La biblioteconomia aurea e la strana storia di Claudio Linati

Per bibliothecam homo designatur.
(Eterio, vescovo di Osma, 790)

Una premessa: la scienza biblioteconomica

Si parla di biblioteconomia intendendo, per etimologia – dal greco – ‘la legge dei libri’, con chiaro riferimento a tutto un sistema di princìpi regolanti l’acquisizione, la conservazione ed infine la fruizione della conoscenza registrata, ossia ogni tipo di espressione intellettiva veicolata cognitivamente dal linguaggio umano, materialmente da un supporto, fisico (ad esempio un libro) o non fisico (ad esempio un file digitale). È dunque il classico esempio di una disciplina che, pur operando in silenzio, dimessa, tramite le sue strategie elaborative influenza, inevitabilmente, tanto molti ambiti del vivere quotidiano di ciascuno di noi, quanto varie dinamiche societarie dotate di più ampio respiro.

Procederemo dunque attraverso due momenti fondamentali: una sintesi delle tappe essenziali della storia della biblioteconomia (per nulla esauriente, ma in grado di fornire degli appigli rudimentali a chi volesse approfondire concetti, regole di classificazione – proprio quelle regole che ci permettono di reperire un volume in una qualsiasi biblioteca, o di effettuare una ricerca sul web – e/o figure di intellettuali solo accennati) seguita da altri lineamenti inerenti alla vicenda (davvero poco nota) di Claudio Linati, amico di Antonio Panizzi – forse la figura più rilevante per la fondazione della disciplina moderna – e uomo che molto contribuì, forte della sua capacità di disseminare pensiero tramite oculate operazioni editoriali, alle cause della stabilizzazione dell’indipendenza del Messico e dei moti rivoluzionari spagnoli della prima metà dell’ ‘800. Inutile dire che anche in questo caso lo scopo è prevalentemente quello di stimolare nel lettore desiderio di approfondimento e di ricerca, per esplorare una personalità meno conosciuta di un più celebre Garibaldi, di un Mazzini, o di un Berchet, ma non poco interessante.

Il ruolo di Antonio Panizzi

Innanzitutto Panizzi. Panizzi è stato l’intellettuale che forse più di ogni altro ha fornito strumenti necessari allo sviluppo di tutto un eccellente filone speculativo successivo, di marchio anglo-sassone: il suo atto di fondazione è paragonabile a quanto fece Beethoven con la musica occidentale ottocentesca, Petrarca con la poesia italiana, Cesare con la politica romana: tutte figure che si rivelarono determinanti in parte per la genialità delle loro intuizioni, in parte per la legge della profezia che si autoavvera, dato che la loro fortuna è dovuta ovviamente ad una posteriorità che li ha omaggiati, attraverso un’emulazione che ha assunto proprio questi individui come fondamenta per l’edificazione di immense strutture ideologiche e metodologiche, per secoli e secoli.

Tornando a noi, a partire dalla metà del XIX secolo l’evoluzione fondamentale della biblioteconomia è stata di stampo inglese ed americano (e Panizzi fin da giovane si fece inglese ‘nei modi, nelle opinioni, in tutto’ dice Mazzini) più che europeo. Sia chiaro dunque che ci riferiamo a questa sfera disciplinare nella sua accezione più moderna, e non risalendo a sistemi di organizzazione del sapere precedenti alla fine del Settecento. Sulla base de I nostri valori, rivisti di Michael Gorman, ultima e recente trattazione riguardante l’ etica ideale del bibliotecario modello – edito nel 2018 – pare sensato concepire l’idea di speculazione e pratica lavorativa ‘auree’ (con chiaro riferimento alla Golden Age – così è comunemente conosciuta fra i bibliotecari – di cui parleremo fra poco) intese come tali da servirsi di strumenti riconducibili a tre precise facoltà umane: Razionalità, Trasparenza, Umanità.

