Scoprire la vita, cercando la morte: il paradosso dell’Io senza tempo

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Vivere intensamente per fuggire la Nera Signora, scoprirsi a cercare nuove armi per combattere l’ineluttabile: l’amore, la passione, la ricchezza, la gloria, la ricerca di valori trascendentali che ci permettano di sopravvivere nel ricordo, rinnovati dalla lode dei posteri. La filosofia oraziana del “non omnis moriar” contrapposta alla visione del “cotidie mori” caratterizzante del pensiero di Seneca.

Questa è la sfida dell’uomo moderno: andare incontro alla vita per fuggire la morte.

Siamo abituati a vivere con la costante paura della morte, che incombe sulle nostre vite come una presenza indefinita. L’indefinito colma il nostro essere e ci spaventa ad un livello inconscio ma molto potente. Riempiamo le nostre giornate con attività di vario tipo, che ci soddisfino e ci impegnino, per non dover pensare al vuoto che la fine dei tempi rappresenta nella nostra mente. Siamo luce ed ombra, sinolo di eternità e caducità. Ricerchiamo l’una per fuggire l’altra, audaci catturiamo la luce per combattere l’ombra che ci portiamo dentro, talvolta ci rifugiamo nell’ombra come lupi solitari, quasi sperando che la Signora non ci veda, quasi a volerle fare paura, pensiamo di essere capaci di aggredirla. Ma l’orologio che portiamo dentro fa sentire i suoi colpi ad ogni ora, rintocca a mezzogiorno, 2 colpi alla mezzanotte, ne percepiamo quasi le lancette. Così non abbiamo più paura della morte, ciò che temiamo e che scandisce le nostre giornate è il tempo.

Temiamo fermamente di non avere abbastanza tempo. Ma il tempo è una categorizzazione umana, perché temere ciò che da noi è stato creato?

“Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio”

Sant’Agostino

Vi siete mai chiesti da dove venga la nostra tendenza ad umanizzare il tempo? E perché possiamo misurarlo ma non descriverlo? Perché i filosofi lo hanno descritto come ciclico? Perché la religione lo rappresenta il linea retta? Perché non riusciamo a pensarlo come dovrebbe essere, cioè un’astrazione, una regola matematica?

Gli uomini hanno provato a rifugiarsi nel mito di un’esistenza gloriosa vissuta per l’eternità, rifacendosi al pensiero di Nietzsche.

Nietzsche considerava il tempo in perpetuo divenire, un divenire ciclico, passato alla storia come l’eterno ritorno dell’uguale. Secondo questa concezione, l’esatto momento che stiamo vivendo siamo destinati a viverlo e riviverlo più e più volte, nello stesso modo, nello stesso ordine, scandito dallo stesso ritmo e dagli stessi pensieri, in un divenire ciclico che non permette correzioni, non concede ripensamenti, non lascia spazio alle deviazioni, ma ruota immutabile per l’eternità.

Sovviene alla mente l’immagine dei Malavoglia, isolati dal mondo, nella piccola realtà di Aci Trezza. Verga, il verista per eccellenza, progetta una realtà che non troppo si allontana dal prototipo di Nietzsche. Le giornate dei Malavoglia sono scandite dalla ripetitività delle azioni, che si svolgono in un luogo isolato, quasi estraneo al mondo, dove anche la più piccola novità o il più piccolo cambiamento è fonte di disagio. I Malavoglia vivono una vita in continua attività con un atteggiamento passivo, sono rassegnati all’eterno ritorno dell’uguale e la loro esistenza trova posto in una nicchia, una campana di vetro, dove ogni cosa è come deve essere, non buona, non giusta, non migliore, semplicemente al suo posto. I Malavoglia sono le vittime sacrificali di una storia in cui l’uomo non può assumere un atteggiamento attivo rispetto alla vita, perché è destinato incessantemente a perdere, perché fa parte del ciclo dei vinti. E dove sono i buoni valori ? Dove è l’ammirazione per gli uomini onesti, preziosi, probi che hanno la sola colpa di essere intrappolati nella storia sbagliata? E nonostante i complimenti e l’ammirazione per tali personaggi, chi nella propria vita vorrebbe essere Padron ‘Ntoni?

Eppure io vi dico che neanche il più grande dei campioni sarebbe soddisfatto di una vita programmata e predestinata in cui l’unico ruolo che può avere è un ruolo passivo.  Perciò Padron ‘Ntoni non sarebbe diverso dal campione del Mondo, sarebbe vittima di una vita che lo plasma e lo trapassa, lo calpesta sempre e per sempre.

È il dramma dell’eterno ritorno dell’uguale, che non consola l’uomo promettendo la vita eterna, ma lo carica di un macigno ponendolo come Sisifo a trascinare un masso per l’eternità.

Con l’avvento del Cristianesimo, l’uomo ha iniziato a immaginare il tempo come una linea retta, sconfinata, interminabile, in cui non esista punto di arrivo. La linea retta indica la progressione, l’evoluzione, il riscatto, e non esiste uomo, per quanto vetusto, che riesca a intravederne l’esito.

