Alle origini del Natale: significato, tradizione e simboli

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Il Natale è la festa più celebrata e sentita dell’anno, perché ricorda l’incarnazione di Gesù, Figlio di Dio, speranza dell’umanità, in una cornice fiabesca ed arricchita da svariate e molteplici tradizioni culturali, che affondano radici più antiche dello stesso evento che commemora.

In questa breve sintesi, cercheremo prima di tutto, di concentrare la nostra attenzione sulle fonti epigrafiche e pseudoepigrafiche che narrano della venuta di Gesù Cristo, il messia.

La nascita di Gesù e i Vangeli

Guardando le pagine dei Vangeli di Matteo e Luca, i due testi che dedicano più spazio alla nascita di Gesù, ci si accorge facilmente del loro intento teologico e spirituale nella descrizione degli eventi, a scapito della precisione storiografica, caratteristica peraltro poco in uso presso gli autori dell’antichità. Gli autori dei predetti Vangeli, attribuiti per convenzione a Matteo e a Luca, non prestano particolare attenzione nel riferire l’anno della nascita del Messia, riportando generici riferimenti al regno di Erode, re di Giudea (Lc 1,5; Mt 2,1). Le ricostruzioni esegetiche ci consentono di identificare il personaggio citato con Erode il Grande, che regnò circa quarant’anni e morì nel 4 a.C.. Già questi particolari, unitamente all’approssimazione delle datazioni, ci fanno capire come il computo dell’era cristiana, che parte dall’anno “zero” della presunta nascita di Cristo, sia soltanto indicativo e poco attendibile.

I redattori dei Vangeli, con ogni probabilità non erano in grado di riferire l’anno esatto della nascita di Gesù e, soprattutto, non erano interessati a farlo. Le loro principali preoccupazioni erano quelle di spiegare come il Messia, concepito per opera dello Spirito Santo senza concorso d’uomo, potesse essere considerato nel contempo discendente di Davide e come la sua vita si presentasse drammatica fin dal momento della nascita.

È da notare che i Vangeli di Matteo e di Luca, pur evidenziando tanti punti in comune, impongono riflessioni diverse, perché i fatti sono elaborati da due punti di vista quasi opposti. Mentre Matteo narra gli eventi dalla visuale di Giuseppe, descritto come un personaggio di primo piano, Luca concede molto più spazio a Maria, regalandoci anche qualche elemento psicologico della giovinetta. Per Matteo è fondamentale porre l’accento sulle perplessità di Giuseppe, davanti alla gravidanza della promessa sposa, tradendo la sua vicinanza alla comunità giudaica, legalista e tradizionalista, mentre Luca, il più colto degli evangelisti e colui che usa una sintassi greca più raffinata, fa trasparire, con il suo affresco poetico dell’annunciazione da parte dell’angelo, la volontà di parlare un linguaggio più prossimo alle popolazioni pagane di cultura ellenistica. Il Vangelo di Luca presenta l’Annunciazione all’interno di una casa, sotto forma di dialogo, dove le parole sono scelte con cura per sottolineare il legame dell’incarnazione di Gesù con tutta la storia dei patriarchi di stirpe ebraica, mentre i racconti dei vangeli apocrifi tendono a spettacolizzare l’evento, collocandolo in un luogo aperto al pubblico.

Dal punto di vista strettamente del costume, al di là del significato apparentemente contraddittorio tra la fase di Maria “non conosco uomo” e la scelta di Giuseppe di prenderla, comunque, in sposa, vi è da segnalare che, a quel tempo, una donna che avesse voluto rimanere vergine non poteva, in ogni caso, vivere isolata, né esistevano gruppi organizzati religiosi di sesso femminile, al contrario di comunità maschili dedite al celibato, come quella degli Esseni.

