Le dodici fatiche di Ercole e la mitica fondazione di Ercolano

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Eracle per i Greci o Ercole per i Latini è sicuramente una delle figure mitologiche più conosciute nell’ambito della cultura classica. Si può affermare, anzi, che quasi tutti i popoli dell’area mediterranea cercarono di inserire l’eroe semidivino tra i propri culti, affermando che fosse passato per il loro territorio e legandolo ad un particolare mito locale. Numerosi autori dell’antichità parlarono di Ercole, sia in ambiente ellenico che romano. Tra le opere più famose, l’eroe fu il protagonista dell’Alcmeone di Sofocle, nonché dell’Alcesti e dell’Eracle di Euripide, così come fu inserito nelle Metamorfosi di Ovidio, nell’Eneide di Virgilio e in due opere di Seneca (l’Ercole furente e l’Ercole eteo).

Le cosiddette “fatiche” di Ercole che, forse, sarebbe più esatto indicare come “imprese”, formano un corpus unico della mitologia romana che attinge a singoli episodi narrati dagli autori greci. Si tratta, pertanto, di un raccolta postuma delle gesta compiute dal grande eroe, per espiare la colpa di aver causato la morte della propria famiglia. Non mancano ipotesi che affermano che una prima raccolta, denominata fantasiosamente Eraclea, sia stata redatta per la prima volta intorno al 600 a.C. da un certo Pisandro di Rodi, poi andata perduta. La maggior parte degli esegeti, tuttavia, pur ammettendo la possibilità che questo scritto possa essere esistito, crede che si sia trattato di un poema celebrativo e sincretico sulle imprese di Ercole, molto lontano dalla successiva rivisitazione romana, destinata ad attraversare i secoli.

L’antefatto

Prima di parlare delle “dodici fatiche”, è d’obbligo premettere brevemente l’antefatto che portò Ercole a compiere questo straordinario percorso che, come vedremo, implica una simbologia psicologica ed iniziatica molto importante.

Il solito Zeus, il fecondo padre degli dèi, rende Alcmena incinta di Eracle, annunziando solennemente un bando: il primo bambino che sarebbe nato, a partire dal quel momento, dalla stirpe di Perseo, sarebbe diventato il sovrano di Tirinto e di Micene. La gelosa ed astuta consorte, Era, appresa l’intenzione di Zeus, riesce a far anticipare di due mesi la nascita di Euristeo, anch’egli appartenente alla stirpe di Perseo. Nello stesso tempo riesce a far ritardare di tre mesi la nascita di Eracle.

Lo stratagemma fa infuriare Zeus che, però, non può rinnegare la parola data.

Il rapporto di Ercole con Era rimarrà sempre ambiguo, nonostante l’etimologia del suo nome significhi letteralmente “colui che riceve gloria da Era”. In diversi templi edificati in onore della dea, inoltre, sono scolpite le dodici fatiche di Eracle/Ercole.

Dopo tanti anni, Eracle, preso da un eccesso di collera, uccide la moglie ed i suoi figli. Quando ritorna in sé, lui stesso non crede all’orrore dell’azione che ha compiuto e della distruzione che ha provocato. Aiutato e consigliato dal cugino Teseo, Eracle viaggia fino a Delfi, per consultare l’oracolo, il più famoso dell’intero mondo ellenico.

La Pizia gli rivela che l’unico modo per fare ammenda della sua turpe colpa è quello di mettersi al servizio di Euristeo, colui che, grazie all’aiuto di Era, aveva usurpato il trono a lui destinato fin dalla nascita. Eracle avrebbe dovuto servire l’uomo che odiava più al mondo per ben dodici anni, avventurandosi in una serie di eccezionali imprese grazie anche al suo sangue divino. Al termine del ciclo di dodici anni, l’eroe non solo avrebbe espiato la colpa di aver distrutto prematuramente la sua famiglia, ma avrebbe perfino ottenuto il dono dell’immortalità.

Così la sua parte divina avrebbe presso il sopravvento su quella umana.