  • Razionalità: ossia la capacità dialettica di far succedere corrette deduzioni a partire da assiomi, è la base del metodo scientifico e in biblioteconomia permette di portare a termine con quanta più correttezza ed efficacia possibile qualunque obiettivo, inerente vuoi alla sistematizzazione dei cataloghi, vuoi al servizio offerto al pubblico, vuoi alla costruzione della struttura fisica delle sale della biblioteca.
  • Trasparenza: ossia la capacità di rendere chiaro agli occhi di chiunque il funzionamento di qualunque processo, sistema, compito portato a termine grazie alla Razionalità; è evidente quanto alle volte ciò che è oggettivamente logico non necessariamente finisce per dare alla luce anche un prodotto generalmente trasparente.
  • Umanità: ossia la capacità di non perdere, a causa dell’esercizio potente della ragione e della logica, l’ abitudine di entrare in empatia con ogni individuo appartenente al bacino d’ utenza della biblioteca, indipendentemente da ogni attributo a lui connesso (età, religione, etnia etc…).

Una linea sintetica di bibliotecari esemplari devoti a questi principi vede in primo luogo ergersi una sorta di triade che costituisce lo zoccolo duro della prima menzionata Golden Age, l’Età Dorata: Panizzi, Jewett, Cutter (è poi il periodo dell’ invenzione da parte di Dewey del proprio sistema decimale di classificazione; nel 1876 viene fondata l’ ALA, nel 1887 la School of Library Economy presso la Columbia University), singoli intellettuali che apportarono, senza l’ausilio di commissioni ordinarie, ingenti sistemi di principi teorici riguardanti la catalogazione descrittiva, servendosi in grande abbondanza soltanto di intuizione e competenza personale. Pur iniziando, dal 1908 – con il noto codice di regole catalografiche anglo-americane – una fase di declino per tutta la disciplina (dovuta in gran parte all’incapacità di accordo delle commissioni a cui si iniziò ad affidare la redazione di cataloghi e relative regolamentazioni, in luogo di singole personalità che gestissero il lavoro con maggiore autonomia), la produzione dei vari Osborn, Lubetsky, Ranganathan analizza e offre spunti risolutivi alla crisi della prima metà del XX secolo, destinata a trovare risollevamento con l’Internacional Conference on Cataloguing Principles di Parigi del ’61 e i successivi sviluppi elaborati fino ad oggi, più o meno direttamente annesse a quella stessa conferenza internazionale (vengono alla mente RAK, AACR2, RICA, linee guida teoriche rispettivamente proprie della sfera d’ azione tedesca, anglosassone e italiana, IMCE col conseguente risultato di ISBD etc…). La definizione di queste tre qualità mi ha ricordato da vicino le tre categorie – tanto care alla tradizione filosofica occidentale) di mente (la razionalità), materia (dunque la trasparenza, intesa come capacità di piegare il pensiero astratto proprio della razionalità, di per sé stesso sterile, ad un servizio tangibile e capace di adeguarsi alla realtà dei fatti) e anima (dunque sensibilità e attitudine all’ incontro, e non allo scontro, nei confronti dell’ altro).

Da Panizzi a Linati 

Sulla base dell’ epistolario panizziano possiamo prendere visione diretta dei rapporti fra vari intellettuali coinvolti nelle movimentate vicende internazionali ottocentesche. Maggiore attenzione hanno ricevuto i rapporti fra Antonio Panizzi ed importanti esponenti della cultura italiana del tempo: Ugo Foscolo, William Gladstone, Luigi Settembrini, Francesco De Sanctis, Giovanni Berchet. Nell’accostarmi alla lettura delle epistole contenute nell’esemplare pubblicazione edita da Luigi Fagan sono rimasto a dir poco colpito da una figura ben meno celebre degli uomini poc’anzi menzionati, ma non, a mia detta, meno mirabile in quanto a profusione di impegno civile e politico: il conte Claudio Linati.