Come è ammesso dalla maggior parte della comunità scientifica, anche da studiosi non squisitamente religiosi, i Vangeli di Matteo e Luca provengono da due fonti più o meno indipendenti, che concordano, però, su alcuni punti principali: la discendenza davidica di Gesù, il nome della madre e del suo sposo Giuseppe di stirpe davidica; il concepimento verginale per opera dello Spirito Santo; la nascita nella località di Betlemme; l’attribuzione della scelta del nome “Gesù”, per rivelazione divina; la successiva scelta della città di Nazareth come dimora fissa.

Un altro aspetto fondamentale, tutt’altro che trascurabile, è l’acclarata teoria secondo la quale il primo nucleo dei Vangeli fosse costituito dalla storia della passione e della resurrezione di Gesù, mentre tutti gli altri elementi sarebbero stati aggiunti dopo, con l’intendimento di dare un quadro teologico unitario. Se si osserva con attenzione, in tutti e quattro i Vangeli, sia nei tre sinottici Marco, Matteo e Luca che in quello più spirituale di Giovanni, la parte descrittiva più strutturata è proprio quella della passione e della resurrezione che, già di per sé, potrebbe costituire un racconto autonomo sotto il profilo letterario. A ciò si aggiunge il fatto che Marco e Giovanni non si soffermano affatto sugli anni dell’infanzia di Gesù. Alla luce di tale considerazione, si può dedurre che molti elementi riferiti alla nascita, sono stati inseriti “a posteriori” per giustificare l’opera di salvezza e di redenzione del Messia, allo scopo di offrire una lettura unitaria con l’evento apicale della resurrezione.

Il colto Luca, probabilmente un medico, si preoccupa, tuttavia, di inserire qualche ragguaglio storico, collegando la nascita di Betlemme al censimento imperiale, ordinato per decreto da Cesare Augusto, quando governatore della Siria era un certo Quirinio (Lc 2,1-2). La precisazione di Luca ha sollevato notevoli diatribe tra gli storici, in quanto non vi è un’attestazione certa del censimento ordinato da Augusto ed, inoltre, lo storico ebreo Giuseppe Flavio riferisce che Quirinio fu governatore della Siria tra il 6 e l’8 d.C.. Questo dato dimostra ancora di più come la precisa ambientazione storica sia lacunosa e frammentaria, soprattutto alla luce del fatto che Luca, al capitolo 3 del suo Vangelo, collega la nascita di Gesù al governatore della Palestina, personaggio più riconoscibile in tale contesto. Sul rifugio trovato dalla sacra famiglia, in assenza di ripari più confortevoli, Luca parla di “mangiatoia”, probabilmente collocata in una stalla, forse una piccola grotta scavata nel fianco della collina, non molto lontana dal centro abitato.

Come abbiamo visto in precedenza, sia Matteo che Luca fanno riferimento ad Erode, il re che sedeva sul trono della Giudea, al tempo della nascita di Gesù. Anche su tale figura, gli elementi principali sono forniti dallo storico ebreo, ma di lingua greca, Giuseppe Flavio, che lo collocò nel quadro del conflitto della dinastia degli Asmonei e nel più generale panorama della lotta tra Parti e Romani per il controllo del Medio Oriente. Erode aveva ricevuto l’appoggio di Marco Antonio prima e di Cesare Augusto dopo, ricevendo dal senato la nomina di re di Giudea. La storiografia moderna avrebbe definito Erode un “collaborazionista”, pur essendo inviso alla nobiltà romana per l’efferatezza dei suoi gesti che non si limitarono a massacrare i nemici, ma furono rivolti contro i suoi stessi figli, condannati a morte, in quanto ipotetici rivali. L’episodio della “strage degli innocenti” non è testimoniato da Giuseppe Flavio, né da altre fonti storiche, ma ben si inquadra nel comportamento crudele e dissennato di Erode.

