter to the world
That never wrote to me

Uno spirito che contempla il sublime spesso non è in grado di esprimersi. Mari, lune, tramonti e magnifici orizzonti tolgono il fiato, divorano la fantasia, quindi le parole. Certe cose si raccontano da sé nella loro imponenza e lasciano in chi le osserva una sterile sensazione di grandiosità che, se è catartica per l’anima, lo è molto meno per il demone creativo.

L’immaginazione deve sé stessa alla privazione o allo scarso nutrimento dei sensi. A noi italiani lo ha insegnato soprattutto Leopardi, che sul colle dietro casa colse l’immensità proprio perché un ostacolo lo rendeva quasi del tutto cieco a ciò stava oltre.

Nell’Ottocento, apice e rovina dell’arte occidentale tutta, l’uomo si è perso in un labirinto, tra scoperte, rivoluzioni, invenzioni e soprattutto una nuova percezione dello stare al mondo. E sono due i poeti che più di tutti hanno testimoniato questo smarrimento: uno lo abbiamo già menzionato, l’altra è Emily Dickinson.

Emily nasce ad Amherst, cittadina del Massachusetts, nel 1830. Non la lascerà mai, se non per gli studi giovanili interrotti a 17 anni e qualche viaggio col padre, un importante avvocato. La sua è una famiglia abbiente, forse la più ricca della comunità, che vanta una fitta cerchia di conoscenze. Casa Dickinson è frequentata da persone rinomate, sempre aggiornate sulle novità letterarie e culturali. I loro racconti interessano e divertono Emily, che, dall’animo elegante ma ribelle, di nascosto scherza molto sulla formalità dei suoi ospiti.

Intanto, ovviamente, legge. Legge tutta la libreria del padre, senza fare discriminazione di genere: prende fra le mani la Bibbia (che resterà la lettura più importante), trattati di diritto, romanzi, libri di viaggio e tutto ciò che le capita. Scrive moltissimo, ma i suoi versi sono perlopiù confessioni sparpagliate su pezzi di carta, rivelazioni inserite negli scambi epistolari con amici e amanti ideali. Niente che sia pensato per un pubblico, tanto meno per la fama. Di fatto, non pubblicherà mai niente, ed è lei stessa a spiegare perché:

Publication – is the Auction
Of the Mind of Man –

Emily Dickinson, due versi della poesia 709

Come traduce Massimo Bacigalupo per Mondadori:


“Pubblicare – è mettere all’asta
la mente dell’uomo – “

Una delle oltre milleseicento poesie della produzione dickinsoniana che non hanno titolo né intenzione di nascondersi nella retorica, come la seguente:

We introduce ourselves
To Planets and to Flowers
But with ourselves
Have etiquettes
Embarrassments
And awes

poesia 1214

Ci presentiamo
a pianeti e fiori
ma fra di noi
abbiamo etichette
imbarazzi
e soggezioni

Una verità che arriva al lettore di oggi come una pugnalata.

Non appartenente a nessuna corrente letteraria, Emily condivide, sì, desideri e tormenti dei contemporanei poeti romantici inglesi, ma meno, molto meno, il loro stile. Anzi, la sua poesia è indubbiamente antiromantica nella forma sotto diversi aspetti. A cominciare dal lessico impiegato: particolare, tecnico; abbondano nomi di fiori, animali e in generale delle cose naturali, ma anche di persone. Dettagli molto rari nelle liriche romantiche.

Si noti poi la brevità dei componimenti, in controtendenza con le opere dell’epoca e che quasi anticipa di un secolo la poesia postbellica novecentesca. I versi, costruiti anche con una sola parola, sono fulmini, eruzioni improvvise che oltrepassano la dimensione del foglio, apparizioni divine, ma anche carezze inaspettate, conforto. Tutto avviene nella velocità di pochi secondi, perché la poesia deve essere un’epifania, deve colpire e restare impressa. Una novità sono anche quei trattini, sospiri tra le parole, che diventeranno uno dei suoi tratti distintivi:

Make me a picture of the sun –
So I can hang it in my room –
And make believe I’m getting warm
When others call it “Day”!

