Questo articolo racconta il film Yesterday di Danny Boyle in un formato che intende essere più di una semplice recensione: lo scopo è andare oltre il significato del film e fornire una analisi e una spiegazione delle idee e delle dinamiche che gli hanno dato vita.
Viviamo in un presente che, diciamocelo con franchezza, è più che brutto sotto molti aspetti, con una pandemia mondiale che non si vedeva da più di un secolo che è solo la ciliegina su una torta preparata almeno due decenni fa. La cosa ci dovrebbe riavvicinare non soltanto a determinati valori, ma portarci soprattutto alla ricerca di sensazioni di sicurezza e felicità provate prima di tutto questo caos. Questo si traduce nella riscoperta di vecchi oggetti, vecchie mode e soprattutto vecchia musica.
Questo aggettivo chiaramente è puramente provocatorio, perché ad un’opera d’arte non si affida questo epiteto. La freschezza di alcuni brani musicali, o di qualsivoglia opera artistica non può conoscere età, dato che nonostante la tecnologia imperante, i problemi umani rimangono simili sin dalla notte dei tempi delle nostre civiltà (molto spesso è proprio la sopracitata “professione” a portare alla luce tali difficoltà). Ecco così spiegata la passione per tutto quello che è stato e la ribalta di apparecchiature che sembravano oramai archiviate nello spazio tempo delle nostre vite.
Anche su queste dinamiche si basa lo Yesterday di Danny Boyle, grazie ad un altro mago delle commedie all’inglese, quel Richard Curtis che negli anni ha fatto sua “la nostalgia”, intavolando commedie che sono diventate dei piccoli cult, tra cui spiccano Quattro matrimoni e un funerale e Nothing Hill. È chiaro sin dall’inizio che la pellicola possiede un’aura intrinseca di quella cool britannia dei sixties riapparsa come per magia poi negli anni Novanta, ed i due protagonisti ne sono l’emblema più spendente. Himesh Patel alias Jack Malik, praticamente al suo esordio nel mondo del cinema, dopo aver fatto una lunga gavetta in piccole serie tv in patria, è molto bravo nel ruolo di outsider. Riesce a convincere Boyle anche per la sua padronanza con il piano e la chitarra oltre che per la sua voce con “un’anima” a detta del regista. L’attore di origini indiane, è affiancato da una splendida Lily James/Ellie Appleton, con quella dolcezza e compostezza tipicamente inglese che potrebbe ricordare per risolutezza e supporto al musicista, una giovane Linda Eastman, poi divenuta McCartney.
Il regista di Manchester dopo l’utopia (di questi tempi è molto difficoltoso definirla tale) di 28 giorni dopo, fa riaffrontare al pubblico un’altra sorta di apocalisse, decisamente più benevola nei confronti della razza umana. Solo che l’assenza dei Fab four si fa sentire a gran voce, quasi come una mancanza d’ossigeno, sia per lui che per le altre due persone che ricordano della loro comparsa e ascesa. In più molti altri grandi gruppi, non sarebbero mai nati se non avessero tratto ispirazione dalla band di Liverpool. Incredibilmente in questo mondo musicalmente monco tra l’altro esisterebbero gli Stones, una vera e propria costola dei Beatles, e non si sarebbe paventato neanche il Brit-pop che tanto segnò una generazione in Europa negli anni 90’.
Come tutti gli inglesi non più giovanissimi, anche Boyle è cresciuto con il mito dei Beatles, lui stesso racconta come da ragazzino giocasse con le sue sorelle ad interpretare i vari componenti della band, e che a lui venisse relegato il ruolo di John ed alla sorellina più piccola la facoltà di scegliere tra George e Ringo perché la sorella gemella aveva una sorta di veto su Paul. Anche questo rapporto intimo con la loro musica ha portato il regista a contattare i rimanenti membri della band e gli eredi dei mancanti e chiedergli “Il permesso” di poter fare un film con questa tematica, la risposta, soprattutto quella di Ringo a quanto pare è stata più che divertita, concedendogli ovviamente il beneplacito.
Se c’è però una delle emozioni più difficilmente descrivibili è l’incontro con un Lennon ancora vivo del protagonista: lo sfondo (e chi ama la band sa di cosa sto parlando) è quella casetta a pochi passi dal mare d’Irlanda che John possedeva e che compare anche nel videoclip del singolo (Just Like) starting over, tratto da quello che purtroppo sarebbe stato il suo ultimo album, Double Fantasy. Immaginarsi un John dedito alla riflessione ed ai suoi dipinti che si gode la vecchiaia dona una sensazione di pace ed ammirazione, ripensando a tutto quello che un talento del genere avrebbe ancora potuto fare non soltanto per la musica e soprattutto da che parte si sarebbe schierato in questi tempi così dannatamente ondivaghi e privi di qualsivoglia ragione.
In sintesi la pellicola, che si presta a più di una interpretazione, rende omaggio non soltanto ad una band, ma ad una intera epoca artistica probabilmente ma più ripetibile, strizzando l’occhio anche alla nuove generazioni: la presenza di Ed Sheeran ai fini di trama può risultare anche piacevole, ma ci fa percepire anche quanto il mondo della musica sia cambiato trasformandosi in qualcosa di molto differente da quello che ha rappresentato. Il risultato finale è un miscuglio di impressioni, perlopiù positive, che come la coperta di Linus ci spingono in una comfort zone che soprattutto ora rappresenta un rifugio da dove ripartire.