Nato a Parma il primo febbraio 1790, proprio nella città natale fu condannato a morte in contumacia il 9 Aprile 1824, accusato di congiurare a discapito del governo del tempo. Fu così costretto a morire esule a Tampico, in Messico, l’11 Dicembre 1832. Suo figlio Filippo fu in seguito Senatore del Regno d’Italia. Le sue lettere a Panizzi ci danno un’idea piuttosto precisa di quella che era la vita della maggior parte degli esuli italiani, molti dei quali dopo i moti del ’21 furono costretti a rifugiarsi in Spagna, dalla quale si allontanarono nel ’23: oltretutto emergono i tratti di una personalità che dedicò tutto il proprio impegno nella missione del Risorgimento italiano, incarnando le “virtù singolari di quella generazione irrequieta ed esaltata, ma di sentimenti generosi e punto scettica” (Luigi Fagan).

Le epistole che ci sono pervenute sono cinque: una risalente al 1823, tre al 1824 e una al 1829. Le prime tre furono inviate dal Linati quando si trovava in Francia, l’ultima del ’24 da Bruxelles e quella del ’29 da Città del Messico. Il mosaico politico europeo vede da poco esaurita la spinta rivoluzionaria napoleonica, ma il nuovo equilibrio restauratore stabilito nel 1815 col Congresso di Vienna fin da subito non darà garanzie di stabilità: i moti spagnoli del 1820-21 saranno il primo segnale di un’Europa stanca dei regimi assolutisti, anelante a nuovi orientamenti. Proprio a partire dalla narrazione della partecipazione a questi moti può essere compiuta una descrizione delle epistole di Linati a Panizzi. Carlo Linati infatti a partire dal 1822 si dedicò alla causa dei costituzionalisti iberici, in opposizione ai realisti e alle truppe francesi; alla testa di un gruppo di cacciatori di montagna, i cosiddetti ‘micheletti’ – corpo radunato ed armato a spese dello stesso Linati – ottenne la riconquista del Forte di Seo de Urgel, poi difeso a costo di numerose sofferenze (fra le quali il rapimento della figlia). Il governo reazionario spagnolo, restaurato, addirittura condannò a morte il Nostro, separandolo dalla famiglia e confiscandogli ogni bene.

Fortunatamente – o purtroppo: iniziò un altro calvario – lo Stato spagnolo dovette consegnarsi ai Francesi, e di qui Linati fu costretto ad un soggiorno che lo vide coinvolto in numerosi spostamenti di città in città, con la famiglia che riuscì comunque a rientrare in Italia. Nel frattempo a Parma, alla fine di un lungo processo intentato contro i riottosi del 1820-21, Claudio Linati era stato inserito nella lista dei sospetti appartenenti alla carboneria, e fu accusato di aver scritto un proclama – in latino – per le truppe ungheresi venute in Italia con l’intento di reprimere i moti napoletani, come a voler far sì che si distogliessero dallo scopo prefisso. In un primo momento di condannato in contumacia a dieci anni di carcere (10 Febbraio 1824), poi addirittura, come si era detto, alla pena di morte e al sequestro dei beni da parte del Supremo tribunale. Sempre nel 1824 si trasferì a Bruxelles, dove iniziò una fertile produzione scritta (tragedie, traduzioni dal francese, scritti vari), ma di cui non ci rimane altro che sommari resoconti nelle sue lettere.

Nel Settembre del 1825, grazie alla possibilità offertagli dal nuovo governo repubblicano dei Paesi Bassi, si recò in Messico, dove, ottenuta la cittadinanza, aprì il primo laboratorio litografico e una scuola di disegno. Con l’aiuto di un amico, Fiorenzo Galli, e del poeta profugo cubano José María de Heredia y Campuzano, il 4 Febbraio 1826 diede vita alla prima rivista letteraria del Messico da poco indipendente, ‘El Iris’, periodico critico-letterario che si prefiggeva lo scopo di intrattenere il pubblico, maxime femminile, con finalità politico-civiche. Per questo fu presto osteggiato da altre testate quali ‘El Aguila’ ed ‘El Sol’, rischiando inoltre l’espulsione dallo Stato. Nonostante le avversità riuscì a pubblicare ben quaranta numeri in due tomi, avendo come argomenti filosofia, scienze, arte militare, musica e moda, trattati principalmente da Galli, e poesia, critica letteraria e teatro a cura di Heredia; infine le questioni di alta politica erano affidate al Linati. La rivista, arricchita da ritratti litografici di personaggi contemporanei e da immagini di costumi locali, uscì fino al 2 Agosto 1826.