Draw me a Robin – on a stem –
So I am hearing him, I’ll dream,
And when the Orchards stop their tune –
Put my pretense – away –

Say if it’s really – warm at noon –
Whether it’s Buttercups – that “skim” –
Or Butterflies – that “bloom”?
Then – skip – the frost – upon the lea –
And skip the Russet – on the tree –
Let’s play those – never come!

poesia 188

Fammi un’immagine del sole –
ché io possa appenderla in camera –
e far finta che mi scaldo
quando gli altri dicono “giorno”!

Disegnami un pettirosso – sul ramo –
così di sentirlo – sognerò,
e quando la canzone dei frutteti cessa –
di fingere – smetterò –

Dimmi se è – caldo a mezzogiorno –
sono i ranuncoli – a “sfiorare” –
o le farfalle – a “fiorire”?
Poi – salta – il gelo – sopra il prato –
e salta il rosso – sopra l’albero –
facciamo come – non debbano venire!

Si diceva dell’affinità con Leopardi. Tuttavia, Emily non è affetta dalla cecità leopardiana. Non c’è un muro d’erba a trattenere il suo sguardo, ma una finestra, quella della sua stanza, aperta su una realtà semplice e rurale. Una cornice che le dà scorci di vita quotidiana, piccoli miracoli naturali da elevare a esperienze trascendentali. Sono proprio questi, insieme all’amore, al fervore religioso e alla meraviglia del creato, a rendere inconfondibili i suoi capolavori:

If I can stop one Heart from breaking,
I shall not live in vain;
If I can ease one Life the Aching,
Or cool one Pain,
Or help one fainting Robin
Unto his Nest again,
I shall not live in Vain.

poesia 919

Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano;
se allevierò il dolore di una vita,
o guarirò una pena,
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido,
non avrò vissuto invano.

Ma l’amore, per Emily, va oltre il sogno poetico e la carità cristiana. Con lei, nella camera da letto dove trascorrerà la maggior parte della sua vita, c’è sempre Carlo, il cane fidato. Il loro legame è tanto forte che la scomparsa di quest’ultimo avrà effetti devastanti sulla già precaria salute di lei, afflitta da una poco chiara sofferenza neuropsicologica che la porterà alla morte nel 1886.
Un’altra relazione stretta è quella con la cognata Susan Gilbert, moglie del fratello Austin e sua amante segreta. Ci sono, poi, i sentimenti per l'”amico” Thomas Higginson, con cui stabilisce una lunghissima corrispondenza. Tra le lettere più famose c’è quella che Emily gli scrive durante la Guerra di secessione americana, cui Higginson partecipa come comandante di un reggimento. Ed è proprio con questa che l’articolo vuole chiudersi, ricordando l’umanità, nelle sue forze e nelle sue fragilità, di un’artista capace di dialogare con l’infinito pur senza uscire dallo spazio isolato della terra natia. Quanti, nella sua situazione, avrebbero lo stesso coraggio?

Per dirla con Natalia Ginzburg, “Come siamo diversi oggi noi, dalla Dickinson! […] Chi mai di noi, essendo un poeta, si piegherebbe a un buio destino di zitella in un villaggio? Farebbe almeno qualche tentativo di fuga. Lei non ne fece mai. Chi oggi accetterebbe per tutta la vita il carcere famigliare, le angustie di una vita così tranquilla e così miserabile? Noi viviamo magari nelle capitali e ci sembrano province. Abbiamo intorno una folla di gente e ci sentiamo esclusi dalla vita dell’universo”.

A Thomas Wentworth Higginson

Cambridge, giugno 1864

Caro amico,
siete in pericolo? –
Non sapevo che foste stato ferito. Mi direte di più? Hawthorne è morto.
Sono stata malata da settembre, e da aprile sono a Boston, in cura da un medico – Non mi lascia andare, ma lavoro nella mia prigione, e mi faccio gli ospiti da sola –
Carlo non è venuto, perché morirebbe in galera, e i monti non potrei tenerli qui, così ho portato con me solo gli Dei –
Desidero vedervi più di prima che mi ammalassi – Mi direte della vostra salute?
Sono sorpresa e ansiosa, da quando ho ricevuto il vostro biglietto –


Le sole notizie che ricevo
sono bollettini continui
dall’immortalità.

Potete interpretare la mia matita?
Il medico mi ha tolto la penna.
Accludo l’indirizzo da una lettera, caso mai le mie cifre errino – Sapere della vostra guarigione – sarebbe meglio della mia –

E- Dickinson

(le traduzioni sono tratte da Dickinson, ‘Poesie’, ed. Oscar Mondadori, 2010)

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