I Vangeli canonici, a differenza degli apocrifi, riportano pochissimi elementi riguardo all’infanzia di Gesù. La civiltà moderna presta particolare cura alla fanciullezza, sensibilità che non si ritrova così marcata e consueta presso le culture antiche. Soprattutto nell’ambiente giudaico dell’epoca di Gesù, “uomo”, nel vero senso della parola, era solo colui che ha la capacità di osservare la “Legge divina”, mentre il bambino non è ancora in grado di farlo. Il compito dell’educazione religiosa grava sul padre, il quale deve introdurre il figlioletto all’osservanza delle diverse pratiche cultuali, insegnandogli la recita quotidiana dello “Shemà” e della preghiera delle “Diciotto benedizioni”. Quando sarà in grado di camminare, il padre porterà il figlioletto al tempio, per trasmettergli, passo dopo passo l’osservanza della Legge.

La carica d’affetto e di preoccupazione, con la quale Maria e Giuseppe crebbero Gesù, così umana e commovente, traspare dalla domanda della madre al figlio, scomparso dalla carovana dei pellegrini di ritorno da Gerusalemme: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo (Lc, 2,48).

È necessario considerare che i ragazzi e le ragazze non conoscevano il periodo dell’adolescenza, come noi consideriamo al giorno d’oggi. Seguendo i dettami del diritto rabbinico, si passava direttamente dalla fanciullezza all’età adulta. Ciò si verificava nel periodo della pubertà, più o meno a dodici anni per le ragazze e a tredici per i ragazzi. In tutta la letteratura rabbinica, infatti, non è possibile individuare riflessioni psicologiche o pedagogiche sulle difficoltà del passaggio dall’età della fanciullezza all’età adulta, a differenza di alcuni testi ellenistici, dove, al contrario, si poteva intravedere una certa sensibilità in merito. Per la ragazza, a quell’epoca, era normale sposarsi intorno ai dodici/tredici anni, molto spesso già impegnata da tempo nel fidanzamento, mentre per i maschi si verificava di solito intorno al diciottesimo anno d’età, anche se preventivamente concordato.

Luca ci offre qualche ritratto della formazione psicologica di Gesù, anche se molto frammentario: “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza” (Lc 2, 40). In altri passi, l’evangelista mette in evidenza come Gesù si distinguesse dagli altri ragazzi, impressionando i dottori del tempio ed evidenziando già i germi di una coscienza messianica. È significativo, tuttavia, come Luca voglia far corrispondere l’acquisizione di un alto livello di maturità nel giovane Gesù, solo dopo aver concluso il normale iter scolastico rabbinico. Da altri passi, apprendiamo che Gesù imparò da Giuseppe il mestiere di carpentiere e tale “mestiere” farà da sfondo sulla bocca di tutti, pieni di meraviglia, quando Egli comincerà a compiere i prodigi legati alla sua missione.

Le tradizioni del Natale

Come abbiamo detto in apertura, il Natale, nella tradizione popolare, è diventato la festa più suggestiva dell’anno, anche se dal punto di vista religioso e teologico è sicuramente meno importante della Pasqua, che ricorda la resurrezione di Gesù, fondamento dell’intero impianto dottrinale cristiano. Il santo Natale cade il 25 dicembre per tutte le Confessioni cristiane, anche se per quelle romano-occidentali si fa riferimento al calendario gregoriano, mentre quelle orientali adottano ancora il calendario giuliano, festeggiando la festività il 7 gennaio, con un ritardo, quindi, di tredici giorni. Attualmente anche le Chiese greco-ortodosse, con eccezione di quelle slavo-ortodosse e di quelle siriache-copte, si sono adeguate al calendario gregoriano, pur mantenendo quello giuliano per le celebrazioni liturgiche.

Dal punto di vista etimologico, il termine “Natale” deriva per ellissi dall’espressione latina “diem Natalem Christi” (giorno della nascita di Cristo). Come si è sviluppata la celebrazione di tale solenne ricorrenza e come è stato individuato proprio il 25 dicembre? È necessario precisare che le prime comunità cristiane non festeggiavano la nascita di Cristo come solennità, anche perché l’intero sistema liturgico non era ancora definito e consolidato, limitandosi alla celebrazione domenicale (giorno del Signore), per ricordare l’evento della resurrezione di Gesù. I primi riferimenti sulla festività del Natale, anche se abbastanza lacunosi, risalgono al IV secolo, mentre la prima menzione attestata della corrispondenza della festività della nascita di Cristo con il 25 dicembre è dell’anno 336. Tale menzione si ritrova nel “Chronographus”, opera del letterato romano Furio Dionisio Filocalo.

