Fantozzi: la maschera che ha spogliato l’Italia della sua miseria

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Fin dai tempi di Plauto la miseria altrui, raccontata in modo parossistico e grottesco, ha sempre suscitato il riso dello spettatore. Sono passati più di 2000 anni da quando il commediografo latino ha portato in scena la sua ultima opera teatrale e così tanti cambiamenti hanno attraversato la storia dell’uomo, ma la vis comica utile a provocare ilarità immediata è la stessa: un’attenta scelta del linguaggio e di espressioni gergali, l’utilizzo di personaggi cavati dal quotidiano e altrettante scene di vita tratte anche esse dalla quotidianità, modellate in modo da generare comicità, il tutto condito da un pizzico di paradosso e di grottesco. I personaggi sono maschere, cioè rappresentazioni di caratteristiche fisiche e psicologiche, che permettono all’attore di nascondere la propria vera natura e interpretare un ruolo sociale, sono degli archetipi che il pubblico già conosce e che lo portano a ridere della dissacrazione di un momento grave o di uno stravolgimento della vicenda. Per svolgere appieno la loro funzione, pur conservando inalterate alcune caratteristiche fisiologiche, i personaggi dell’Arte devono essere figli del proprio tempo, cioè ci deve essere coincidenza tra maschera e momento storico.

Non bisogna fare un grosso salto nel passato per cercare esempi concreti ma basta pensare a come si sia evoluta la comicità e i suoi portavoce nel corso dell’ultimo secolo in Italia. Basta pensare al teatro di varietà e all’avanspettacolo di Petrolini e alle sue macchiette futuriste e dissacratorie che, monopolizzando tutta la comicità pre-seconda guerra mondiale, hanno avuto un’influenza su tutti i più grandi comici del ‘900; seguito poi dal teatro napoletano che ha occupato la scena comica del dopo guerra con mostri sacri come Totò, Peppino e Eduardo, ma non dimenticando nemmeno la forza comica dell’attore romano Aldo Fabrizi, figli del loro tempo, rappresentanti del popolo e dei suoi problemi (quello principale riguardava il cibo), personaggi essenzialmente buoni, tonti, ignoranti ed estremamente simpatici che, ispirati a Charlot, hanno soddisfatto le esigenze fisiche e psicologiche di evasione degli italiani; si arriva poi ad un altro tipo di comicità, figlia del boom economico e che ha come massimo rappresentante Alberto Sordi, maschera sgradevole dell’italiano medio, arrivista e fesso allo stesso tempo, che descrive al meglio una miseria morale piuttosto che fisica del comune cittadino, gli stessi Tognazzi e Manfredi, sebbene con personalità differenti, prenderanno tanto dall’“ignobile” Sordi.

Ecco che si arriva agli anni ‘70, gli anni del post- boom economico, gli anni della delusione in cui le speranze degli italiani rifugiate in un consumismo becero vengono totalmente annientate. L’italiano medio ha bisogno di ritrovarsi in una nuova maschera che gli faccia comprendere come quella società nevrotica descritta tragicamente da Petri e da Pasolini sia il diavolo, il male nocivo che per anni l’ha ingannato prospettandogli una felicità frivola, fatta di frigoriferi, automobili, lavatrici e ogni bene di consumo. Chi meglio poteva rappresentare le insicurezze, le false speranze, i fallimenti, le ingiustizie dell’uomo comune se non il ragionier Ugo Fantozzi, “quintessenza della nullità”, così descritto dal suo creatore e interprete, Paolo Villaggio, uomo di una lungimiranza e profondità fuori dal comune e mai apprezzato e capito fino in fondo.

