Anastasia Romanov: da principessa delle favole a principessa dei sogni

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“Feste, balli, fantasia: è il ricordo di sempre, ed un canto vola via quando viene dicembre.”

Alla fine di un’epoca splendente, risulta difficile cedere il passo al nuovo incanto,  lasciar svanire il ricordo e abbandonarlo all’oblio. L’incanto, il meraviglioso, il prodigio, l’incredibile ardore, il furore, un fumo destinato a trasformarsi presto in cenere e a mutare, col timore che il passo incerto e azzardato, possa rivelarsi per quello che è e che non sembrava essere: l’ingresso delle tenebre, non rischiarato dal lume della ragione. Cedere il passo è procedere al buio, nella speranza che l’incanto si riveli il più presto possibile, nel suo aspetto più magnificente, così come in quello più oscuro. Ma in questo incedere lento, nonostante azzardato, cerchiamo un simbolo che rappresenti quell’epoca splendente, una reliquia, un simulacro, una cornice che preservi i contorni di quello che un tempo fu, pur nei suoi lati oscuri, ma chiari ed evidenti, un tempo che fu ma che già non è più.

L’orologio ha scoccato la sua ultima ora, la lancetta procede e ricomincia il suo giro, la clessidra è rovesciata, i granelli terminati, il cielo assiste al sorgere di una nuova alba. Ma la memoria sfida il tempo. Prosegue per la sua strada infinita, infittita da ricordi, talvolta espliciti, talvolta celati, predestinati a scivolare nell’oblio dell’inconscio, ma a continuare ad influenzare dal profondo, l’essere, la coscienza, l’Io. In questa accezione i segni si distorcono, finzione e realtà si intersecano, laddove “dimenticare” non vuol dire banalmente “cancellare dalla memoria” ma al contrario, scegliere inconsciamente di non ricordare. E perché scegliere di ricordare, seppur con dolore, con tenacia e forza? Perché ogni epoca vissuta vale la pena di essere ricordata nella sua essenza, perché ogni unità di tempo trascorsa, ogni clessidra svuotata, porta via con sé una parte del nostro animo. Nel flusso infinito del tempo, esiste un luogo a cui apparteniamo e da cui non vorremmo staccarci mai.

Al tramonto delle monarchie europee sorse, nella memoria collettiva, il desiderio di preservare qualcosa di quel mondo: fu così che nacque il mito della principessa Anastasija.

Quartogenita dello Zar Nicola II e dell’ imperatrice Alessandra, la granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova  nacque il 18 giugno del 1901 nella reggia di Peterhof.

Anastasija, aveva 17 anni, il 17 luglio 1918 quando fu sottoposta al massacro della famiglia Romanov da parte dei bolscevichi. Della vivace bambina dal carattere sbarazzino e talvolta ribelle, rimane oggi Anastasija, principessa delle favole, l’eroina di cui si preserva la bontà e la gentilezza, l’animo e il cuore puro, riuscita a fuggire il suo avverso destino e a cambiarne l’esito.

La storia di Anastasija si lega innegabilmente ad un tormento celato, ma persistente fin dalla nascita: ella era nata al posto di un altro.

La famiglia reale non nascose il disappunto per aver dato alla luce una bambina. Anastasijaaveva infatti tre sorelle  Ol’gaTat’janaMarija. Lo Zar avrebbe dovuto aspettare l’arrivo del quinto figlio Aleksej per poter dare al trono una degna discendenza.

Nonostante ciò, Nicola per celebrare la nascita della nuova arrivata, concesse l’amnistia a tutti gli studenti che erano stati imprigionati per aver partecipato ai moti di protesta di San Pietroburgo e Mosca l’inverno precedente.

Anastasia Romanov e Nicola II

Il nome Anastasia significa, infatti, “colei che rompe le catene”, ma anche “resurrezione”. Mai un nome fu così appropriato: il mistero della “resurrezione” l’avrebbe tormentata anche dopo la morte, fino ad avvolgerla in una catena che la bella principessa dal carattere forte non avrebbe ormai potuto spezzare.