Il Cristianesimo ha liberato l’uomo dalla schiavitù dell’eterno ritorno dell’uguale ma non da quella del perpetuo divenire. Dobbiamo richiamarci alla nostra vecchia amica, la cara clessidra di senechiana memoria. Come una clessidra che si svuota granello per granello, così la nostra vita la perdiamo giorno per giorno, sicché non è giusto dire che viviamo ogni giorno, bensì che moriamo ogni giorno. La gioventù invecchia, il mondo è in perpetuo divenire, un bocciolo diviene rosa, il bruco diviene farfalla, le foglie dell’imponente quercia diventano ogni giorno più verdi. E’ il trionfo della Primavera dell’esistenza umana che non tiene conto del gelido Inverno. Esso appare sempre più lontano.

Che ne sarà del giovane uomo, della rosa, della farfalla, della foglia più verde dell’albero di quercia? Tutto è destinato a finire. E se tutto in questo mondo ha una fine, una fine l’abbiamo anche noi.

L’ottica manzoniana di una vita guidata dal dolce soffio della divina provvidenza sembra soddisfare una parte degli uomini, che si affidano ad una visione teleologica dell’esistenza e confidano nella possibilità di essere guidati, ma allo stesso tempo lasciati liberi, per poter un domani proseguire il loro viaggio, forse in un’altra dimensione, in un altro tempo, in un altro luogo. Beh, “ai posteri l’ardua sentenza”.

Il Cristiano si appoggia alla fede, l’ateo fa ricorso alla logica, il cinico si difende con l’indifferenza.

Per il saggio Socrate, non bisognava temere la morte perché, sia che essa fosse stata un luogo di incontro con le grandi menti del passato, sia che fosse stata un perpetuo ed incessante sonno, un nulla, sarebbe in ogni caso stata la fine dei turbamenti posti dalla vita.

La tendenza lineare sembra aver dato una risposta ai problemi posti dalla concezione ciclica, l’uomo è adesso libero dal peso opprimente dell’eterno ritorno dell’uguale.

Riprenderei a questo punto la rivoluzione di pensiero innescata da Milan Kundera, che, nel libro L’insostenibile leggerezza dell’essere, analizza entrambe le concezioni e ne trae una conclusione sorprendente.

Siamo abituati ad associare un’idea di pesantezza alla concezione dell’eterno ritorno dell’uguale. Se dunque “Einmal ist Keinmal” (ciò che accade una volta è come se non fosse mai accaduto), la nostra vita, in confronto sembrerebbe, in una concezione lineare, una vita connotata dalla leggerezza. Il fatto stesso, tuttavia, che la nostra vita sia unica ed irripetibile, la carica di un peso insostenibile, che rende ogni momento speciale e pregno di significato, proprio perché singolare e fugace.

La riflessione fondamentale ci mostra come le due soluzioni non funzionino da sole, ma in sincrono. Solo attraverso un lavoro sinergico possiamo cogliere la pesantezza insostenibile che è presente e pressante in entrambe le soluzioni.

L’uomo che si trova a vivere in una concezione temporale, dove ogni esistenza è situazionalità concreta, ha secondo Heidegger due alternative. La prima è proseguire la vita “inautentica”, connotata dal pettegolezzo, dalla chiacchiera, dai tentativi vani dell’uomo di riempire la propria esistenza attraverso la ricerca di futili occupazioni di cui non resterà altro che cenere, polvere, lo scheletro di un’esistenza vuota. La seconda alternativa è più rischiosa, ed è quella della ricerca della verità. La verità è come una radura in un bosco, si cela e si nasconde, è luce. L’uomo che ha il coraggio di entrare nella radura non può tornare indietro dall’indicibile scoperta che il suo essere è un essere per la morte. Noi siamo per morire. La seconda scelta contempla il vivere tenendo conto della presenza della morte.

Come cambia la concezione della vita umana quando essa viene vissuta tenendo in considerazione la morte ?

Proporrei una riflessione su Pirandello, e il dramma “l’uomo dal fiore in bocca”. Nel momento in cui ci rendiamo conto che il nostro tempo è limitato, tutto ciò che viviamo acquisisce un’importanza fondamentale, l’orologio che abbiamo dentro, improvvisamente, smette di contare i secondi e inizia a contare gli attimi. Gli uomini gloriosi si attivano a godersi la vita utilizzandola nel mondo migliore possibile, nella speranza di essere ricordati. Perché è di questo che ci nutriamo, di sogni e di speranze, e ognuno di noi spera che quando la clessidra si svuoterà, non morirà del tutto. Dicono che le emozioni, gli affetti intensi, rimangano nella memoria delle persone che li hanno vissuti,qualcuno li chiama gli “amabili resti”, i legami che come una scia invisibile ti tracciano e ti avvolgono, un mondo delle ombre, che ci segue ad ogni passo, ma che noi non riusciamo vedere. Fare parte di questo mondo delle ombre da vigliacchi o da eroi dipende da noi.

Vivere con il peso della morte significa dar valore alla nostra esistenza. L’uomo che è conscio del proprio valore, in quanto esistente, è un uomo felice che non teme la morte, ma la saluta come una vecchia amica, perché l’ha conosciuta dal primo alito di vita ed essa ha sempre fatto parte di lui, non è più indefinita.

Nascita e morte coincidono. E’l’anima che ritorna alla propria sede naturale, da cui è stata esiliata per un breve periodo sulla Terra, dopo un lungo e faticoso, sebbene piacevole, peregrinare. Cerchiamo di fuggire la morte, vivendo intensamente la vita, ma in realtà ricerchiamo la morte in maniera naturale, ed è nella nostra ricerca inconscia della morte, che andiamo incontro a quella che noi chiamiamo vita. 

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