Il fuoco narrante dell’abisso: L’architettrice di Melania Mazzucco

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Carlo studiava e poi è diventato anche lui copista di curia. A volte penso che la deve anche a me, quella vita. È come se, in qualche modo, lo avessi messo al mondo. Carlo Macconi è il primo dei figli che non ho avuto. (Melania Mazzucco, L’architettrice, Einaudi Torino, 2019, p. 193.)

È stata per la mancanza di libertà mia e di sua sorella che Elpidio e io ci siamo conosciuti al di fuori di ogni regola e convenienza. E non siamo potuti più tornare indietro. (Ivi, p. 207.)

Mia sorella mi odiava, alla fine. Cedermi il suo posto sarebbe stata la sua vendetta. Ho allungato la mano verso la torcia e ho lasciato che la fiamma mi bruciasse le dita. E non gliel’ho permesso. (Ivi, p. 377.)

La passione, l’amicizia, la complicità. Era l’altra metà di me, la mia parte migliore. Nessuno mi sarebbe stato mai più vicino di lui. Rinunciavo al mio corpo – che avevo appena scoperto, e salvato. L’ho lasciato. (Ivi, p. 453)

Perché forse in realtà le sarebbe piaciuto disegnare, dipingere, anche leggere, e ormai non poteva più ammetterlo. Ma ogni volta che gliel’ho proposto, ha rifiutato. Mai nella vita, giurava. Non voglio diventare come te. (Ivi, p. 474).

Sono passi del romanzo di Melania Mazzucco L’architettrice, in cui frasi basate su una climax ascendente in cui prevale la coordinazione paratattica, si chiudono con una negativa che smentisce seccamente le premesse.

Leo Spitzer indicava in un clic, in un elemento stilistico, la via per giungere ad impossessarsi della chiave interpretativa d’un romanzo. Di fronte a un capolavoro, non potrebbe essere altrimenti, costituirebbe atto sconsiderato volerne dominare la struttura analizzandone contenuti, stile, per poi proporre un’interpretazione didascalica e riassuntiva. Se ci si sofferma su un solo elemento, invece, si compie un atto di umiltà e il testo stesso ne viene illuminato.

Una grande opera si nutre delle sue estreme propaggini, se ne fa carico al fine di creare un orizzonte nitido e vivido, dal quale spiccare per immensità. Quali sono i confini entro cui, come un fiume in piena sempre sul punto di straripare, si costringe il capolavoro di Melania Mazzucco, L’architettrice se non in virtù d’una costante poeticità, crudeltà, disperazione ed esaltazione che in ogni pagina si riverberano e si contendono gli animi dei personaggi, spesso offuscando la vista del lettore o appannandola della più partecipata commozione?

