Muddy Waters: un astro nero nella storia del blues

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Se chiedete a un bluesman cosa sia effettivamente il blues, questi vi risponderà che è soprattutto un sentimento: sentirsi “blues” indica infatti uno stato d’animo che porta alla malinconia, alla tristezza, allo sconforto, perché chi scrive e canta blues sa cosa vuol dire affrontare la dura quotidianità della vita.

Se c’è un genere musicale in grado di catturare tutta l’angoscia, la disperazione e la speranza del popolo afroamericano vittima di secoli di schiavitù e vessazioni, questo è sicuramente il blues, che sorse lentamente sul finire del 1800 dagli stati del sud per poi estendersi a tutte le comunità di colore degli Stati Uniti.

Il blues veniva suonato da musicisti solitari, che si accompagnavano con la chitarra acustica durante le feste tenute durante il fine settimana nelle piantagioni.

In una di queste, a Stovall, nel profondo Mississippi, viveva con la nonna McKinley Morganfield: persa la mamma precocemente e con un padre lontano, McKinley era un bambino curioso e turbolento come tanti suoi coetanei, che amava passare il tempo giocando e sguazzando nelle acque fangose dietro casa.

Quando non lo vedeva gironzolare vicino alla piantagione la nonna sapeva che l’avrebbe trovato a mollo nel torrente e, a furia di sollecitarlo continuamente a uscire, prese a chiamarlo proprio come l’elemento da lui tanto amato.

A divertire il piccolo Acque fangose, meglio conosciuto a Stovall come Muddy Waters, non era solo lo stare continuamente a mollo, ma anche il suonare l’armonica, di cui aveva appreso i primi rudimenti attorno ai nove anni.

Mckinley crebbe appena fuori Clarksdale, nel Mississippi: la dura vita della fattoria veniva alleviata dalla sempre più marcata passione per il blues, che gli aveva fatto imbracciare la chitarra sognando di ripercorrere le gesta di Son House e Robert Johnson.

E proprio grazie al mito del re del Delta blues, in un afoso giorno di agosto del 1941, la vita di McKinley prese una direzione inaspettata: due uomini si presentarono alla porta della sua capanna, ma con sua enorme sorpresa, non erano i soliti visitatori di Clarksdale che cercavano il suo rinomato whisky fatto in casa e, a un primo sguardo, quei due non sembravano neanche appena usciti da una baraccopoli.

Uno dei due era un sorridente ragazzo bianco un po’ impacciato, mentre il suo accompagnatore era un afroamericano vestito di tutto punto e dai modi eleganti, assai diverso dagli altri “fratelli” visti in giro da McKinley.

Alan Lomax e John Wesley Work erano in realtà due uomini in missione: partiti per conto della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, si erano recati in Mississippi alla ricerca di quel musicista che si diceva avesse stretto un patto con il Diavolo, ma dopo aver scoperto che Robert Johnson era morto qualche anno prima, invece di tornare sui loro passi con la coda tra le gambe, decisero di cercare comunque qualcuno che valesse la pena registrare.

Su indicazione di qualche contadino i due si misero a cercare quel bluesman che faceva ballare tutti durante i weekend, fino ad arrivare proprio davanti alla baracca di Muddy Waters, nome con cui il ragazzo si presentava da tempo nelle serate.

Muddy Waters non si fece pregare più di tanto per registrare qualche pezzo, anche perché i venti dollari promessi dai due erano già un incentivo di tutto rispetto. Ma a fargli credere che il blues potesse essere la sua via di fuga dalla piantagione fu il pacco che ricevette mesi dopo, contenente le incisioni: Muddy mise su il 78 giri e ascoltando le canzoni e la sua voce fu invaso dalla convinzione che potesse davvero farcela.

Lomax e Work tornarono anche l’anno seguente per una nuova seduta di registrazioni, le ultime di Muddy a casa: nel 1943 il chitarrista si spostò a Chicago in cerca di fortuna, lasciando il Delta del grande fiume d’America e i suoi campi di cotone.

A Chicago, dove si manteneva lavorando di giorno e suonando di notte, scoprì quanto potessero essere rumorosi e turbolenti i locali con un vasto pubblico, dove spesso si trovava in difficoltà con la sua chitarra acustica: per ovviare al rumore comprò una chitarra elettrica, un amplificatore e cambiò il suo sound.