Le ragioni originarie, secondo le quali, fu scelta la data del 25 dicembre non sono del tutto note, l’unico elemento certo è che non si tratta della data effettiva della nascita di Cristo. Appare verosimile l’ipotesi, secondo quanto ormai ampiamente diffuso nell’ambito della comunità scientifica, che la data del 25 dicembre fu individuata per sostituire la festa del “Natalis Solis Invicti” con la celebrazione della nascita di Gesù. Ed, infatti, uno degli appellativi più frequenti del Figlio di Dio, è appunto quello di “vera luce o sole dell’umanità”. Non mancano soluzioni diverse, anche se di minore attendibilità logica e storica, che si rifanno a tradizioni ebraiche o diffuse in ambito ellenistico. È abbastanza chiaro, tuttavia, il fatto che la tradizione cristiana è andata progressivamente sovrapponendosi a quella popolare e contadina preesistente: nello stesso periodo, infatti, nell’antica Roma si celebravano i “Saturnalia”, in onore della divinità dell’agricoltura, in corrispondenza dell’inizio dell’inverno astronomico, nel corso del quale era in uso, soprattutto tra le famiglie più agiate, scambiarsi doni e dedicarsi a luculliani banchetti. Nel corso del Medio-evo, quando i missionari cominciarono a predicare il Cristianesimo tra i popoli germanici, molti simboli pagani delle popolazioni convertite furono ricondotti alla festività del Natale.

Una delle interpretazioni divergenti più famosa è quella dello studioso ebraico Shemarjahu Talmon dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Talmon cercò di ricostruire le turnazioni sacerdotali degli Ebrei, applicandole al calendario gregoriano, sulla base dello studio del libro dei Giubilei, un testo apocrifo, scoperto a Qumran. La sua ricostruzione, peraltro accolta con molta diffidenza, porterebbe alla sconvolgente conclusione che la nascita di Gesù Cristo potrebbe coincidere proprio con il 25 dicembre. Si tratta, comunque, di un’ipotesi abbastanza ardita, in mancanza di testi antichi, a parte interpretazioni teologiche “a posteriori”, che attestino la coincidenza di tale data con lo straordinario evento dell’incarnazione del Salvatore.

Le stesse gerarchie ecclesiastiche, tra cui il grande riformatore papa Gregorio Magno, favorirono l’approccio sincretico per facilitare l’adattamento culturale delle popolazioni nordiche. Alcuni simboli natalizi attuali richiamano, in maniera evidente, le tradizioni germaniche e celtiche, come l’uso decorativo del vischio, l’agrifoglio e lo stesso conosciutissimo albero di Natale.

L’albero di Natale e il Presepe

L’usanza dell’albero di Natale ha origine in un lontano passato, quando già le popolazioni nordiche di svariate culture avevano l’abitudine di adornare gli alberi con nastri, animaletti simbolici, oggetti colorati, icone del sole e di altri astri, per far splendere la luce anche nei mesi bui dell’inverno. Alcuni culti arborei servivano ad invocare l’aiuto delle divinità attraverso l’albero della vita, denominato anche albero cosmico, nel periodo del solstizio d’inverno, quando il sole sembrava fermarsi all’orizzonte e poi ripartire per regalare, pian piano, altre stagioni luminose.