Innanzitutto nel romanzo si assiste allo stabilirsi delle condizioni di un’atmosfera vibratile di tensioni stilistiche che, come pennellate su un intonaco da affrescare, si rincorrono, si scontrano, si sovrappongono, si cancellano l’una con l’altra, frementi, non trovando riposo. Non c’è un luogo di arresto nel romanzo, solo in brevi passi l’ansa del fiume pare allargarsi e dolcemente riposare, per poi riprendere con più lena, con più vigore, e con scatti improvvisi, proprio come se a narrare la storia, con affanno e con la voglia di liberarsi della sua vita, fosse una donna imperiosamente apparsa davanti a noi, sbigottiti ascoltatori – la finzione è a volte più ardua della vita stessa, proprio perché deve reinventarla, ma se riesce, esibisce una vivezza sconvolgente, sostituendo alla figura fittizia una persona preda di improvvisi scatti. Scatti di dignità repentini, che si perdono immediatamente, perché dettati da un impulso e da un istinto feroce e appassionato pronti a definire un limite mediante cui stabilire un argine in funzione del suo superamento o del suo  innalzamento, impulso che dunque odia essere illuminato, perché sa che deve trascorrere come un lampo improvviso, costituendo un accenno e non un indugio: che cos’è questo impeto se non ciò che alimenta la forza della donna, quando dice no a un uomo, al destino, a se stessa, quando esprime rivolta, angoscia, tormento e anche un briciolo di ribalderia e millanteria, perché la creatura femminile non sa separarsi dalla Natura e se intende farlo deve troncare di netto il rapporto oppure renderlo tombale attraverso un semplice diniego, e nel cortice del respingimento immediatamente scomparire, come il fumo del cerino che si spegne con un tocco del dito, su cui il bruciore dura meno del tempo che lo stimolo compie dal polpastrello alla mente per diventare dolore: ecco, il dolore che non si sopporta, di sé e dell’altro, coincide con il no che si oppone come rifiuto al donarsi, all’espandersi. Insomma, c’è, nell’esistenza, qualcosa di immensamente ricco e di ignominiosamente misero che non assurge a vita, quale potrebbe essere la ricusazione della maternità, ma anche la capacità di celare  la profondità di ogni scelta che si compie e resta per sempre, condizionando ogni successivo gesto; infine l’impeto, l’impetuoso ardore di chi si sente discriminato, diverso, appartenente a generazioni di emarginati e di rifiutati (rei di aver commesso quale colpa?) pronti a riscattarsi mediante la realizzazione dell’Opera, del capolavoro, d’una scommessa più grande delle proprie possibilità.

L’impetuosità è esaltazione e anche entusiasmo (il divino che c’è nell’interiorità di chi, colpevole, si è riscattato grazie al proprio talento o genio).

La Mazzucco è scrittrice impetuosa e sontuosa come solo la grande letteratura sa essere: straripante, perché sferzante, sorprendente, annichilente con la sua maestosità. La letteratura si incarna nell’Opera, che è definitiva e chiude, stringe la letteratura tutta nel suo recinto. L’Opera-scrigno serra la Letteratura nel suo interno e ne mostra la forma: la chiave, in possesso dell’impetuosa e sontuosa scrittrice Mazzucco, che così si consegna al Dio che ha voluto eleggerla destino e fato del lettore che sia in grado di trovare lo stesso impeto e la stessa intensità per ricostruire, resuscitare l’opera, per aprire lo scrigno della Letteratura che in questi tempi appare particolarmente serrato.    

L’impeto è anche lo schiaffo violento con cui la donna si difende, la frustata improvvisa d’uno sguardo e d’uno staffile che fendono l’aria e simbolicamente tagliano il corpo che è lì davanti e di cui si vorrebbe separare la metà sana da quella marcia, nella consapevolezza che nessuno è completamente giusto o ingiusto, colpevole o innocente. La scrittrice (solo un caso se è donna?) conosce la verità e non la rifiuta ma cerca di spaccarla, per trarne la parte buona, trovandosi di fronte però le due metà ormai inconciliabili. In quel gesto si pretende verità assoluta, gesto utopico, furente, assoluto, del Creatore che non ammette le sfumature mancate o imprecise, il manicheismo retorico, l’ipocrisia scontata e le manchevolezze della sua creatura.

D’altronde, l’elemento preponderante che unisce e separa i due amanti protagonisti della storia è una forza impetuosa, imprevedibile e femminile come quella dell’acqua, sotto la forma del flusso del cielo (la pioggia), del flusso dell’interiorità ctonia e vulcanica della terra (le polle, le sorgenti carsiche che scaturiscono con veemenza dalla pressione di minerali e magma infuocato e generano con violenza il moto dei fiumi), del flusso delle acque emerse (i mari), del flusso dell’aria e dell’etere (il vento che spinge impetuose gocce e quello di onde invisibili che trasportano perfino i segreti degli uomini e che la Mazzucco capta, interprete e profetessa della tempesta che si catapulta sugli ignari Plautilla e Elpidio, ma anche su tutti gli altri abitanti di Roma e della vicenda umana, della vita in genere in quanto verità personale.