Nel Settembre 1826 Linati partì per l’Europa; dopo non lunghe soste a New York, Londra e Anversa, nel Marzo dell’anno successivo giunse nei Paesi Bassi, dove rimase per due anni, ancora dedicandosi ad attività di giornalismo e di disegno. Pubblicò un’opera a fascicoli, Costumes civiles, militaires et religieux du Mexique, facendo largo uso di illustrazioni corredate da dettagliate note didascaliche, lavoro accolto con grande interesse e recensito benevolmente dalla ‘Gazette des Pays-Bas’. Collaborò inoltre con la rivista L’Industriel, scrivendo articoli sull’arte europea, sul commercio degli schiavi, sulla storia e la realtà dell’America Latina, sempre servendosi di un profondo atteggiamento critico e di libero pensiero.
Passi dall’epistola dal Messico del ’29 e la lezione del post Restaurazione ottocentesco per il nostro tempo.

Claudio Linati espresse la sua volontà di azione politica, i suoi intenti eroici nella massima misura in Messico, grazie ad un’ampia operazione di divulgazione culturale. Così descrive il nuovo mondo col quale era entrato in contatto: “in pieno mezzogiorno certi mascalzoni […] specie di lazzaroni semi-ignudi, ti rubano, e nessuno si muove a soccorrerti, perché non c’è giustizia rettamente amministrata”, e ancora: “l’ufficialità non sa il suo mestiere, né vestono uniforme, ma vedi un tenente che ti pare un generale, anzi un maresciallo gallonato, impiumato, e vedi poi generali laceri, e altri con uniforme e cappello rotondo, e infine uno scompiglio. Se poi costoro hanno a divenir Repubblicani, come gli intendiamo noi, ci vogliono almeno tre generazioni, perché genìa più viziosa e corrotta, dedita al gioco e alle crapule, affé non l’ ho mai vista.”

Quello del Linati in Messico è solo un esempio di quanto il monopolio dei media e della censura bibliografica, il controllo dell’editoria e dei centri di fruizione culturale (su tutti le biblioteche, degli archivi, dei luoghi insomma deputati alla conservazione della memoria) costituiscano buona parte dei mezzi di controllo della società: lungi da noi far menzione a fantasiose teorie del complotto, ma parliamo di realtà misurabili e desumibili grazie alla semplice osservazione della realtà circostante; realtà per certi versi necessaria, perché anche una società costituita da governanti dabbene deve necessariamente regolarsi su un certo grado di strategica azione operativa capace di agire sull’inconscio degli individui, modellando quantomeno una forma mentis collettiva che impedisca una totale anarchia.

È evidente che il regime totalitario in luogo dello Stato democratico insorge nondimeno quando la misura di questo tipo di controllo oltrepassa il limite della necessità finalizzata al mantenimento di un ordine, per sfociare in una vera e propria ideologia-gabbia mentale costruita per tutelare i privilegi dei dominanti. Dovrebbe essere quindi necessario far riferimento alla lezione che un certo autentico spirito di rinnovamento permea l’Ottocento post Congresso: nello specifico il caso di Claudio Linati è esemplare, per via dell’effettivo rapporto fra i frutti del suo operato ed il discrimine fra condizione attuale (ossia un degrado che fino a quel momento coinvolgeva uno Stato del Messico sottoposto in maniera vincolante ad un becero colonialismo militare e culturale) e potenziale (ossia le ricchissime risorse materiali e non) della nazione centro americana. Un Risorgimento militare e politico è pressoché sempre preceduto da un risveglio di coscienza instaurantesi sulla base della fruizione della memoria scritta, in quanto questa tipologia di apprendimento dà adito ad un’accrescimento delle conoscenze che è a dir poco esponenziale rispetto all’esperienza personale e all’ interazione con singoli individui.