Le popolazioni celtiche e vichinghe, che adoravano i fenomeni naturali, chiedevano al Sole di “ritornare”, usando soprattutto gli abeti, ritenuti magici, in quanto sempreverdi ed immuni dalla caduta delle foglie autunnale. Tra l’altro, l’albero ha avuto sempre un’importanza cosmica per tutte le civiltà antiche, come l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male nel panorama biblico, due simboli distinti, poi confluiti in una comune tradizione popolare, la cui trattazione meriterebbe una sintesi a parte. Per quanto riguarda la conversione dell’antica simbologia dell’albero nell’adattamento natalizio, per alcuni studiosi, l’uso moderno dell’albero di Natale nacque a Tallinn, in Estonia, nel 1441, quando fu innalzato un grande abete nella piazza del Municipio. Si narra che, intorno a tale albero, uomini e donne giovani ballavano in allegria, alla ricerca dell’anima gemella. Tale tradizione fu poi ripresa in Germania nel XVI secolo.

Un’altra tradizione colloca la nascita dell’usanza dell’albero, in corrispondenza con il Natale, a Riga in Lettonia, nel 1510, quando la Confraternita delle Teste Nere, un’associazione di commercianti, pose un albero al centro della piazza principale, per poi darlo alle fiamme durante la notte di capodanno. Altre ricostruzioni, invece, fanno risalire il primo albero di Natale al XIII secolo, a Basilea in Svizzera. In ambiente teutonico, nel XVIII secolo, la tradizione dell’albero di Natale fu inizialmente una prerogativa delle zone di religione protestante posizionate a nord del fiume Reno, mentre a Vienna tale usanza apparve nel 1816 ed in Francia nel 1840, per volontà della duchessa di Orleans. Nel Regno Unito fu introdotto dal marito della regina Vittoria, il principe Alberto di Sassonia-Coburgo.Gotha, comunque, di origine germanica.In Italia il personaggio più influente che addobbò il primo albero di Natale fu la regina Margherita, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, al Quirinale. Negli anni successivi l’usanza cominciò a dilagare celermente in tutto il Paese, aggiungendosi all’altro grande simbolo natalizio diffuso nella penisola, il presepe.

Il presepe è l’altra grande tradizione natalizia, che consiste in una rappresentazione della nascita di Gesù risalente all’epoca medioevale. Si tratta di una tradizione nata nel nostro Paese e poi diffusasi in tutto il mondo cattolico. Le principali fonti del presepe sono i Vangeli di Matteo e Luca che, come abbiamo già visto, descrivono gli eventi della nascita di Gesù a Betlemme, una piccola località della Giudea, ma famosa per aver dato i natali al re Davide. Numerosi elementi del presepe, però, traggono spunto dai Vangeli apocrifi, soprattutto dal protovangelo di Giacomo. L’origine etimologica del termine “presepe” ha dato vita a vari dibattiti.

Per la maggior parte degli esegeti, deriverebbe dal latino “praesepe”, che vuol dire sia mangiatoia, sia recinto dove erano custoditi ovini e caprini. Un’altra ricostruzione si riferisce al verbo latino “praesepire”, che significa recingere. È curioso osservare che il termine “presepe”, oltre che in Italia, è utilizzato in Ungheria, perché arrivò a Napoli nel XIV secolo, quando un nobile della casata degli Angioini, diventò sovrano di quelle regioni. Invece, nelle prime vulgate evangeliche medioevali tale rappresentazione era indicata con il termine latino “cripia”, traducibile in italiano “greppia”, con poche varianti negli altri idiomi europei (creche in francese, crib in inglese, krippe in tedesco). Gli studiosi, tuttavia, fanno risalire l’evoluzione storica del presepe alle prime rappresentazioni artistiche della sacra famiglia, come la raffigurazione della Vergine con Gesù nelle catacombe di Priscilla sulla via Salaria a Roma, opera di un anonimo artista del III secolo. E nell’Umanesimo del quindicesimo secolo fiorirono i dipinti dei grandi maestri, come l’Adorazione dei Magi del Botticelli (Uffizi, Firenze), la Natività della Cappella degli Scrovegni a Padova, per mano di Giotto, la Natività di Lippi (Museo Diocesano di Milano) etc.

