Se esiste qualcuno nel nostro Paese che più di tutti ha ritratto le insicurezze dei giovani trentenni, quello è certamente Marco Ponti. Il regista, alla sua opera prima ha descritto un ritratto pressocché perfetto della oramai adulta generazione X, ma che si rispecchia ugualmente in quelle venute dopo, anche se con un ritratto leggermente più pessimistico dei primi anni del nuovo millennio.
Queste vite sregolate non potevano che non portare come vessillo il titolo di una canzone della band francese Mano Negra, che ha in grembo ed elogia il “loco” per eccellenza del calcio mondiale: Diego Armando Maradona. Un contrasto, quello che ispira il titolo del film e della canzone, molto gradito al regista di Avigliana, una resistenza ossimorica tra il sacro ed il profano della “Mano de Dios”, che permise all’Argentina di battere l’Inghilterra nei quarti di finale del mondiale disputato in Messico nell’Ottantasei. In uno stadio epico anche per i nostri colori (Azteca), avendo ospitato il 17 Giugno di sedici anni prima la partita più bella del secolo (Italia – Germania Ovest, 4-3).
Se si dovesse in poche parole descrivere la pellicola, si potrebbe pensare ad una trasgressione, mista ad un ottimismo nichilistico, proprio come Bartolomeo “Bart” Vanzetti (nome che trae riferimenti storici molto importanti per il nostro Paese), interpretato da un Libero De Rienzo in un ruolo a lui super congeniale, e Andrea Straniero, interpretato da uno Stefano Accorsi appena consacratosi attore da grande pubblico.
La vicenda è praticamente una apripista delle miriadi di film sui giovani precari italiani, quelli che ancora però riuscivano dopo mille peripezie a trovare lavoro e dove ancora la globalizzazione selvaggia (l’anno del film è quello del G8 della discordia a Genova) non era diventata così predatoria da lasciare soltanto macerie. Il contesto di una Torino quasi fuori dal tempo e dallo spazio dove due pizze costavano ventunomila lire (che nonostante le cadute più o meno accidentali, Bart trangugia senza pietà) rispecchia lo spirito incerto di quegli anni, legato saldamente al passato ma già con i primi segni premonitori di un futuro tutt’altro che roseo.
Marco Ponti, cinefilo prima che cineasta, e per suo stesso dire possessore all’epoca di oltre duecento film in videocassetta, riesce ha dare ancora più carattere alla sua opera prima, scegliendo i tipi di inquadratura proprio analizzando al centimetro ogni nastro, insieme al direttore della fotografia Marcello Montarsi. In molti all’epoca pensarono che il film italiano avesse diverse affinità con Clerks – Commessi di Kevin Smith, ma le analogie maggiori per molti aspetti sono con un altro film uscito quell’anno, con un esordiente alla regia: Giovani, carini e disoccupati di Ben Stiller, con un giovane Ethan Hawke che possiede lati caratteriali molto simili ad entrambi i protagonisti.
Il film possiede una certa freschezza sin da subito, con dialoghi molto brillanti ma anche surreali, rischiando spesso di non concludere ad una effettiva soluzione, ed i ritmi sono serrati come le corse che Accorsi fa nella città Sabauda per non tardare a qualche colloquio di lavoro, o per sfuggire alla guardie di qualche libreria insieme a Bart, ricordando un Mark Renton d’annata che alla fine se la cava sempre. Una poca aderenza verso la realtà che piace e convince, portando oltre un milione di spettatori in sala e guadagnando per l’epoca un grandissima somma come otto miliardi di lire, complice anche un Libero de Rienzo che sovrasta imperioso nella interpretazione, risultando come il migliore dei due ed ottenendo anche un David di Donatello come miglior attore non protagonista. Anche se come spesso accade, la bella finisce sempre con il tenebroso (chi sarebbe riuscito a resistere ad una onirica Anita Caprioli, così sbarazzina e sincera da ammaliare anche il più cupo dei cuori?).
Il citazionismo che impera nell’opera è ben fatto e riprende grandi opere dello spaghetti western, ma anche La febbre del sabato sera e Grease, oltre a citazioni letterarie delle più sublimi come Lolita di Nabokov. Le esperienze del protagonista, sono ispirate da alcune traversie di un amico dello stesso regista, che durante la stesura della sceneggiatura era laureando in ingegneria e durante la ricerca del primo impiego racconta di avere avuto esperienze a limite del surreale. Anche la colonna sonora riprende molto la scena underground torinese, pescando da entrambi i gruppi dove il cantante dei Subsonica Samuel si esibisce e collabora, con il finale sulle note di Nuvole rapide che rappresenta molto anche per i trentenni di ora.
L’epilogo, come spesso accade in questo genere di opere, rimarrà aperto anche se apparentemente ottimistico, ma ci lascerà però con un dubbio imperante: ma poi era meglio la Coppa campioni o la Champions League? Chi ha apprezzato il film conoscerà certamente la risposta.
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