La sveglia di Fantozzi

Il personaggio di Ugo Fantozzi nasce dall’esperienza lavorativa di Villaggio stesso, che, da dipendente della Italsider, azienda siderurgica italiana, aveva conosciuto un impiegato che incamerava tutte le caratteristiche del prototipo fantozziano; così come dalle sue esperienze lavorative trae ispirazione per scrivere diversi racconti pubblicati su L’Europeo e poi riuniti in quello che diverrà in poco tempo un bestseller e cioè il primo libro di Fantozzi del 1971 a cui, dato l’enorme successo, farà seguito Il secondo tragico libro di Fantozzi (1974). Villaggio fa esordire Fantozzi dapprima in televisione (insieme ad altri due personaggi divenuti subito figurativi come il Professor Kranz e Giandomenico Fracchia), dove nei suoi monologhi parla in terza persona delle disavventure dell’omuncolo. Visto il grande successo dei libri oltre che degli sketch comici di Villaggio, il comico genovese decide di portare il personaggio del ragionier Ugo Fantozzi al cinema dando vita ad una delle saghe più longeve e caratteristiche del cinema italiano, in cui l’autore diventa anche interprete della sua stessa opera.

Le pellicole della saga più iconiche, “tragiche” e probabilmente anche le più politiche, che meglio descrivono il mondo fantozziano rimangono le prime due, entrambe dirette da Luciano Salce. Fantozzi è un impiegato della Megaditta (metafora del mondo nevrotico in cui l’uomo comune vive, fatto a piramide, in cui la meritocrazia non è lontanamente contemplata, dove la burocrazia kafkiana regna incontrastata), un’iperbole vivente, sottomesso a tutti e figlio mediocre di una società che non lo difende, ma anzi lo affossa continuamente senza dargli però il colpo di grazia, tenendolo in vita affinché rimanga cellula di un organismo perfetto, priva di autonomia. Una società/azienda che fornisce ai suoi sudditi tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere un’esistenza serenamente misera: una casa, un’automobile modesta (nel caso di Fantozzi la famosa “Bianchina”), una televisione e la finta aspirazione di poter migliorare il proprio status quo. Mamma azienda non considera i suoi figli/dipendenti tanto che Fantozzi rimane murato nei vecchi gabinetti dell’azienda per diciotto giorni senza che nessuno se ne accorga.

Non può trovare rifugio nemmeno nella sua famiglia composta dalla moglie Pina (interpretata da Liù Bosisio nei primi due film della saga e sostituita successivamente da Milena Vukotic ) brutta e inaridita, le cui manifestazioni di affetto per il marito si limitano a un “Ti stimo moltissimo”, che Dio solo sa il motivo che li ha spinti al matrimonio (probabilmente la consuetudine medio-borghese) e dalla figlia Mariangela (Plinio Fernando) mostruosa, la cui somiglianza con un primate viene rimarcata costantemente dal padre stesso e da chiunque le si approcci.

Fantozzi (1975) - Poesia di Natale di Mariangela Fantozzi

Non trovando alcun tipo di soddisfazione affettiva nella famiglia si concentra sul corteggiamento perennemente infruttuoso della Signorina Silvani (Anna Mazzamauro) che lei rifiuta sempre con elegante snobismo oppure sfrutta per suoi tornaconti personali, spesso assegnandogli le proprie “pratiche” di lavoro che Fantozzi accetta in modo servile. Il modo di approcciarsi dell’ometto è infantile, grottesco e fuori luogo e, pur ottenendo di rado delle attenzioni da parte della donna desiderata, riesce costantemente, a causa del suo comportamento goffo, sottomesso e costernato, a compromettere anche un lontanissimo e più che utopico esito positivo del corteggiamento; come quando porta a cena la Silvani ad un bizzarro ristorante giapponese e in modo totalmente equivoco fa cucinare il cagnolino della corteggiata o come quando, accompagnandola a casa al termine del funerale di uno dei dirigenti della Megaditta, taglia la strada alla vettura di tre energumeni che dopo una discussione accesa con la Silvani pestano a sangue il ragioniere, il quale, incolpando la donna per salvarsi la pelle, manda a monte l’appuntamento.

Fantozzi vede nella Signorina Silvani uno svago su cui concentrare le sue fantasie scappando da quel mondo nevrotico che lo attanaglia e non importa se la donna bramata è una doppiogiochista, arrivista, creatura deformata e misera di quel sistema profondamente marcio che vessa quotidianamente il povero ragioniere, Fantozzi ha bisogno della Signorina Silvani, ha bisogno di credere ancora in qualcosa sebbene ciò non gli dia mai alcuna soddisfazione.

