Come la letteratura ci ha raccontato la psicosi delle epidemie

In passato le epidemie che hanno decimato e terrorizzato le popolazioni sono state molte, e altrettanto numerosi furono scrittori e poeti che ne raccontarono.

Sebbene per i più la prima grande epidemia sia stata la peste nera del 300 d.C, lo storico Tucidide nel suo La guerra del Peloponneso racconta gli effetti che la peste ebbe sugli ateniesi nel 430 a.C.

“I santuari in cui si erano accampati erano pieni di cadaveri, la gente moriva sul posto, poiché nell’infuriare dell’epidemia gli uomini, non sapendo che ne sarebbe stato di loro, divennero indifferenti alle leggi sacre come pure a quelle profane.”

Intorno al 1345, a bordo delle navi mercantili provenienti dall’Asia giunse in Europa La peste nera o morte nera. All’epoca molti accolsero il morbo come un castigo di Dio e un altrettanto numero cospicuo di persone assunsero comportamenti negazionisti arrivando addirittura ad aggredire i medici dell’epoca.

Tra le città colpite dalla peste nera, figura Firenze.

E Giovanni Boccaccio, nel suo Decameron (titolo di origine greco e traducibile in dieci giorni), ci racconta di dieci giovani che fuggono dalla città, teatro di contagi e morte, per rifugiarsi in campagna.

Per Giovanni Boccaccio la peste rappresentava il male più grande della società, in quanto rischiava di sconvolgere gli equilibri sociali. E per tentare di non disperdere gli ordini, gli usi e le consuetudini, e soprattutto per tentare di ricostruirli, l’autore fa raccontare ai protagonisti novelle che hanno come sfondo i valori sociali dell’epoca.

Circa quattro secoli dopo, D. Defoe, autore di Robinson Crosue, ne La peste di Londra (1772) ci racconta della peste che colpì Londra. Defoe fa narrare il contesto ad un sellaio:

“La peste sfidava ogni medicina, gli stessi medici che se ne occupavano e gli uomini che prescrivevano agli altri cosa fare cadevano morti, distrutti proprio dal nemico che dicevano agli altri di combattere.”

Nel 600, l’Italia, soprattutto settentrionale, fu inondata dalla furia distruttrice della peste bubbonica. Il picco – come direbbero oggi i virologi – arrivò nel 1630.

Dai dati storici giunti fino a noi, possiamo dedurre che la peste manzoniana, come venne definita in seguito dagli storici, causò la morte di 1.100.000 persone su una popolazione complessiva di 4 milioni.

Nel 2020 si addossò la colpa del nuovo coronavirus alla popolazione sinica (aggressioni e razzismo verso cinesi), stessa cosa accadde anche anche nella Milano del ‘600. I milanesi tentarono di trovare un capro espiatorio esterno alla società.

Alessandro Manzoni, ne I promessi sposi, descrisse anche la psicosi che scaturì dall’epidemia.

In un passo – finito anche sui social – l’autore narra di uno “straniero” che dopo aver toccato il Duomo viene linciato, accusato di spargere il morbo.

Anche in questo nostro tempo ci sono stati scrittori che hanno affrontato l’argomento epidemiologico.

Philip Roth in Nemesi (2011), racconta la diffusione di una polio virale che decima i bambini. Da questa carneficina, i personaggi si pongono un quesito: L’esistenza di Dio. Ovvero, potrebbe un essere divino permettere i fatti narrati nel romanzo?

Nel 1978 uscì un romanzo in cui un virus, fuoriuscito da un laboratorio militare, distrusse un intero ordine sociale lasciando gli ultimi sopravvissuti in preda ai propri istinti bestiali.

Il romanzo di cui parliamo è L’ombra dello scorpione di Stephen King.

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