La verità risiede forse nel non far comprendere all’altro i propri sentimenti? È, per la donna, forse nel rendere se stessa un abisso recondito e inconoscibile, la sua forza, da cui scaturisce l’impetuosità istintiva e audace d’un fuoco irredimibile? Il tormento che l’anima non è forse il reale fulcro della disperazione, l’allegoria della morte? Della morte che, affabile ancella della vita, fonda la gioia con cui l’unione d’amore diviene un frammento della gloria capace di restituire agli uomini il superamento di ogni differenza (di genere, di cultura, di censo)?

La vera storia d’amore è solo quella letteraria, quella di un romanzo che osa rispetto alla banalità e dà voce al segreto portato fin nella tomba dagli amanti?  

Ecco, silenzio, indifferenza e tormento spiegano che la letteratura a volte riesce a ricostruire una storia d’amore senza torcere un capello alla verità, senza mai sfiorare la retorica se accanto a quella siede il mistero di due anime che si sono riconosciute e amate (e forse anche disprezzate) fino in fondo; l’abisso appartiene a chi è riuscito a vivere in segreto, alla cui profondità nessuno può accedere – se non uno scrittore che assume le vesti di uno storico e di un cronachista. Lo scrittore può ambire ad attingere, grazie a un istinto impetuoso, a una sollecitudine che è molto di più di una semplice affezione o passione, a un fuoco divorante, un morbo, un oceano di follia, a un insano voler conoscere.

Melania Mazzucco si è consacrata alla letteratura, la sua è una fede vertiginosa che tocca la punta più nascosta dell’abisso della creazione, e la scrittrice sa di dover competere con Bernini e Pietro da Cortona e Borromini (e forse grazie a lei completare e mutare il loro destino, proprio perché affiancati a Plautilla Briccio, che li osserva dal punto di vista della redimita Architettrice.

È la stessa Architettrice a suggerirlo: la storia d’amore si dipana tra materia e assenza. Tra vita e morte, misteriosamente e inesorabilmente avvinghiate in un indistricabile abbraccio. Da questo abbraccio immensamente proditorio, lo strazio: che è figlio dell’empito, lo strazio come epitome di ciò che è stato e che non sarà mai più, come emblema di ciò che non volendo è stato, l’assurdo inqualificabile sfregio che il tempo reca sullo spazio e che si incide sulle loro vittime: le creature umane.

Dal punto di osservazione della Donna Incoronata è possibile intravvedere un lume, il riscatto, il perdono di sé e degli altri, la benedizione e la pacificazione:

Il tempo cancella ogni gloria e medica ogni ferita. Si spengono le stelle, tramonta il sole ogni giorno, tutto ciò che perisce feconda la terra, il serpente ouroboros non ha né fine né inizio, mi sono riconciliata con la natura di ogni cosa vivente e con la mia. Forse, per questo, finalmente credo. (Ivi, p. 545.)

La vita dissimulata, la vita che non solo nel Seicento di Balthasar Gracian e di Torquato Accetto ma anche oggi nel Duemila l’uomo dedica e nasconde a Dio, come fa un astro rispetto a un altro nell’eclisse:

Non aveva paura, desiderava anzi ardentemente di smettere di soffrire, ed è stato felice di ritornare a Dio. Né la scienza né la malattia lo avevano mai indotto a dubitare della sua esistenza. Non vado a mani vuote, sai Plautilla, ha mormorato quando io ho taciuto, gli occhi sul crocifisso d’avorio che gli avevo poggiato sul petto. Ti porto, o unico Signore del mondo, le sole cose che tu nella tua immensità non hai: l’ignoranza, i rimpianti, i difetti, la colpa, il male. Ma anche la cosa più bella, che tu non puoi conoscere, perché possiedi tutto: la speranza. (Ivi, p. 340.)