Le sue fantasie sulla Silvani vengono però placate dal geometra Calboni (impersonato da Giuseppe Anatrelli nei tre primi film e sostituito nella pellicola successiva da Riccardo Garrone a causa della sua prematura scomparsa) che riesce a conquistare la mano della nubile donna poi tradita regolarmente. Calboni, uno dei personaggi più iconici della saga, è come il ragionier Fantozzi un dipendente della Megaditta, classico carrierista e fanfarone che ostenta un linguaggio forbito e una superiorità nei confronti dei colleghi oltre ad uno charme falso e artificioso, peculiarità che utilizza per sedurre signore attraenti o per ottenere privilegi da parte dei suoi superiori. È la faccia più volgare dell’arrivismo, forte, vanaglorioso con i più deboli, debole e servile con i più forti. Con quei baffi alla Charlot, quel marcato accento meridionale, quell’espressività enfatica, quell’ignoranza mascherata che emerge soprattutto quando cita termini stranieri è probabilmente il personaggio più teatrale di tutta la saga, una maschera ancestrale adattata alle esigenze del tempo.

Fantozzi e la riunione di lavoro

Calboni si rivolge nei confronti di Fantozzi sempre con tono derisorio, chiamandolo “Puccettone” (ormai termine associato all’universo fantozziano) e dandogli un buffetto che poco ha di amichevole; Calboni umilia, ma col sorriso, certamente la più grande dote di questo personaggio: grandissimo approfittatore che con furbizia riesce sempre ad ingannare gli altri.

Il peso delle ingiustizie e delle vessazioni Fantozzi lo può condividere con l’unico compagno di avventure/disavventure che questo mondo nevrotico gli offre, il ragionier Filini (Gigi Reder). Può essere considerato per certi versi il suo unico amico, l’unico che tratta Fantozzi come un uomo, entrambi soli in quell’universo squilibrato. Filini, prima ragioniere, poi geometra, affetto da una miopia esagerata e incorreggibile spesso all’origine di siparietti umoristici, è collega di Fantozzi e, sebbene anche lui vittima delle prepotenze dei superiori e dei colleghi arrivisti, appare più fiducioso e attivo tanto da essere lui solitamente a intraprendere, coinvolgendo il ragioniere, quelle che poi risultano essere funeste avventure. Filini nell’universo fantozziano rappresenta colui che “programma ogni cosa”, nonostante gli eventi di cui si fa portavoce siano caratterizzati da una “tragicità” assoluta.

Fantozzi - Partita di calcio tra Scapoli e Ammogliati

La comicità fantozziana si serve di più modelli comici, ma le avventure dei due ragionieri sono il prototipo più articolato e più valido, probabilmente perché  caratterizzate da assurdità e bizzarrie senza eguali: basta pensare alla famosa partita di calcio tra scapoli e ammogliati, dove per la pioggia incessante e le condizioni del campo impietose, un evento ludico, già dai presupposti poco favorevoli, si trasforma in “tragedia”. Questo momento, così come la battuta di caccia organizzata sempre dall’operoso Filini, che si trasforma presto in una vera e propria guerriglia dove viene dispensato l’uso di qualsiasi tipo di arma (cingolati e bombardieri inclusi), è distinto da un linguaggio surreale e iperbolico, così come lo sono i comportamenti dei personaggi che dominano la scena: “Vinsero gli ammogliati per tre infarti a due annegati”, “Un megalomane noleggiò un aereo da bombardamento”, sono esempi di come una circostanza che nel mondo comune è descritta come normale, nell’universo fantozziano assume una forma del tutto irrazionale e catastrofica, così come la partita di tennis alle sei del mattino di una giornata invernale distinta da una nebbia fittissima, o la gita al lago di Bracciano dove i due ragionieri finiscono per disperdersi in mezzo al bacino d’acqua, o il veglione di Capodanno allestito in un misero seminterrato dove il direttore d’orchestra fa spostare avanti gli orologi, anticipando la mezzanotte per poter andare a suonare in un altro veglione. In queste situazioni il ragioniere subisce qualsiasi tipo di incidente o afflizione fisica seguita spesso da un’allucinazione mistica che evidenzia il malessere estremo dell’omuncolo come quando la moglie Pina gli ripone sulla pancia un impacco bollente per guarirlo dal mal di schiena.

