Muhammad Ali: la storia, la biografia e le sue frasi più belle

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Diceva: “Io sono il più grande, l’ho detto prima ancora di sapere che lo fossi.”

Si sentiva già da ragazzo: “the Greatest”, il più grande pugile di tutti i tempi. Una sorta di ispirazione, di chiamata, vissuta ogni giorno della sua vita.

“I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Devono avere resistenza fino all’ultimo minuto, devono essere un po’ più veloci, devono avere l’abilità e la volontà. Ma la volontà deve essere più forte dell’abilità.”

Le sue parole erano la sua filosofia di vita, piena di coraggio, determinazione, gioia, volontà di cambiamento e con lo stesso spirito Ali unì la boxe alle battaglie sociali, con anche l’ironia che non gli mancava mai.

“Il miglior modo per realizzare i propri sogni è: svegliarsi”

Così prima dei combattimenti, si divertiva a leggere poemi in rima da lui scritti e dedicati, da antesignano rapper.

“Se sogni di battermi, è meglio che ti svegli e chiedi scusa.”

Amava questo stile superbo, sfrontato, allegro, ironico. Di fronte a Sonny Liston, campione del mondo in carica, detto il distruttore (in palestra i punching balls volavano via strappati di potenza), Ali, che aveva 22 anni e meno potente, disse ai giornalisti:

“Sono giovane, sono bello; sono veloce. Non c’è possibilità che io venga battuto.”

E vinse.

Le parole come pugni, i pugni come parole, le carezze come la sua ironia ed autoironia. Le parole per darsi coraggio, per offrirlo, per impaurire, irridere i suoi avversari, finanche sulla bellezza.

“Non credo di essere bello. Ma che valore ha la mia umile opinione contro quella che invece dichiara lo specchio?”

Le parole, di cui comprendeva il peso e le loro conseguenze, soprattutto per le sue battaglie politiche. Diceva ai ragazzi di colore per incitarli allo studio:

“Se possono trarre la penicillina da del pane ammuffito, sicuramente potranno tirare fuori qualcosa da te.”

Muhammad Ali “sconfitto” da un bambino vittima del bullismo

Sul ring però era sempre corretto. Quante volte, visto il suo avversario oramai in difficoltà, con lo sguardo chiamava l’arbitro per fermare l’incontro e non infliggere ancora inutili colpi.

Sebbene consapevole che pure la sconfitta, nella vita come nello sport, può essere determinante per le future vittorie.

“Solo un uomo che sappia cosa vuol dire essere sconfitto può scendere fino al fondo della sua anima e venire su con quell’oncia di potenza necessaria per vincere quando il combattimento è pari.”

Il suo stile con la guardia bassa ed il continuo danzare sul ring non era amato dai puristi. Lo declamò lui stesso, come si declama una poesia: “float like a butterfly, sting like a bee” – vola come una farfalla pungi come un’ape.

Proprio in questi giorni una mostra al PAN di Napoli, aperta dal 22 marzo al 16 giugno 2019, mostra le foto delle sue grandi imprese sul ring intervallate dai suoi aforismi, dai video scherzosi in cui lui si prestava a giocare in forma di candid camera con i bambini. Foto di folle che lo acclamavano come leader carismatico.

La sua vita fu un incrocio nella Storia, come accadeva agli eroi dell’epica antica. Questo ragazzo dotato di una personalità straordinaria, fu il più grande pugile di sempre, di colore, in una America razzista, e divenne tra i protagonisti di una rivoluzione sociale e culturale americana.

Per comprendere il suo valore sportivo, basta ricordare che nella storia dei pesi massimi è stato l’unico pugile ad essere tre volte campione del mondo, battendo ogni volta il campione in carica 1964, nel 1974 e nel 1978, pur essendo costretto all’allontanamento dalla boxe per un periodo di tre anni. È come per un atleta vincere tre Olimpiadi, saltandone una, battendo tre generazioni diverse di pugili.

Ma già a 18 anni, vinta la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma, non risparmiò di manifestare la sua insoddisfazione per l’America dell’epoca:

“Tornai a Louisville dopo le Olimpiadi con la mia luccicante medaglia d’oro. Andai in un ristorante dove i neri non potevano mangiare. Pensavo di metterli in imbarazzo. Mi sedetti e chiesi da mangiare. Il campione olimpico che indossava la sua medaglia d’oro. Dissero: “Qui non serviamo negri.” Io dissi: “Va bene, io non li mangio.” Ma mi buttarono fuori sulla strada.”

Per comprendere allora il fenomeno culturale e sociale di Ali occorre capire la sua America e la sua personalità.

Ali era nato nel 1942 a Louisville, in un’America ancora razzista. Si può partire da due episodi simbolo della sua infanzia: l’essersi visto rifiutare l’acquisto in un bar di una bottiglia d’acqua, perché di colore, e l’assassinio di un ragazzino di 13 anni di colore, di un anno più grande, Emmett Till, sequestrato ed ucciso da due uomini bianchi per motivi razziali. I due, sebbene colpevoli come da loro ammesso successivamente, furono assolti, in un processo farsa da una giuria di soli bianchi.

Era l’America che negava il diritto di voto alla popolazione di colore, mentre aveva chiesto loro un notevole contributo di vite nella Seconda Guerra Mondiale. L’America in cui la legislatura della Louisiana cercava di trovare mille strade per rallentare l’esecuzione di un ordine federale, per l’inserimento dei bambini di colore nelle scuole per bianchi. In cui c’erano alberghi e ristoranti che in cui era vietato l’accesso alle persone di colore.

Muhammad Ali e Malcom X

Ali voleva un’altra America, non più razzista, e lottò con la tenacia, la determinazione, l’audacia, il coraggio di un pugile che rischia ad ogni incontro.