Malenkaya, “quella piccola”, shvibzik “la monella”, era nota per un carattere vivace e talvolta dispettoso, ma uno spirito ruffiano che le permetteva di essere probabilmente la prediletta tra le sorelle, molto cara al padre stesso, a cui somigliava nei tratti del volto e nel temperamento. Paffuta e di bassa statura, con gli occhi azzurri e i capelli ramati, Anastasija riusciva a conquistare chiunque avesse avuto la fortuna di incontrarla.

Cagionevole di salute, riceveva delle cure, era portatrice del gene dell’emofilia , che le comportava un disturbo nella coagulazione del sangue e soffriva di alluce valgo ad entrambi i piedi.

Lo Zar pretese per le sue figlie un’educazione completa in casa, che contemplava lo studio delle lingue, della grammatica, della musica e delle scienze matematiche.

La vita a Palazzo si presentava lontana dallo sfarzo e dal lusso e più vicina alle praticità: camerate condivise, brandine senza cuscino, secchi d’acqua fredda al mattino e bagno caldo alla sera. La vita della gran duchessa apparve diversa da quella delle principesse della sua epoca, eppure la scelta di suo padre appare oggi orientata a crescere delle donne guerriere, quasi avesse saputo la tragica sorte che sarebbe toccata loro.

Lo spirito delle donne fu attivo già durante lo scoppio della prima guerra mondiale, che generò in Anastasija un pianto irrefrenabile. Una delle stanze del Palazzo fu adibita ad ospedale per i feriti. Mentre le sorelle più grandi si occupavano dell’infermeria con la madre, Marija e Anastasija diventarono patrone dell’ospedale, utilizzarono il proprio denaro per comprare medicine e si dedicavano ai feriti, per distrarli dallo strazio della propria sorte. Leggevano per loro, giocavano a carte, rassettavano i vestiti, scrivevano sotto dettatura le loro lettere per la famiglia. Anastasija nel suo diario raccontò di aver insegnato a leggere e scrivere ad un soldato.

A testimoniare l’unione dei 5 figli dello Zar, un aneddoto riguarda il periodo della primavera del 1917: lo Zar aveva già abdicato al trono, quando le sue figlie si ammalarono di morbillo e per i forti medicinali persero i capelli. Il fratello, che era stato risparmiato dagli effetti più violenti della malattia, insistette affinchè gli fossero rasati i capelli come alle sorelle.

La famiglia reale fu arrestata durante la rivoluzione russa del 1917 e imprigionata in varie residenze, Carskoe Selo, Tobol’sk e infine Ekaterinburg, in Siberia. Le figlie non soffrirono la prigionia. Per loro neanche la vita al Palazzo era stata infatti ricca di sfarzo e comodità.

Nel maggio del 1918 la famiglia, che, per breve tempo, era stata divisa, si ricongiunse a Ekaterinburg, il patibolo. Prima di partire, le donne avevano, tuttavia, cucito nei corpetti i loro gioielli per sottrarli ai bolscevichi.

Fu lì che le loro vite ebbero fine il 17 luglio 1918 per ordine dei bolscevichi, i quali ne occultarono i corpi, per evitare che fossero trovati dai controrivoluzionari.

Questa è la storia della principessa Anastasija, una vita breve, seppur vissuta con pienezza che mal si concilia con un tragico epilogo.

 La gran duchessa divenne presto la figura più rappresentativa della famiglia Romanov, mentre un profondo mistero si infittiva sulla sua presunta morte. Dei corpi della famiglia Romanov, infatti, due non furono ritrovati. Le congetture iniziali ritennero che appartenessero ad Anastasija e al fratello Aleksej.

Ecco colei che districa le catene, ecco la resurrezione, Anastasija, che era ancora viva nella memoria collettiva, forse lo era per davvero.