L’impatto culturale che il cosmo fantozziano ha avuto sulla società lo si può notare dall’uso di alcuni termini nel nostro linguaggio comune come lo stesso aggettivo “fantozziano” ormai da anni regolarmente in tutti i vocabolari di lingua italiana o il termine  “alla Fantozzi”, “organizzazione alla Filini” per evidenziare l’imperfezione di un tipo di programmazione,  l’espressione “come è umano lei!”, o le iperboli lessicali utilizzate dal ragioniere “92 minuti di applausi” o “18000 gradi” , ”mega direttore”, “salivazione azzerata” o “ poltrona in pelle umana”, specchio dell’anima dell’uomo qualunque, incline ad ingigantire qualsiasi sua esperienza anche se modesta. Il linguaggio usato dai personaggi è uno strumento per comprendere meglio il mondo fantozziano nella sua essenza, uno spunto necessario per entrare nella nevrosi della pellicola come l’utilizzo erroneo del congiuntivo: famosissimi i “vadi” , “venghi”, “batti” di Filini, Fantozzi e degli altri personaggi. È riconosciuto che lo storpiare determinate parole è motivo di ilarità, ma Villaggio sceglie proprio il congiuntivo perché, seppure conosciuto dall’italiano medio, viene considerato un “mostro”, un qualcosa che si ha paura di affrontare e di sbagliare soprattutto, ecco che, storpiandolo e mescolandolo con una forma verbale padroneggiata come l’indicativo, perde la propria mostruosità. Come vengono storpiati i modi e i tempi verbali, viene deformato anche il cognome del ragioniere: “Fantozzi” diventa così “Fantocci” o “Bambocci” o anche “ Pupazzi”, appellativi che non si allontanano dalla personalità dell’ometto.

Se il cinema neorealista e i maestri della commedia all’italiana come Risi, Monicelli, Comencini (così come Pasolini) ci hanno insegnato che si può essere felici pur essendo dei miserabili, per Salce e Villaggio i miserabili come Fantozzi, appartenenti ad una classe sociale diversa da quella descritta dai grandi maestri, non possono mai aspirare ad una felicità reale, ma sono destinati a rimanere in un limbo dove non vivono ma sopravvivono, tirando avanti con naso e bocca tappati. Non solo, sono anche maledettamente sciagurati! La loro dea della fortuna non è bendata, proprio non esiste. Fantozzi, come tutti gli altri dipendenti, è accompagnato da una divinità tediante, un angelo custode che non lo abbandona mai, la famosa “nuvola degli impiegati”, una nuvoletta nera che ogni tanto fa piovere sul povero ragioniere, figurativamente la sfortuna più nera.

Il ragionier Fantozzi è costretto perennemente alla mediocrità e al fallimento, non può contrastare quel destino portatore di miseria né tanto meno il potere della classe dirigente. Emblematica la partita di biliardo con il direttore dell’ufficio di Fantozzi, l’Onorevole Cavaliere Conte Catellani, grande appassionato dell’arte della “stecca”, dal quale il ragioniere viene sfidato. Catellani, secondo voci di corridoio, dovrebbe promuovere chi perde contro di lui, quindi Fantozzi avvezzo alla sconfitta non dovrebbe avere problemi ad ottenere la promozione. Purtroppo il fato malevolo vede nel ragioniere la sua vittima preferita, il quale, su consiglio, della moglie decide di prendere lezioni per farsi trovare pronto (casualmente trova un insegnante risoluto a farlo diventare un campione). All’ennesima umiliazione del Cavaliere Conte e nel vedere le lacrime della moglie scatta dentro di lui una voglia di rivalsa; quel “Coglionazzo”, così definito da Catellani, improvvisamente si trasforma in un asso del biliardo che umilia il tiranno vincendo la partita. Come sappiamo però i potenti non possono essere sconfitti e la vittoria di Fantozzi è ugualmente una sconfitta, in quanto suscita l’ira del direttore che ha tutto in mente tranne che dare una promozione al povero ragioniere.

Fantozzi - partita a biliardo con l'On. Cav. Conte Diego Catellani - "Tiri, coglionazzo!"