“Io sono l’America. Sono la parte che non volete riconoscere. Ma vi dovrete abituare a me: un nero molto sicuro di sé, aggressivo. Con il mio nome, non quello che mi avete dato voi, la mia religione e non la vostra, i miei obiettivi.”

In una visione sempre pacifica e pacifista.

“Odiare le persone a causa del loro colore è sbagliato. E non importa quale colore uno odia. È semplicemente sbagliato.”

A 23 anni, praticamente un ragazzo, iniziò la sua battaglia politica e culturale americana. Il più il grande pugile di tutti i tempi, nel pieno delle sue potenzialità fisiche, campione del mondo in carica, si rifiutò di andare in guerra in Vietnam. Antepose le lotte antirazziali e pacifiste ai successi sportivi ed alla sua vita privata.

E fu la rivolta. Arrestato, condannato a 5 anni di galera, fu vilipeso dai giornali che lo definivano codardo e sospeso per tre anni dall’attività sportiva, con la relativa restituzione del titolo.

“La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’ … Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera.”

Ma la svolta c’era stata un anno prima ed era interiore. Una rivoluzione personale, sociale, religiosa. Il giovane Cassius Clay divenne musulmano, cambiando il suo nome originario in Muhammed Ali, come a far perdere ogni traccia dell’America del suo tempo dalla sua vita. Una America che aveva già condannato gli uomini e le donne di colore ad una vita senza diritti.

La sua scelta fu dettata da motivi non solo religiosi, ma sociologici, culturali, contro l’ipocrisia di una società ancora razzista. Come disse con l’ironia che non gli mancava mai:

“Dicono ai bambini che Gesù era bianco, così come gli apostoli e gli angeli. Il posto in cui vive il presidente si chiama Casa Bianca. Perfino Tarzan è bianco. Ma come? Bianco uno nato e cresciuto nella giungla?”

Fu una scelta di identità e di rottura, per essere egli stesso portatore di una nuova coscienza, di una visione nuova in America, per sé e per gli altri.

Ma Muhammad Ali fu soprattutto una filosofia di vita che lui stesso realizzò: credere in sé stessi, prima di tutto, sempre. Un attaccamento a sé, per difendersi dalla bruciante realtà in cui viveva. A fronte di una società divisa e divisiva, che condannava all’emarginazione una parte della popolazione, la risposta di quel ragazzo fu un attaccamento vitale a se stesso, che poi divenne alle idee di pace, libertà, uguaglianza, in un unico scopo, una unica sfida che diveniva nel contempo personale, pubblica e sportiva.

“È la mancanza di fede che rende le persone paurose di accettare una sfida, e io ho sempre avuto fede: infatti, credo in me.”

Solo credendo in sé poteva pensare di essere in grado di modificare la realtà.

Combattere sempre, sul ring e fuori dal ring, in tutt’uno tra battaglie sociali ed incontri di boxe.

“Ciò che mi tiene in movimento sono i miei obiettivi.”

Cambiò così con lui il senso della boxe del tempo. Lui stesso la descrisse con l’ironia e il sarcasmo, tipica delle sue battute:

“La boxe è quando un sacco di bianchi stanno a guardare due neri che si riempiono di botte.”

Ma intorno al suo ring arrivarono invece attori, intellettuali, politici, registi. I suoi incontri divennero l’esaltazione di una speranza, di una volontà di cambiamento, che andavano oltre il significato sportivo per assumerne uno simbolico.

Se normalmente le metafore descrivono la realtà, attraverso figure ideali, astratte, immaginarie, con Ali fu il contrario. Ogni combattimento fu una metafora reale della sua battaglia, dei suoi ideali. Ogni pugno era dato all’emarginazione, ogni colpo preso era ricevuto dall’ingiustizia.

Così se Ali in un incontro finiva steso, il pubblico attendeva la sua ripresa, perché lui era le sue idee. E lui si rialzava sempre, perché era la sua idea di vita che non gli avrebbe mai consentito di arrendersi.

“Dentro un ring o fuori, non c’è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra.”

Nella figura di Muhammed Ali c’è tutto: il campione ed il ragazzo con la sua genuinità, il suo sorriso. Ali, un ragazzo di 23 anni, osannato sui ring, fu chiamato nell’ università per i suoi discorsi e le sue battaglie, collaborando con Martin Luther King e Malcom X.

Ai suoi funerali ci furono rappresentanti di tutte le confessioni religiose: musulmana, mormone, battista, cattolica, buddista e persino gli indiani d’America.

“La spiritualità è riconoscere la luce divina che è dentro di noi. Essa non appartiene a nessuna religione in particolare, ma appartiene a tutti.”

Ma il suo corpo fu il suo tempio.

Questo ragazzo era anche in grado dire:

“Per tutta la mia vita, non ho mai cercato vendetta contro coloro che mi hanno fatto male perché credo nel perdono. Ho praticato il perdono, proprio come voglio essere perdonato. Solo Dio sa cosa c’è nel cuore di una persona, le sue vere intenzioni. Egli vede e sente ogni cosa.”

E va ricordato forse con le sue parole.

“Vorrei essere ricordato come un uomo che ha vinto tre volte il titolo dei pesi massimi, che era umoristico e che trattava tutti con giustizia. Come un uomo che non disprezzava quelli che si riferivano a lui… che si è levato a difesa delle cose in cui credeva… che ha cercato di unire tutta l’umanità mediante la fede e l’amore. E se questo è troppo, beh, penso almeno di essere ricordato solo per essere un grande boxeur divenuto un leader e un campione del suo popolo. E non mi importa se la gente si dimenticherà di quanto io ero bello.”

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