Le dodici fatiche

Nel corso delle sue “fatiche”, Ercole non è sempre solo, in quanto in certe occasioni viene affiancato da un giovinetto, da alcune fonti chiamato Licinio, per altre sarebbe stato il suo stesso nipote Iolao. E’ interessante notare che inizialmente l’eroe avrebbe dovuto superare dieci prove, che poi sarebbero diventate dodici, proprio a causa della presenza di questo giovanissimo compagno. L’inflessibile Euristeo, infatti, non considera computabile né l’uccisione dell’Idra, per il fatto che Ercole si sarebbe fatto aiutare da Licinio/Iolao e nemmeno l’episodio delle stalle di Augia, perchè in tale contesto sarebbe stato pattuito un compenso non previsto.

Come la maggior parte della tradizione, seguendo l’ordine delle imprese riportate dallo Pseudo-Apollodoro, cronologicamente ricaviamo la seguente sequenza: 1) uccidere l’invulnerabile leone di Nemea, ottenendo la sua regale pelle come trofeo; 2) uccidere l’immortale Idra di Lerna; 3) catturare la cerva di Cerinea; 4) catturare il cinghiale di Erimanto; 5) rassettare in un solo giorno le stalle di Augia; 6) disperdere gli uccelli del lago Stinfalo; 7) riuscire a prendere il toro di Creta; 8) rubare le cavalle di Diomede; 9) trafugare la cintura di Ippolita, la Regina delle Amazzoni; 10) rubare i buoi di Gerione; 11)rubare i pomi d’oro del giardino delle Esperidi; 12) rapire e portare a  Micene con sé vivo Cerbero, il cane a tre teste, guardiano degli Inferi.

Non vi è dubbio che le dodici “fatiche” di Ercole, richiedendo una forza soprannaturale per il loro compimento e ricorrendo sempre una quasi sprezzante sfida alla morte, abbiano significati allegorici di carattere filosofico, psicologico, morale ed iniziatico che ben oltrepassano la narrazione mitologica di immediata evidenza.

Ercole stesso racchiude in sé l’emblema della forza, non solo di quella fisica, ma soprattutto di quella interiore che si traduce in una straordinaria concentrazione allo scopo di ascendere da una condizione mortale verso una divina. L’eroe può essere visto come il simbolo di tutti coloro che, oppressi da tantissime difficoltà, riescono a migliorare la propria condizione e a conseguire un più elevato livello di consapevolezza morale, anche quando la fortuna non rema dalla loro parte. Non a caso, alcuni arditi autori cristiani hanno accostato la figura di Ercole a quella di Gesù di Nazareth, per alcune importanti similitudini, tra cui spicca la comune origine da padre divino e da madre mortale, l’inimicizia nei confronti del male, la morte e la resurrezione con conseguente ritorno al mondo divino del padre. Ovviamente ad Ercole sono attribuiti tutti i pregi ed i difetti umani, come appunto l’ira che muoverà il suo desiderio di espiazione, mentre la teologia cristiana ritrae un Gesù, “vero uomo e vero Dio”, ma scevro dalla contaminazione del “peccato originale” che caratterizzerebbe invece la condizione creaturale umana.

Sotto il profilo iniziatico, è già significativo considerare il numero “12”, così caro alla numerologia mediterranea ed orientale. 12 erano le tribù di Israele, 12 i segni zodiacali, 12 i principali monti dell’Olimpo, 12 i mesi dell’anno, 12 gli apostoli di Gesù etc.. A tal proposito osservo che nella metope del Tempio di Zeus ad Olimpia, espressa  nel numero 12 e risalente all’incirca alla metà del V secolo a.C., si trova già una presunta rappresentazione scultorea delle Fatiche di Eracle. Si può affermare, pertanto, che il 12 esprima un’idea di compiutezza, favorendo le prove iniziatiche fondamentali. Non è un caso se il simbolo della “Bestia” nell’Apocalisse di Giovanni sia la sequenza della sua metà 666, ossia l’emblema dell’imperfezione e dell’abominio.