Il gesto ribelle e significativo di Fantozzi non è l’unico che l’omuncolo compie nel corso della saga. Un altro esempio lo possiamo ritrovare in uno degli episodi più rappresentativi di tutta la saga entrato ormai nell’immaginario collettivo, quello della ben nota “Corazzata Kotiomkin” (storpiatura de “La corazzata Potemkin” di Serjey M. Ejzenstejn, una delle opere più celebri della storia del cinema, per la quale non furono concessi i diritti, ecco perché la deformazione del titolo). Il professor Guidobaldo Maria Riccardelli, direttore di Fantozzi e grande appassionato di cinema d’essay, costringe i dipendenti dell’azienda e le rispettive famiglie a partecipare una volta a settimana al cineforum della Megaditta. Fantozzi, dopo aver subito umiliazioni (famoso il “Merdaccia” con cui Riccardelli definisce il ragioniere) e aver assistito per anni alla visione di grandi classici e pellicole d’avanguardia  quasi sempre in lingua originale, decide di insorgere: di fronte a tutti afferma a gran voce che “La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”, scatenando l’esultanza di tutti i presenti e lo stupore del Riccardelli che non può immaginare come un ometto, una “Merdaccia” come Fantozzi possa non solo ribellarsi, ma anche trovare il supporto di tutti i colleghi, un inetto sveviano che diventa un rivoluzionario bolscevico.

Fantozzi, leader della rivoluzione insieme ai suoi compagni, malmena e tiene in ostaggio il povero Riccardelli, costretto anche a vedere lungometraggi dal più basso valore artistico e a sopportare il rogo della sua preziosa pellicola. La rivoluzione però viene quietata dalla polizia costringendo i ribelli a liberare il professore che per punizione obbliga i dipendenti a reinterpretare la scena più famosa del film ogni sabato fino all’età pensionabile. Nel rifiuto di Fantozzi nei confronti delle pellicole avanguardiste di Riccardelli c’è la negazione di un  certo tipo di cultura elitaria e imposta dall’alto di cui si fanno promotori certi pseudo-intellettuali penosamente snob.

Fantozzi prova a ribellarsi, ma la sua ribellione è vana, è un titano che si scontra contro gli dei e questi, in quanto divini, sono invincibili. Il ragioniere prova ad allontanarsi da quella vita mediocre anche scappando a Capri con la Signorina Silvani, dopo che questa viene a conoscenza del tradimento di Calboni, ma anche in questo caso Fantozzi rimane con un pugno di mosche: il fanfarone Calboni raggiunge la Silvani a Capri e i due si ritrovano improvvisamente innamorati, consumando il loro amore nel letto dove l’ometto sperava di poter giacere con la donna tanto desiderata, rimanendo invece chiuso fuori la porta con in mano una misera e trascurabile bottiglia di champagne e un mazzetto di fiori raccolti dal giardino più vicino. Fantozzi aveva anche provato ad allontanarsi dalla donna amata dopo aver scoperto la sua relazione con Calboni, chiedendo un nuovo ufficio dove essere collocato. Finisce per essere sistemato nella stessa stanza di quello che era definito la “pecora nera” anzi “rossa” dell’azienda, giovane intellettuale di estrema sinistra da cui tutti si tenevano alla larga, il ragionier Folagra, che convince Fantozzi a ribellarsi contro il padrone, il quale, oltre ad assumere l’aspetto di un vero e proprio “compagno” decide di ripresentarsi a lavoro lanciando un sasso contro una vetrata della Megaditta.

Ecco che non appena Fantozzi decide di allontanarsi da Mamma Azienda uscendo fuori dal gregge (licenziandosi per fuggire con la Silvani o diventando un eversivo rosso), questa richiama a sé il suo più fedele servitore e lo fa attraverso la figura più mistica di tutta la Megaditta, una figura quasi divina, della cui esistenza si è addirittura più volte dubitato tra i dipendenti, il Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam. I dialoghi tra il ragioniere e il Megadirettore sono i più “politici” delle prime due pellicole, ma potremmo allargare il discorso a tutta la saga, in cui c’è un confronto tra padrone/ sfruttatore e schiavo/morto di fame, per Fantozzi dicotomia indubbia.

