Chi è Joel Meyerowitz, il guru delle foto di strada

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“The day I met Robert Frank, I had no desire to change my life. I wasn’t looking for any change”.

È con queste parole che Joel Meyerowitz, street e landscape photografer americano tra i più quotati al mondo, presenta il punto zero del proprio percorso artistico. Non che l’arte fosse qualcosa di totalmente estraneo alla vita del giovane e brillante art director newyorchese, ma quest’ultimo non immaginava certo che potesse diventare una missione di vita e un lasciapassare per il gotha della fotografia contemporanea.

The Americans di Robert Frank esce nel 1958. È un albo edito inizialmente in Francia e presenta 83 delle più di 27mila fotografie scattate da Frank tra il 1955 e il 1956, durante un viaggio negli States. A bordo della sua Ford Business Coupe il fotografo immortala l’America, rendendo un collage variopinto e caleidoscopico di volti, fermenti, mode, abitudini, vizi e virtù di un continente in continua evoluzione. Volti e corpi affrancati per sempre dalla propria epoca, impressi ad aeternum sulla pellicola del tempo. Nei bar, per strada, nelle piazze, nei vicoli e nei negozi, oltre le finestre e gli stereotipi: Frank passa l’America ai raggi X, ne seziona il corpo ed evoca l’anima, presentandola nei suoi pregi e nelle sue contraddizioni, difetti ed aspirazioni. Non deve stupire che la prefazione alla prima edizione di The Americans sia stata vergata da Jack Kerouac, che a proposito dirà: “Quella folle sensazione in America, quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica di un juke-box o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio in quarantotto stati su una vecchia macchina di seconda mano”.

È il 1962 e Meyerowitz, folgorato dall’incontro con Frank, abbandona la propria occupazione e prende a vagabondare per la Grande Mela con la macchina fotografica al collo. Sono gli anni in cui le vie della metropoli sono battute da altri “randagi” del calibro di Garry Winogrand e Tony Ray-Jones, intenti a rendere speciale l’ordinario, ad innalzarne l’apparente non-significanza ad arte e dando l’abbrivio a quella che sarà poi ribattezzata dai critici – non senza un qualche iniziale snobismo – street photography. La variegata vita quotidiana dei newyorkesi, nella sua nobiltà e miserie, viene trasversalmente scandagliata.

Con buona pace degli addetti ai lavori Joel fotografa inizialmente a colori, ma un incontro con Winogrand lo convince quasi subito a passare alla pellicola 35mm BN. Lo affascina la tangibilità delle stampe, il poterle tenere in mano gliele fa sentire più “reali”, concrete. Il ritorno al colore avviene comunque in tempi non sospetti, ovvero nel 1972, ben prima dello sdoganamento della fotografia a colori ad opera di John Szarkowski, che avverrà solo quattro anni più tardi. Afferma di voler perdere il minor numero possibile delle informazioni che i suoi scatti intendono trasmettere e che la fotografia in bianco e nero se ne lasci scappare troppe. Per confermare questa sua teoria inizia a portare con sé due fotocamere con pellicole diverse, una a colori e una in BN, creando dei dittici di immagini perfettamente identiche.

In questo periodo muta anche il suo modo di guardare e fotografare: il campo si allarga e dall’uomo si estende al paesaggio, che viene acquisendo nella sua arte un’importanza primaria. Grande attenzione viene adesso dedicata anche allo studio della luce e della composizione. Per questi motivi viene presto avvicinato alla corrente dei new topographics, interessati al rapporto tra uomo e paesaggio e all’influenza del primo sul secondo. E se la teoria cambia anche gli strumenti mutano: dalla 35mm Meyerowitz passa al banco ottico, che permette la stampa delle immagini in formati molto più ampi. Di questo periodo possiamo ricordare il volume capolavoro Cape Code, pubblicato nel 1976 e considerato a tutt’oggi una pietra miliare della fotografia a colori.

Aftermath: World Trade Center Archive, pubblicato nel 2006, è probabilmente l’opera più nota del fotografo e documenta la terribile tragedia dell’11 settembre. Costretto dal disastro ad interrompere il progetto Looking South, che avrebbe previsto una serie di scatti dal suo studio verso downtown, a sud dell’Isola di Manhattan, Meyerowitz, superata una serie di ostacoli burocratici, si avventura tra le rovine di Ground Zero. L’America è in ginocchio, nel panico, ma unita nel profondo da un sentimento comune.

Le foto riprendono il passaggio funesto della Storia – secondo l’accezione di Terzani – in tutta la sua crudezza. Unico fotografo autorizzato ad addentrarsi nell’area subito dopo gli attacchi, Meyerowitz avanza nell’orrore immortalando nelle rovine la propria stessa alienazione, restituendo analiticamente uno squarcio vivo nella psiche collettiva degli americani e offrendo al tempo stesso una dura quanto disincantata riflessione sul rapporto tra visione dell’uomo e disintegrazione delle sue certezze più basilari.

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