Le “fatiche” di Ercole possono così delineare il duro cammino che il discepolo deve intraprendere per superare le proprie debolezze che rappresentano un ostacolo al raggiungimento della piena consapevolezza interiore. Le bestie affrontate dall’eroe, un po’ come la triade di fiere che incontra Dante, prima di cominciare la sua discesa verso l’Inferno, sono le nostre passioni umane che il Cristianesimo catalogherà rigidamente in “peccati”. Anche il numero tre implica una forte simbologia iniziatica: l’archetipo della triade è pressochè presente in tutte le culture.

Ercole, infatti, riceve tre doni divini. Da Poseidone, il dio del mare, riceve i cavalli, simbolo del vigore che trascina e della ferrea volontà realizzatrice; da Mercurio, il messaggero degli dèi, riceve la spada, non tanto intesa come strumento militare, ma come simbolo di perspicacia e di raziocinio (la spada divide e quindi aiuta a discernere); ed, infine, da Apollo, l’eroe riceve l’arco e le frecce che stanno a significare la capacità di raggiungere in maniera diretta la meta con un’illuminazione folgorante. Come non dimenticare, però, che Ercole, dopo essere entrato in possesso di tutti e tre i doni divini, corse fuori per dotarsi di una semplice clava di legno, simbolo dello stato grezzo in cui cominciamo il nostro cammino spirituale.

Nella prima fase molto spesso non riconosciamo o non siamo in grado di utilizzare i doni divini e, per questo, ricorriamo soltanto ai nostri poveri mezzi.

La simbologia

Una delle ricostruzioni simboliche più affascinanti del mito è quella che vede nelle dodici fatiche di Ercole la rappresentazione di un cammino attraverso i dodici segni dello Zodiaco, cominciando dall’Ariete per fine nei Pesci. Ercole si servirebbe dei dodici tipi di energia con cui la coscienza del divino si manifesta, superando le costrizioni della materia e conseguendo l’autorealizzazione, cioè il pieno possesso del proprio io. Chi ha una certa dimestichezza con l’astrologia esoterica, discerne la presenza di quattro costellazioni che corrispondono alle prove di più fondamentale importanza. Queste quattro costellazioni formano la cosiddetta “croce fissa”  che è appunto composta dai quattro segni fissi (Toro: Primavera/Terra; Leone: Estate/Fuoco; Scorpione: Autunno/Acqua; Acquario: Inverno/Aria).

E se andiamo a guardare gli elementi principali che caratterizzano il personaggio di Ercole, notiamo che egli è, in linea generale, delineato con un collo taurino e vestito da una pelle di leone. Inoltre, uccide i serpenti e l’Idra di Lerna, animali che richiamano l’acqua e quindi assimilabili allo Scorpione ed utilizza un intelletto sottile tipico del segno dell’Acquario. Nell’adattamento “astrologico” delle dodici fatiche di Ercole, si tende a riportare una sequenza diversa, legata al succedersi dei dodici segni zodiacali. Pertanto, l’elencazione preferita è la seguente: 1) rubare le cavalle di Diomede (Ariete); 2) cattura del toro di Creta (Toro); 3) rubare i pomi d’oro del giardino delle Esperidi (Gemelli); 4) catturare la cerva di Cerinea (Cancro); 5) uccidere l’invincibile leone di Nemea (Leone); 6) trafuguare la cintura di Ippolita, la regina delle Amazzoni (Vergine); 7) catturare il cinghiale di Erimanto (Bilancia); 8) uccidere l’immortale Idra di Lerna (Scorpione); 9) disperdere gli uccelli del lago Stinfalo (Sagittario); 10) rapire e portare a Micene vivo il cane a tre teste Cerbero, il guardiano degli inferi (Capricorno); 11) rassettare in un solo giorno le stalle di Augia (Acquario); 12) rubare i buoi di Gerione (Pesci). In tale contesto è possibile distinguere le quattro prove fondementali, come dicevamo in precedenza, legate ai quattro segni fissi dello zodiaco. Nella cattura del Toro, si esprime la necessità per l’iniziato di controllare le proprie pulsioni sessuali, non sopprimendole, ma convogliandole verso il giusto equilibrio con i desideri interiori; con l’uccisione del leone, proprio al cospetto di Euristeo, che rappresenta l’autorità costituita, l’eroe dimostra di essere capace di dominare la propria personalità, subordinando il proprio orgoglio al raggiungimento di un interesse superiore, che trascende l’egoismo individuale; con l’uccisione dell’Idra di Lerna, forse l’iniziato supera la prova più grande, emancipandosi dall’illusione delle apparenze, uno dei più grandi ostacoli per l’essere umano affinchè raggiunga un elevato livello di consapevolezza; nel segno dell’Acquario, Ercole aguzza l’ingegno e devìa due fiumi per ripulire le putride stalle di Augia, significando la necessità di purificare il nostro mondo interiore da tutte le sozzure e dalle contaminazioni psicologiche nocive.