El Iris offrì ai Messicani la possibilità di entrare in contatto con una nuova visione della donna, con le letterature europee, con la corrente del Romanticismo. Con l’inizio dei rapporti di pubblicazione fra El Iris e Horacio Santangelo iniziò ad infuriare il commento politico, e fu l’inizio dell’ instabilità della rivista: Heredia, anima letteraria del periodico, rifiutò di continuare a prestare il proprio servizio (erano passati cinque mesi dall’inizio del suo operato). Nonostante la chiusura dei battenti editoriali ormai in Messico si era instaurato uno spirito critico fino ad allora non concepito in una misura tale di monumentalità noetica: inutile dire che ormai il seme era stato piantato, e un nuovo atteggiamento di critica (estetica, politica, sociale, economica) avrebbe pervaso il neoistituito Stato (l’indipendenza sussisteva dal 1821), di modo che la recente libertà dal colonialismo fosse stabilizzata e assicurata in maniera sempre più salda.

Testimonianza della nuova permanenza di questo elemento dello spirito critico fu proprio dovuto alla nuova rivista promossa dallo stesso Heredia, El Argos, di cui affermava: “Questo periodico dovrebbe sostituire l’Iris sotto lo stesso piano, dedicandosi in particolare alle arti e alla letteratura.” Sempre nell’epistola rivolta al Panizzi, descriveva le condizioni in cui versava l’America centrale: pur ribadendo infatti che un’autonomia politica ufficialmente riconosciuta a livello statale era stata ufficializzata, nella sostanza dei fatti il peso del colonialismo e la volontà spagnola di insistere nel tentativo di riconquista erano realtà di piena compiutezza, e in parte proprio a causa della negligenza e delle asprezze interne al governo autoctono:

“Un popolaccio infingardo, dedito alle più minute pratiche di superstizione. […] il governo finora poco fa per tirarlo da questo fango vituperato, perché l’ unico mezzo a ciò ottenere, che è quello d’impadronirsi della generazione nascente e distorla dal mal esempio de’ padri, con molteplici stabilimenti di sana educazione, il governo, dico, non lo fa, il fa mollemente. Languisce il Lancasterianismo, e tutto ciò che tende a illuminare e a migliorare, e anzi che ci sia la sua fazione tenebrosa nel Congresso, che teme gli stranieri e ì lumi che recano, e sino i tesori che versano dando vita a questo paese”.

Ricordiamo che questa descrizione dello stato delle cose messicane risale a ben tre anni dopo la fondazione della rivista di Linati; pare dunque che il lavoro da svolgere per garantire un progresso innanzitutto di mentalità fosse ancora pienamente in fieri. Le vicende di un popolo non si esauriscono nel militare e nel politico, ma come già affermavo occorre che un’uniforme forma mentis permetta alle volontà dei singoli di muoversi in armonia, o quantomeno con obiettivi e premesse in buona parte comuni.

Come si acquisisce una mentalità collettiva? Attraverso la condivisione di valori e idee fondate su esperienze conoscitive comuni. Dal passo appena menzionato si evince come la stessa élite politica guardasse con sospetto a quello stesso vento di opportunità che dall’Europa soffiava per il tramite del Linati e pochi altri. Purtroppo il suo impegno non ebbe un risultato stravolgente od eclatante come quello ottenuto da altri grandi uomini del tempo, ma il valore di un individuo lo si misura innanzitutto dalla misura di azione e volontà che egli stesso profonde, rinunciando nel quotidiano a tutta una serie di comodità e di scelte che quantomeno garantirebbero il suo singolo benessere. Questo è un ottimo strumento di misurazione del valore umano: la valutazione di quello a cui si rinuncia ogni giorno, a favore di se stessi, per contribuire ad un Bene superiore. Chi di noi è pronto a questa dedizione?

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