Il Megadirettore appare sempre disponibile nei confronti del figliol prodigo che si stupisce del fatto che quella divinità terrena decida di farlo sedere al proprio tavolo, considerandolo come un suo pari. “È solo questione di intendersi, di terminologie. Lei dice padroni, io datori di lavoro, lei dice sfruttatori e io benestanti, lei dice morti di fame e io classe meno abbiente, ma per il resto la penso come lei… Penso che ci sono molte ingiustizie da sanare”; nel sentire pronunciare queste parole da quella figura talmente in alto rispetto a lui che nemmeno considera umana, Fantozzi è sgomento, non crede alle sue orecchie e, da sciocco qual è, chiede al Megadirettore se sia un comunista. Fulmini e saette si riversano nella stanza dalle candide pareti, guai a pronunciare quel termine maledetto nel tempio del signore! Il Duca Conte risponde con tono apparentemente calmo di essere un “medio progressista” (per non dire “democristiano che aborre la rivoluzione”) dicendo che per ogni problema bisogna incontrarsi in riunioni pacifiche che prima o poi metteranno tutti d’accordo e sebbene sia una speranza utopica, anzi irrealizzabile dato che il povero e il ricco non verranno mai ad un accordo effettivo, lui potrà aspettare anche mille anni, perché lui, il padrone divino e incontrastato, sopravviverà per sempre, reincarnandosi in tante altre forme di sfruttamento tante quanti sono i prototipi di Fantozzi.

Il ragioniere ormai si è convinto, anzi ringrazia sua santità dei doni che gli concede accettando con gioia la remissione dai propri peccati e la letizia purificatrice di meritarsi quei privilegi, perché la sua sopravvivenza sta nell’essere sfruttato, non conoscendo altro modus vivendi. Fantozzi deve gioire nell’essere parte di un sistema che non può contrastare ma che può solo glorificare anche nuotando nel famoso “acquario dei dipendenti” o divenendo “parafulmine” del tetto della Megaditta. perché solo in  quella dimensione può trovare un’identità , quella di schiavo. La grande azienda non vuole schiavi scontenti ma li vuole sorridenti perché, come dice Balabam, “il lavoro è gioia, il lavoro è allegria”.

Mentre Fantozzi viene umiliato, sfruttato, picchiato noi ridiamo, e ridiamo perché crediamo di essere al di là dello schermo, quando in realtà stiamo ridendo delle nostre deformazioni. Come diceva Villaggio, “L’italiano accetta la satira solo se iperbolizzata” riconoscendo in Fantozzi tutte le persone possibili e immaginabili a lui vicine ma mai sé stesso, altrimenti non riderebbe più ma si dispererebbe.

Villaggio, insieme a Salce (e Neri Parenti poi, sebbene la comicità dei “Fantozzi” da lui diretti farà leva più sull’aspetto demenziale del personaggio) è riuscito a costruire una maschera dal vigore comico assoluto, figlia del proprio tempo ma simultaneamente immortale, facendo si che l’italiano medio si sentisse meno solo nella sua miseria.

Chiudiamo questa lunga analisi con la risposta di Villaggio alla domanda di un giornalista di una televisione svizzera su quale sarebbe la prima cosa che darebbe ai suoi sudditi qualora avesse l’immenso potere sul mondo intero; Villaggio risponde che la prima cosa, utopica e probabilmente impossibile, che darebbe qualora fosse possibile, sarebbe l’uguaglianza. Risposta scontata per chi ha convissuto per tutta la vita con lo stigma del personaggio da lui creato che ha fatto della disuguaglianza e dell’ingiustizia il suo mantra. Fantozzi rimarrà per sempre una figura eterna, di riferimento della nostra cultura, Villaggio, invece, ha lasciato questa terra da due anni riabbracciando il suo Faber con il quale starà certamente cantando a squarciagola “Il fannullone” o almeno è così che vogliamo ricordarlo: gli uomini passano, le opere rimangono per sempre e chissà se ci affezioniamo più agli uomini o alla loro arte, fatto sta che possiamo continuare a ridere o a piangere fino a che non rimarranno anche di noi solo le opere.

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