Anders Petersen: un fotografo alla corte del Café Lehmitz

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La malinconia è una delle più ingrate attenuanti del secolo scorso. Il Novecento ha traghettato l’espressione umana verso lande quanto mai oscure, di volta in volta osteggiato da un malfermo “senso comune”. Il nichilismo, la sperimentazione, la messa in gioco e il superamento della tradizione, lo smarrimento dell’umano di fronte a un “senso” quanto mai sfuggente. Il progresso supporta e logora, offre all’uomo la stima esatta di quanto “fragile” sia rispetto all’evoluzione tecnologica che impone a sé e alla natura. Posto di fronte allo specchio, l’uomo è terrorizzato e realizza la sua fuga.

A volte l’atteggiamento è battagliero, provocatorio, l’arte squarcia con violenza il velo. Altre volte è arreso e decadente, l’artista s’aliena ed isola. Reale è solamente il sogno che ne ingloba la veglia.

Anders Petersen è svedese e nel 1962 ha 18 anni. Si è trasferito da poco ad Amburgo, città che ha per lui lo stesso spessore di una cartolina. Un giorno passeggia assetato per le vie a ridosso del porto, costeggiando ignaro il vecchio quartiere a luci rosse. Bordelli pericolanti dominano l’insieme, dietro le vetrine mezzelune di dolenti, compiacenti sorrisi. Lingerie lisa a incorniciare carni vizze, fresche, usci socchiusi, spiragli bui, tendine tirate. Quanto vuoi? Quanto mi dai? Squarci di pulviscolo abbacinante spalancano orifizi stradali a guizzi di sole. Puttane e travestiti si accompagnano barcollanti da un indirizzo all’altro, tossici ciondolano pallidi tra lunghe ciglia di marinai e ragazzini selvatici. Nei vicoli e sui muri s’impastano cifrari e bestemmie. Il cielo se li succhia via ad ogni crocicchio, senza pena. Echi disperanti e speziati di un mondo che fa regola a sé.

Anders cammina, cerca un bar dove poter bere qualcosa e posare il culo su uno sgabello. Trova una stamberga malconcia e scura, entra e si siede al bancone. Si guarda un po’ attorno, ordina qualcosa e va al cesso, lasciando la macchina fotografica incustodita su una sedia. Quando torna la ritrova tra le mani di un lungaccione in vestaglia da donna. Scatta foto, studia incuriosito il flash. Il posto si chiama Cafè Lehmitz ed è un locale invisibile, frequentato da gente invisibile. Alcolizzati, prostitute, protettori e travestiti, barboni, tossici, musicisti e scrittori falliti, esuli e vedovi. Il collage umano è variegato, la disperazione già tradotta in fatalismo arreso: ognuno aspetta la morte a proprio agio nel vizio che ce lo porterà. Anders chiede indietro la macchina, promettendo che scatterà qualche foto del locale e dei suoi avventori. E così fa. Frequenta poi il Lehmitz per qualche mese, stringendo rapporti di amicizia coi suoi più assidui clienti. Lascia infine Amburgo per tornarvi solo qualche anno più tardi, deciso a lavorare su un nuovo progetto fotografico. Il titolo che ha in testa è Café Lehmitz.

Bene, quanto detto finora altro non è che una leggenda. O comunque qualcosa di molto simile.

È certo che nel 1962 Petersen soggiornò per qualche tempo ad Amburgo, ma altrettanto certo è che entrò per la prima volta al Lehmitz solamente nel 1968. Tornato in città per rivedere alcuni vecchi amici, fu informato da una vecchia conoscente che, per un motivo o per l’altro, erano quasi tutti morti. Le chiese allora dove avrebbe potuto farsene di nuovi, e lei lo scortò al Lehmitz.

Anders rimase talmente entusiasta del posto e dei suoi avventori che prese la decisione di tradurre quella piccola corte dei miracoli in un progetto fotografico.

Trasformò il bar in una sorta di set, restituendone senza troppi filtri la vita segreta. Tra gli altri fotografò Scar, un anziano minuto con un passato da mangiatore di spade, le teenager Mona e Roxy, spogliarelliste in un vicino locale, la prostituta Ramona che un tempo si chiamava Karl, Uschi dalla lunga parrucca color dell’uva. Qualcuno ebbe il tempo e la presenza necessaria per mettersi in posa, altri furono sorpresi sdraiati sui tavolini, rovesciati sul pavimento, intenti a scambiarsi effusioni, a bere, a ballare, piangere, menarsi, mostrare il culo, truccarsi, urlare, cadere.

Una delle immagini più note del volume Cafè Lehmitz, edito nel 1978 e considerato oggi una pietra miliare della fotografia in BN, è quella che ritrae l’abbraccio tra Lily e Rose. Legata a doppia mandata al cantautore americano Tom Waits, che la scelse per la copertina di Rain Dogs, è senza meno una delle più suggestive. I due protagonisti, a differenza di molti degli avventori del bar, non avevano storie particolarmente travagliate alle spalle. Lei era una donna piuttosto corteggiata e Rose, detto anche Knight Of The Rose per via del tatuaggio che portava sul braccio, un giovanotto sempre elegantemente vestito, nonostante l’aria da scavezzacollo. L’abbraccio che li unisce in foto ha un che di profondamente materno. Rose è a torso nudo, ha gli occhi chiusi e poggia il viso sul petto di Lily, che ride in direzione di qualcuno e lo abbraccia teneramente. Lui è assorto e completamente rilasciato. Da sottolineare l’incredibile somiglianza tra Rose e Waits, che secondo alcuni scelse la foto proprio per questo motivo.

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