Partì così la ricerca della principessa occultata, della gran duchessa dal cuore d’oro, dagli occhi azzurri e i capelli ramati. Ebbene, la ragione ci indica che non sarebbero bastati un medaglione e un carillon a far ricongiungere Anastasija con la sua dolce nonna. Non sarebbe bastato l’amore dei suoi servitori, né sarebbe bastato il canto di una voce soave che intona una ninna nanna. Eppure bastò una scintilla per accendere il fuoco del sospetto e del mistero ed alimentare la speranza che Anastasija fosse ancora viva.

Se prima non c’era una speranza, ora c’è, è Anna Anderson, la sentinella della Foresta Nera, schiava del martirio della sua mente, trafitta nel petto e nel cuore da un ricordo forse ingannevole, forse illuminante ma di sicuro così accecante da offuscarne i contorni alla vista. La chiameremo così: la donna del mistero, dei nodi non sciolti, dei sentieri infiniti della Foresta Nera.

Anna Anderson

La donna a cui sarebbe stato attribuito il nome di Anna Anderson si trovava a Berlino nel Febbraio del 1920, fermata da un poliziotto mentre era in procinto di gettarsi in un fiume, in evidente stato confusionale. La donna fu portata in un istituto psichiatrico.

Non sapeva chi fosse, né dove si trovasse, non aveva documenti né denaro, non riconosceva il suo volto, non ricordava la sua storia

Cos’è un nome? Cos’è un volto? Dove sono i ricordi? Dove la memoria?

Tasselli mancano all’interno della mente, solo una nebbia ingabbiante, polvere di memorie, scheletri, impalcature vuote, un cuore insanguinato, una ferita incolmabile, nascosta in un sentiero di parole spezzate. La memoria, quale ordigno più malevolo? Inganna, svela, illude, inebria. Ma la ferita incolmabile sanguina ancora nel cuore di chi crede, nel cuore di chi sente.

Ho accennato alle motivazioni che ci spingono a mantenere un ricordo, seppur doloroso nella nostra mente. Ma non ho detto che esistono diverse categorie di ricordi: certe volte, essi possono essere come infiammati, non riescono a persistere nella memoria e vengono messi a tacere soltanto scegliendo inconsciamente di non ricordare. Quei ricordi si troveranno dunque in quello che Freud, sommo maestro della “scuola del sospetto” chiama l’Es, l’inconscio., l’iceberg di cui intravediamo solo la punta. I ricordi smistati nell’inconscio, tuttavia, non possono essere  smaterializzati. Essi continuano ad agire in silenzio e a scontrarsi con il super-io, il modello ideale a cui vorremmo poter corrispondere. Dunque “l’io non è più padrone in casa propria” perché deve soddisfare le pretese del super-io e lasciare dormienti i ricordi dell’inconscio.

Queste pulsioni persistenti, cause di psicosi e malattie mentali, possono essere superate attraverso una rielaborazione, un percorso di psicoanalisi. Accade però che questo processo, in determinati casi, possa essere spontaneo. Basta un gesto, uno sguardo e i ricordi cominciano a riaffiorare come un fiume in piena, sovrastano le barriere che li separavano dal conscio e fluttuano nella memoria, infiammandola ed impossessandosene.

Dopo che le fossero state somministrate le prime cure, una donna nell’istituto notò la somiglianza della “sconosciuta” con la gran duchessa Tat’jana. Ecco la scintilla, il fiammifero che le rischiarò la mente, ella iniziò a sostenere di essere la principessa Anastasija, fuggita a Berlino alla ricerca dei suoi parenti, dalla quale era stata respinta. Sul suo corpo ella aveva numerose cicatrici dovute a ferite da arma da fuoco. Oltre ad una somiglianza fisica e anche “genetica” per così dire con Anastasija, della quale condivideva le patologie e gli alluci valghi, un neo particolare e l’imperfezione della falange di una mano, ella ricordava i dettagli della vita del Palazzo. La donna capiva il russo, ma i medici inquadravano la sua lingua madre come il polacco. Riguardo il giorno dell’esecuzione, sosteneva che questa fosse stata difficoltosa a causa dei gioielli cuciti negli abiti che facevano rimbalzare i proiettili. In particolare ricordava di essersi nascosta dietro la sorella Tat’jana, che i colpi l’avessero ferita solo superficialmente e che un proiettile le si fosse spezzato nel corpetto.