Non può sfuggire che alcuni dei mostri sconfitti nel corso delle dodici imprese non sono altro che echi lontane di antiche divinità, come la stessa Idra che simboleggiava la dea delle acque, oppure i serpenti pitoni che erano l’emblema di Gea, la Madre Terra, o anche la cerva di Cerinea legata al culto di Artemide, oppure i pomi delle Esperidi che erano sacri e sorvegliati dalle sacerdotesse.

Le imprese di Ercole sono state, pertanto, anche interpretate come un chiaro transito socio-culturale dal matriarcato al patriarcato, in quanto l’eroe cattura o uccide animali, espressione di passione e di istintualità che, nella religiosità più ancestrale, erano considerati sacri. Attribuendo questa ulteriore chiave di lettura assume un valore semantico fondamentale la “fatica” relativa all’impossessamento da parte di Ercole della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni, come ultimo avamposto dell’indipendenza femminile contro il dilagare del patriarcato, mediante l’imposizione  della forza virile.

In astronomia all’eroe è intitolata la quinta costellazione più estesa della volta celeste, tra le circa 90 conosciute e catalogate dalla moderna tassonomia. Tale costellazione, tuttavia, era presente anche tra i 48 sistemi elencati da Tolomeo. La sua posizione è per la maggior parte molto lontana dalla Via Lattea. Nonostante sia di considerevoli dimensioni e sia chiaramente visibile nelle notti di primavera e di estate dall’emisfero boreale terrestre, nella costellazione dedicata ad Ercole, non vi sono stelle particolarmente luminose, anche se una delle sue caratteristiche più significative è costituita dalla presenza della cosiddetta “chiave di volta”, un quadrilatero di astri situato nella parte occidentale della costellazione stessa.

Ercolano

Ad Ercole ed alle sue dodici fatiche è legato uno dei siti archeologici più importanti dell’Italia meridionale, Ercolano, a pochi chilometri a sud di Napoli, città famosa per la disastrosa eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 d.C. che la distrusse insieme a Pompei.

Secondo il racconto leggendario di Dionigi da Alicarnasso, Ercolano sarebbe stata fondata dall’eroe di cui porta il nome, mentre questi tornava dall’Iberia  con la mandria di buoi sottratta a Gerione (vedasi una delle fatiche). Ercole, di ritorno dal suo grande viaggio, si sarebbe fermato nel Lazio ed avrebbe chiesto alla Dea Fauna di dissetarlo. Questa, tuttavia, rifiutò la richiesta del semidio, in quanto la sua acqua sacra poteva essere donata solo alle donne (un altro indizio polemico nei confronti dell’antico matriarcato).

Ercole, allora, infuriatosi, decise di costruire un tempio nel quale l’accesso fosse consentito soltanto agli uomini, ma nel frattempo il demone Caco, figlio del dio Vulcano, rubò alcuni dei buoi che l’eroe aveva sottratto al mostro Gerione.

L’astuto demone usò lo stratagemma di tirare gli animali per la coda, in modo che Ercole si ingannasse sulla loro direzione e fuggì verso la Campania. Ma un bue rispose al richiamo dell’eroe ed Ercole scoprì la grotta dove Caco aveva nascosto il bestiame, vendicandosi ed uccidendolo. Proprio nel luogo dove recuperò il bestiame, Ercole avrebbe fondato la città chimata in suo onore “Eracleia”.

