Quando Dino Buzzati raccontò il Giro d’Italia

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Per rendere l’idea di quanto potesse sembrare paradossale il fatto che nella prima metà del Novecento, e anche oltre, scrittori puri fossero mandati a seguire il Giro d’Italia per conto dei giornali, è necessario cominciare con una premessa. Nel 1949 Dino Buzzati, accingendosi a scrivere il suo primo contributo ciclistico per il Corriere della Sera, ammise di non aver mai visto una corsa di biciclette su strada in vita sua.

Cosa spinse, quindi, i direttori dei periodici a mandare sul posto uomini di cultura, ma non strettamente legati alle dinamiche del giornalismo sportivo? E, soprattutto, che tipo di pezzi firmarono?

Per capire qualcosa in più rispetto a questa insolita attività degli scrittori, occorre evidenziare che il Giro cominciò ad essere trasmesso dalla televisione solo dal 1957 in poi. Fu soprattutto prima di quell’anno che si concentrarono i contributi degli intellettuali al seguito del “carrozzone rosa”, quando il racconto delle gesta di Coppi e Bartali era affidato alla radio e alla stampa periodica. Ciò che non poteva essere visto in presa diretta dallo spettatore era facilmente maneggiabile dalle penne più sapienti: ne giovava l’immaginazione, più concentrata sul contesto e gli avvenimenti di contorno che sulla nuda e cruda gara. Era il cosiddetto “colore”, parola gergale usata per definire i dettagli e le curiosità socio-culturali di un determinato avvenimento. Lo scrittore, oltre a mantenere un occhio clinico sui fatti, doveva restituirli al lettore come eventi culturali imbevuti di allegorie, aneddoti, descrizioni.

La competizione nacque nel 1909 e fu subito grande la sua rilevanza a livello politico e sociale. Alla pari del campionato di calcio, infatti, fu uno dei primi eventi di portata nazionale. Il Giro d’Italia aveva la facoltà di unire il variegato territorio italiano da Nord a Sud e il gruppone diventò portatore sano di un importante spostamento percettivo: l’italiano di inizio Novecento, conoscitore della propria abitazione e poco altro, poté idealmente diventare parte di un processo di unificazione davvero concreto, avvinghiato alle biciclette dei corridori, che un giorno gareggiavano in Lombardia e l’altro in Sicilia. Si trattava inoltre del più economico e democratico degli spettacoli: bastava riversarsi a sciami lungo gli sterminati paesaggi della Penisola per assistervi.

La guida annuale del Giro, in maniera assolutamente non casuale, fu chiamata, dal secondo Dopoguerra in poi, “Il Garibaldi”. Il 1949 fu l’anno di Buzzati. Egli ne seguì la trentaduesima edizione, in qualità di inviato unico per il Corriere, e perciò addetto anche alla parte più cronachistica dell’evento. Quel Giro cominciava il 21 maggio in Sicilia, con una tappa che andava da Palermo a Catania. Vinse Mario Fazio, passista esperto ed uomo squadra. Il corrispondente seppe indirizzare immediatamente la sua scrittura su binari precisi: il trionfo del gregario e la vincente logica dell’umiltà e della fatica, avvenuta per di più sul mezzo popolare per eccellenza. Buzzati dipinse alla perfezione un momento in particolare – l’entrata di Fazio nello stadio della sua Catania, appena prima di tagliare il traguardo:

Come entrò nello stadio diluviando su di lui l’urlo della folla, Fazio cercò con gli sguardi una cosa. C’era. Proprio all’altezza del traguardo, dietro la rete metallica, il volto della mamma.

Come il film neorealista Ladri di biciclette aveva insegnato appena un anno prima, la bicicletta incamerava tutte le speranze di sopravvivenza delle generazioni sopravvissute alla Guerra. Era poco costosa ed evocava un immaginario di infanzia spensierata, libertà e riscatto proletario: il primo vincitore del Giro d’Italia fu un muratore; tutto diventava dunque possibile, su un sellino.

Il 10 giugno la tappa da Cuneo a Pinerolo portò i corridori sulle Alpi e, simbolicamente, anche la scrittura di Buzzati sopraggiunse a un picco stilistico di rara bellezza. Fausto Coppi vinse con dodici minuti di vantaggio, mettendo una volta per tutte le mani sulla competizione: 192 chilometri di fuga e cinque forature tra Izoard, Monginevro e Sestriere fecero perdere al campione le fattezze dell’uomo comune, per fregiarsi di quelle dell’eroe epico. Gino Bartali, primo dei vinti, assunse invece le sembianza dello splendido perdente, sconfitto solo dal destino:

Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille.

Così come Ettore scappava spaventato da Achille e dal suo destino facendo il giro delle mura di Troia, anche l’indomito Bartali si concesse un segno di cedimento umanissimo, lui che per indole era scostante e gelido: rispose al saluto di un tifoso, sorridendo di rimando. Si trattava forse di una primissima accettazione della sconfitta?

Sta tutta qui l’operazione di Buzzati: stanare dopo un’attenta osservazione il punto di contatto tra chi guarda e chi, suo malgrado, si esibisce; appianare le differenze nel segno di una sorte mortale che ci accomuna tutti; stimolare, infine, un senso di solidarietà e rispetto, che rimangono le qualità più importanti dell’animo umano nonostante tutto, nel segno dell’ultimo Leopardi. Ed è con un inno profetico alla bicicletta, mezzo di trasporto eterno e insostituibile, che si conclude la sua esperienza di inviato, i cui resoconti saranno poi raccolti postumi nel 1981 e pubblicati da Mondadori:

Non cedere, o “divina bicicletta’”, come diceva il patron del Tour Desgrange. Se tu capitolassi, non solo un periodo dello sport, un capitolo del costume umano sarà finito, ma si restringerà ancor più il superstite dominio dell’illusione, dove trovano respiro i cuori semplici. A costo di apparire ridicola, salpa ancora, in un fresco mattino di maggio, via per le antiche strade dell’Italia. Noi viaggeremo per lo più in un treno razzo, allora la forza atomica ci risparmierà le minime fatiche, saremo potentissimi e civili. Tu non badarci, bicicletta. Vola, tu, con le tue piccole energie, per monti e valli, suda, fatica e soffri. Dalla sperduta baita scenderà ancora il taglialegna a gridarti evviva, i pescatori saliranno dalla spiaggia, i contabili abbandoneranno i libri mastri, il fabbro lascerà spegnere il fuoco per venire a farti festa, i poeti, i sognatori, le creature umili e buone ancora si assieperanno ai bordi delle strade, dimenticando per merito tuo miserie e stenti.

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