Il nuovo Muddy Waters divenne in breve l’astro del blues più luminoso della windy city, attirando a sé numerosi seguaci affascinati dalle sue canzoni, che si discostavano dai soliti temi di triste rassegnazione e puntavano invece a una maggiore esuberanza, in linea con la spensieratezza del dopoguerra e la speranza di vita meno dura per gli afroamericani.

La Aristocrat Records dei fratelli Leonard e Phil Chess, due giovani immigrati polacchi molto ambiziosi, lo mise sotto contratto nel 1946, permettendogli di pubblicare alcuni pezzi. Il suono elettrico, cupo, profondo e appassionato di Muddy Waters non scatenò inizialmente grosso interesse nel pubblico, ma nel 1948, grazie a brani come I feel like going home e I can’t be satisfied, gli amanti del blues si accorsero finalmente della nuova stella di Chicago.

In breve la Chess Records (nuovo nome della Aristocrat) virò prepotentemente prima verso il blues e poi il rock’n’roll, ingaggiando e scoprendo talenti come Bo Diddley, Little Walter, Etta James, Chuck Berry e il grande rivale di Muddy, Howlin’ Wolf.

Durante gli anni cinquanta la band di Muddy Waters, composta da Little Walter, Elgin Evans, Otis Spann, Willie Dixon e Jimmie Rogers, incise alcuni dei grandi classici blues su cui il ragazzo di Stovall costruì il suo mito: Hoochie Coochie Man, Got my mojo working, Rollin’ stone, I Just Want to Make Love to You e I’m Ready.

Nel 1955 Muddy Waters pubblicò quella che probabilmente è la sua canzone più conosciuta: Mannish Boy. Lui e Willie Dixon avevano scritto tempo prima Hoochie coochie man, brano assai esplicito e ispirato a una danza di fine ottocento dai forti connotati erotici molto in voga tra gli afroamericani di Chicago, chiamata appunto Hoochie coochie: a sua volta a Hoochie coochie man si era ispirato Bo Diddley per la sua I’m a man, pezzo che poi aveva condotto Muddy a chiudere il cerchio con Mannish boy.

Muddy Waters - Mannish Boy (Audio)

Il brano, dai toni esuberanti e spavaldi, a un primo ascolto era una strabordante collezione di sfacciate affermazioni sulla virilità e capacità di seduzione del bluesman, inframmezzate dalla stentorea ripetizione “I’m a man”.

Mannish boy partiva da lontano, non solo per i riferimenti musicali. Nel sud degli Stati Uniti le persone di colore non godevano della stessa considerazione dei bianchi: le famigerate leggi Jim Crow crearono la segregazione razziale per tutti coloro che non avessero la pelle bianca, obbligandoli a vivere secondo la dottrina dei “Separati, ma uguali”.

Gli afroamericani non solo erano evitati e messi ai margini, ma anche disumanizzati e visti nella migliore delle ipotesi come poco più che bambini da controllare e guidare nel loro percorso di civilizzazione, che, chiaramente, non finiva mai: se si mostravano incapaci di stare al loro posto andavano puniti e magari linciati, perché nonostante tutto restavano sempre dei potenziali pericoli per la società bianca.

Muddy era cresciuto nel profondo Mississippi, dove aveva vissuto il contesto di oppressione razzista in cui i bianchi puntavano a denigrare gli uomini di colore apostrofandoli con disprezzo “ragazzo”, non concedendo mai a loro lo status di uomo.

Mannish boy, con la sua perentoria affermazione di virilità nera lanciava un messaggio politico: Muddy Waters pretendeva di essere riconosciuto come uomo adulto, in grado di prendere le proprie decisioni e di affermarsi come il bluesman di punta di Chicago.

Sulla lapide della tomba di McKinley Morganfield, che dal 1983 ne raccoglie i resti poco fuori Chicago, non compare il suo nome d’arte: oltre alle date di nascita e morte, a ricordarne l’ospite c’è l’effigie di una chitarra e la scritta “The Mojo is gone, the Master is won…”

Al suo funerale B.B. King disse quello che pensavano in tanti: “dovranno passare anni e anni prima che la maggior parte della gente comprenda quanto è stato grandioso per la storia della musica americana”.

Il nome e l’arte di Muddy Waters hanno ricoperto un’enorme influenza sull’evoluzione della musica rock e questo sua nonna, intenta disperatamente a convincerlo a uscire da quelle acque fangose, non avrebbe mai potuto immaginarlo.

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