In realtà non si hanno notizie storiche certe sulla fondazione della città. Secondo Strabone sarebbe stata fondata dagli Osci nel XII sec. a.C. ed il ritrovamento di alcuni reperti redatti nella lingua di quel popolo potrebbe far supporre la veridictà di tale ipotesi. Secondo altri autori, invece, Ercolano sarebbe stata fondata tra il X ed il IX sec. a.C. dagli Etruschi, peraltro devoti ad Ercole che chiamavano con il nome di Hercle. Nel 479 a.C. la città fu conquistata dai Pelasgi, una popolazione greca, mentre il suo nome, così come poi sarà conosciuto dai posteri, “Eracleia”, si attesta per la prima volta nel 314 a.C. in uno scritto di Teofrasto. Nell’89 a.C. diventò municipio romano e tra la fine dell’epoca repubblicana e l’inizio dell’età imperiale Ercolano si impose come uno dei centri di villeggiatura più rinomati della “Magna Graecia” molto frequentato dall’aristocrazia e dalla ricca borghesia romana, avviandosi però al drammatico destino dell’eruzione del Vesuvio.

Nel 1997 gli scavi archeologici di Ercolano, insieme a quelli di Pompei e di Oplonti (l’attuale Torre Annunziata) sono stati dichiarati dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità.

Anche se la maggior parte dei resti rinvenuti ad Ercolano è al giorno d’oggi conservata nelle sale del Museo archeologico nazionale di Napoli, uno dei più importanti d’Europa, è possibile osservare tra le rovine dell’antica città una particolarità che la distingue anche dalla vicina e più famosa Pompei. Nelle vecchie dimore di Ercolano, infatti, si notano ancora i resti di pezzi di legno carbonizzato, di mobilio e di altre infrastrutture, a causa dello strato di “pappamonte” che è andato a sedimentarsi dopo la spaventosa eruzione. Se da un lato gli scavi sono risultati molto difficoltosi, per la notevole profondità creata dallo strato solido della roccia, dall’altro ciò ha permesso di proteggere il sito da eventuali atti vandalici o saccheggi

A differenza di Pompei, dove col tempo sono emersi soltanto calchi della carne e delle vesti dei cittadini, ad Ercolano la spessa coltre di fango e di detriti vulcanici ha permesso la conservazione di alcuni scheletri di cui, con i metodi scientifici moderni, è addirittura possibile stabilire il dna. Tra le rovine di Ercolano si è riusciti ad identificare una donna incinta, un soldato, alcuni pescatori e qualche bottegaio.

Gli oggetti trovati appartengono ai più disparati generi: chiavi, lucerne, gioielli, monete d’oro e d’argento, monili preziosi e perfino una scatola che sembra contenere una sorta di strumenti chirurgici.

Attualmente nel parco archeologico di Ercolano sono aperte al pubblico soltanto sette “insulae”, anche se si ritiene che ancora molte ne siano sepolte sotto i detriti del tempo.

Alcuni edifici pubblici sono rimasti in buono stato, come la Palestra, caratterizzata da un ingresso formato da un vestibolo con una volta decorata, due Terme, di cui una è veramente monumentale come se si trattasse di una basilica, presentando suggestivi e ricchi affreschi. Degno di nota è anche il Teatro, in alcune parti interratto ed il vasto Collegio degli Augustali. Le dimore hanno in genere ampi spazi ed evidenziano pregiate decorazioni, come segno della classe agiata che frequentava la città, soprattutto in occasione delle vacanze estive. In particolare la Casa dei Bicentenari e la Casa a Graticcio contengono un gran numero di sculture, di mosaici e di suppellettili, rimaste quasi intatte dopo tanti secoli, per la peculiarità già esposta in precedenza.

La parte più antica di Ercolano si snoda su cinque strade, tre cardi e due decumani che si intersecano ad angolo retto. Gli archeologi ritengono che, allo stato attuale, sia stata portata alla luce solo la parte della città più vicina al mare, mentre la zona interna, dove è ancora sepolto il Foro, alcuni templi ed altre dimore, si troverebbe sotto all’agglomerato urbano di Resina che nel 1969 è tornata a chiamarsi Ercolano.

