Perché il Festival di Sanremo non morirà mai

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Errare è umano, perseverare è diabolico, continuare per settant’anni è da Festival di Sanremo. Le tradizioni sono tradizioni, insomma, e come tali vanno rispettate – oppure cambiate in corso d’opera. Un tempo, ad esempio, ci si riferiva al “festival della canzone italiana” che si svolgeva nel teatro del casinò della città dei fiori, oggi lo si chiama soltanto “Sanremo” (dando per scontato che a tutti gli abitanti interessi e, soprattutto, che ciascuno di loro partecipi).

In settant’anni di vita il “carrozzone” più longevo d’Italia è diventato ormai parte integrante della nostra vita quotidiana al punto da utilizzarlo tanto nei discorsi di ogni giorno, quanto come metro di giudizio per indicare quale genere di musica non piaccia o meno. Volenti o nolenti, siamo – chi più chi meno – coinvolti in questa manifestazione da tante di quelle generazioni che sembrerebbe quasi assurdo se, da un giorno all’altro, decidessero di non organizzarlo più (ipotesi comunque irrealizzabile, dato il suo volume economico ogni anno): probabilmente perfino i refrattari, gli scettici e i detrattori si sentirebbero un po’ più annoiati, quantomeno durante la prima settimana di febbraio.

A pochissimo dalla conclusione dell’ultima (infinita) serata della settantesima edizione del festival – con più colpi di scena, spoiler e imprevisti almeno degli scorsi vent’anni – è forse il tempo di fare un bilancio. Sanremo, in questi sette decenni di vita, ha incarnato una linea a volte lontana dal gusto del paese reale ma pur sempre specchio dei grandi cambiamenti che la musica di intrattenimento ha vissuto nel tempo. Se volessimo prenderlo come un esempio della teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche, potremmo vedere che in sett’anni non c’è stata un’edizione in cui (al di là di retoriche e refrain da comici un po’ alla frutta) qualcuno non si sia lamentato della qualità riscontrabile solo nel passato o di presunti scandali legati a figure più o meno controverse che con il tempo assurgono a grandi nomi o classici della nostra canzone. È successo quando, a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, sono apparsi i primi cantautori e gli urlatori che si dimenavano sul palco e, percorrendo la linea verso il 2020, è lo stesso si è ripetuto quando il maggiore pubblico Rai (per quantità) si è trovato sul palco dell’Ariston rapper o ex concorrenti dei talent. Oggi si rimpiangono i giovani di una volta e si disprezzano – magari senza approfondire troppo, “per sentito dire” – quelli di adesso, esattamente come accadeva venti, trenta, quaranta, ma anche cinquant’anni fa.

Al teatro del casinò o all’Ariston, sul palco più fiorito della musica italiana si sono avvicendati volti e voci di ogni tipo, abbigliati in vario modo spesso e volentieri ritenuto di rottura (nei confronti di cosa, però, spetta a ciascuno di noi deciderlo) e destinati a rimanere nella storia se non per la grandezza del brano, almeno come partecipanti del festival. Le meteore, gli sconosciuti, le grandi firme, le scoperte… Tutto si ripropone senza formula fissa anno dopo anno e a questo punto la domanda che sorge spontanea è: sono assuefatti dalla manifestazione quelli che non si danno per vinti e la seguono sempre oppure sono svegli quelli che ne stanno alla larga? Probabilmente la risposta è e sempre resterà la stessa, cioè nessuna delle due opzioni è quella giusta. Nessuno ha torto e nessuno ha ragione, prima lo impariamo e prima riusciranno le due fazioni a godersi i propri interessi con maggior serenità.

Come possiamo facilmente immaginare, lo stesso vale anche per tutte le altre maestranze “che ci mettono la faccia” e concorrono allo sviluppo dei fatti: conduttori, conduttrici (ancora poche, purtroppo), vallette e valletti, ospiti nazionali e internazionali, direttori artistici e sponsor, anche loro sono costantemente oggetto di critica, elogio, riproposizione e damnatio memoriae. Fa parte del gioco, ma soprattutto fa parte di Sanremo e chi vuole il proprio nome nella lista deve un po’ accettarlo.

Martedì la festa per i settant’anni del festival era appena cominciata e ora, conclusa la puntata del sabato, è già finita. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si modifica. Anche a Sanremo, che ci sembra sempre uguale a se stesso non esserlo mai totalmente.

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