Il passo dalla raffigurazione pittorica a quella tridimensionale fu breve, anche se il primo ad attuarla fu San Francesco d’Assisi nel 1223 a Greccio, dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte di papa Onorio. San Francesco aveva compiuto un viaggio in Palestina ed era rimasto colpito dalla visita a Betlemme. Nella grotta di Greccio si celebrò la Messa con un altare posticcio posto sopra una mangiatoia, con la presenza dei due animali della tradizione, il bue e l’asinello.

Il presepe, comunque, come rappresentazione plastica, iniziò a diffondersi nelle regioni dell’Italia centrale nel Quattrocento, entrando nel regno di Napoli il secolo successivo. Il grande salto fu compiuto nel Settecento, con le grandi scuole genovese, bolognese, ma soprattutto napoletana. In questo secolo, nella città di Napoli, allora in piena fioritura culturale, al punto da colpire Stendhal che l’annoverò tra i tre più vivaci centri europei, insieme a Parigi e a Londra, i nobili scatenarono una vera e propria competizione, su chi potesse vantare il presepe più ricco e sontuoso. Nella seconda metà del diciottesimo secolo, si diffuse anche l’abitudine di allestire il presepe nelle chiese durante le festività natalizie. Nei secoli successivi, il presepe diventò un simbolo per tutti, arrivando anche nelle case borghesi e popolari, nonchè rappresentando un’icona di sacra devozione.

Babbo Natale

Per concludere, non può mancare qualche cenno alla figura di Babbo Natale che, nella tradizione popolare di molte culture, solitamente la notte della vigilia, dispensa doni ai bambini. L’origine del noto personaggio, denominato “Santa Claus” nei Paesi anglofoni, deriva dalla figura storica di san Nicola, vescovo di Myra, attualmente Demre in Turchia. Su di lui si raccontano tante leggende, tra cui quella che avrebbe ritrovato e riportato in vita cinque fanciulli, rapiti da un oste. Per questi motivi, legati all’accertata vita caritatevole condotta nei riguardi dei più umili, San Nicola è considerato il protettore dei bimbi.

Il nome “Santa Claus” trarrebbe origine dalla denominazione olandese “Sinterklaas”. San Nicola è anche il patrono della città di Bari, dove furono in parte trasportate le reliquie del santo nel 1087. Anche nello sviluppo della figura di Babbo Natale vi è stata una commistione tra cultura cristiana e tradizioni pagane precedenti. Ad esempio, nel folclore germanico, si credeva che ogni anno il dio Odino, raffigurato come un uomo anziano dalla lunga barba bianca, tenesse una battuta di caccia nel giorno di “Yule”, il solstizio d’inverno, insieme ad altre divinità e ad alcuni valorosi guerrieri. La leggenda, legata a tale evento, narrava che i bimbi lasciassero i propri stivali accanto al caminetto, pieni di carote, paglia e zucchero per sfamare il cavallo volante di Odino, Sleipnir. Come ricompensa, Odino avrebbe sostituito il cibo con regali e dolciumi.

Un’altra tradizione norrena racconta le vicende di un uomo giusto, identificato in genere con san Nicola, alle prese con un demone crudele, che terrorizzava il popolo entrando dalla canna fumaria. Il probo doveva catturare il mostro ed imprigionarlo con ferri magici, o benedetti in epoca cristiana. Nelle moderne rappresentazioni Babbo Natale raccoglie le precedenti raffigurazioni di colui che porta i doni, come un uomo anziano e corpulento, vestito di rosso, con il mantello verde lungo fino ai piedi e ornato di pelliccia.

Il messaggio della festa del Natale non è esclusivamente religioso, appannaggio di una fede teorica e teoretica, ma, attraverso le sue immagini ed il suo adattamento a tutte le culture, riesce a penetrare nell’anima degli uomini e delle donne di ogni razza. A volte ci sentiamo tutti come Scrooge, il protagonista del magnifico romanzo di Charles Dickens, Canto di Natale: dopo aver incontrato i tre fantasmi del passato, del presente e del futuro, prendiamo coscienza dei nostri atti egoistici ed indifferenti, accendendo la timida fiammella del cambiamento interiore.

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