L’edificio più interessante del parco archeologico di Ercolano è, comunque, senza alcun dubbio, la cosiddetta “Villa dei Papiri” o “dimora dei Pisoni”, scoperta soltanto nel 1996 ad una profondità di 25/30 metri. Ancora oggi gran parte della villa giace sotto il centro abitato, mentre soltanto (si fa per dire) una superficie di 14.000 mq. è stata portata alla luce, di cui circa 1500 ricca di opere d’arte monumentali.

Gli archeologi hanno supposto che si trattasse della lussuosa residenza estiva di Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Giulio Cesare. Un’altra ipotesi attribuisce la proprietà dell’imponente dimora ad Appio Claudio Pulcher, cognato di Lucullo e console nel 38 a.C.., in onore del quale fu anche eretta una statua nel Teatro.  In tale area sono stati già recuperati più di 1800 papiri, conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli e si pensa che ve ne siano ancora molti altri sepolti sotto lo strato di lava. Si trattava di una vera e propria “biblioteca”, in gran parte sigillata in casse. Secondo gli archeologi, i rotoli erano stati sistemati all’interno di capienti contenitori, dopo esser stati catalogati, allo scopo di restaurare la villa a seguito di un rovinoso terremoto avvenuto nel 62 d.C..

Ciò che ha reso possibile il recupero di questi scritti di inestimabile valore storico è il fatto che la carbonizzazione dei documenti avvenne per un processo graduale di mineralizzazione e non per il calore della lava che coprì Ercolano nel 79 d.C.. All’inizio del ritrovamento, si pensò che si trattasse di pezzi di carbone e, pertanto, numerosi papiri furono gettati via.

La maggior parte dei reperti è scritta in greco e tratta argomenti filosofici, riconducibili soprattutto al pensatore epicureo Filodemo di Gadara, anche se non mancano alcuni componimenti poetici in lingua latina. La tecnologia contemporanea permette di leggere i rotoli anche con l’utilizzo dei raggi X, una metodologia che favorirebbe perfino la decifrazione dei papiri scoperti nella parte della villa dove ancora non sono stati ultimati gli scavi e dove un repentino srotolamento degli stessi rischierebbe di rovinarli.

La “Villa dei Papiri”, come accennato in precedenza, presenta una vistosa raccolta di opere monumentali, in particolare nell’atrio e nei peristili, contando sulla presenza di una ricchissima collezione di sculture (58 in bronzo e 21 in marmo, di cui alcune di notevoli dimensioni). Anche queste statue sono esposte nel Museo archeologico di Napoli.

Le varie stanze della villa erano impreziosite da pavimenti a mosaico policromatico e da magnifici affreschi, non prive di ingegnosi sistemi di riscaldamento dell’acqua e di piccole saune per coloro che vi abitavano solitamente e per gli ospiti. Tra gli oggetti più preziosi ritrovati nella villa, menziono il cosiddetto “trono regale”, lavorato in legno ed avorio, che raffigura scene che si riferiscono chiaramente al culto del dio Attis.

Ed il patrimonio archeologico di Ercolano è inesauribile, con le sorprese che ci riservano altre importanti abitazioni, ciascuna con un profilo proprio e peculiare.

Tra queste, spicca la “casa del salone nero”, una dimora di notevoli dimensioni che è situata lungo il Decumano Massimo, chiamata così per la presenza di pilastri e candelabri dipinti su un fondo di colore nero. Di particolare suggestione è la “casa del gran portale”, chiamata così per la presenza di un elegante ingresso che richiama l’architettura di un tempio o la “casa del mobilio carbonizzato” che impressiona perchè è ancora possibile osservare la disposizione originaria degli arredi.

E l’elenco potrebbe essere interminabile, per cui mi limito a menzionare la “casa dello scheletro”, dove nel 1831 furono trovati resti umani e la panoramica “casa dei cervi”, edificata in una posizione tale da poter consentire agli abitanti di poter ammirare il meraviglioso panorama del golfo di Napoli, ancora oggi spettacolare ma che, in quel tempo, doveva essere davvero un incanto.