Ella sarebbe sopravvissuta e rivenuta dunque a casa di un soldato, spinto dalla compassione. Dopo la morte della moglie del soldato, con la quale si era recata in Romania, la presunta Anastasija si sarebbe recata in Germania da sola.

All’esterno della clinica i racconti si diffusero velocemente e furono modificati in maniera da renderli poco verosimili.

L’opinione pubblica era divisa.

Uscita dalla clinica la donna andò a vivere nella Foresta Nera, con il nome di Anna Anderson.

Anche i membri rimasti in vita della casata imperiale erano divisi. C’era chi sosteneva che ella avesse diritto ad avanzare le proprie pretese sull’oro dei Romanov, trattandosi evidentemente di Anastasjia. Di questo avviso erano anche i figli dell’ultimo medico di corte, che avevano intrattenuto un’amicizia speciale con la gran duchessa. Essi fondarono una società per il riconoscimento dei diritti di Anna Anderson come Anastasija.

Le cause si conclusero nel 1977 con un diniego del riconoscimento. Le prove risultarono insufficienti per propendere per l’una o l’altra soluzione.

Gli oppositori portarono prove sul fatto che Anna fosse in realtà la polacca Franziska Schanzkowski, una lavoratrice in una fabbrica di materiali esplosivi, da cui sarebbero derivati i segni che ella portava sul corpo. Gli Schanzkowski prima la riconobbero come propria parente, ma in un secondo momento decisero di cambiare quanto detto. Anna venne considerata pazza e truffatrice, e rinchiusa in un istituto psichiatrico. Il 12 Aprile 1984 morì di polmonite negli Stati Uniti.

Dopo la sua morte fu eseguito un secondo esame del DNA su un reperto bioptico di un intervento a cui  Anna Anderson si era sottoposta molti anni prima, che ne escluse la parentela con i Romanov. Le analisi confermarono che si trattasse probabilmente della malata psichiatrica Franziska Schanzkowski scomparsa da un ospedale psichiatrico di Berlino nel 1919.

Sembra, tuttavia, che Franziska si trovasse ancora in Polonia quando venne ritrovata Anna Anderson.

Ma chi avrebbe mai potuto accettare il contrario? Chi avrebbe mai acconsentito ad attribuire alla Anderson il titolo di gran duchessa, con il conseguente riconoscimento del ruolo di unica erede che le spettava?

L’esame bioptico avvenuto in tempi sospetti, le coincidenze tra Anna Anderson e Anastasija non avevano dissipato i dubbi della popolazione. Si alimentò, anzi, la speranza che Marija potesse essere ancora viva e non Anastasija.

Nell’agosto del 2007 vennero rinvenuti i resti di Marija e di Aleksej, che misero finalmente un punto alla nostra storia.

Così si conclude il dramma di Anastasija: nata al posto di un altro, morta al posto di un altro.

La certezza è una: Anastasija è colei che rompe le catene, tra la tradizione e la novità, tra conservazione e rivoluzione, tra realtà e fantasia, non principessa delle favole, ma principessa dei sogni, il sogno che non tutto ciò che finisce sia destinato a scomparire. E così raccontiamo di lei, e di Anna Anderson, non di una favola dai contorni splendenti, ma di un sogno in cui  tutti nel profondo continuiamo a credere.

“Feste, balli, fantasia: è il ricordo di sempre, ed un canto vola via quando viene dicembre.”

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