La paura mangia l’anima: un film attuale su razzismo e pregiudizio

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La paura mangia l’anima, film del 1973 del regista Rainer Werner Fassbinder – uno dei tre maggiori esponenti della corrente del nuovo cinema tedesco, insieme a Werner Herzog e Wim Wenders – è il manifesto identitario della Germania borghese dei primi anni ’70 quando, dopo un periodo di stallo dovuto alla fine del secondo conflitto mondiale, il ceto piccolo-borghese viene letteralmente divorato nel vortice di quello che potremmo definire post-razzismo nei confronti degli emigranti, di qualsiasi nazionalità fossero, che si trasferivano in Germania per sfuggire a una condizione economica ben peggiore.

Il film di Fassbinder è un melodramma atipico, ispirato a Secondo amore, film del 1955 di Douglas Sirk. Usa come pretesto l’inconvenzionale storia d’amore tra Emmi, un’anziana signora tedesca, e Alì, un giovane immigrato che a malapena riesce a parlare il tedesco. È una pellicola in cornice, dove le cornici sono le porte aperte che ci consentono di entrare nell’intimità dei personaggi, ed è anche grazie a queste inquadrature che lo spettatore si trova sempre in una posizione di distacco dalla storia e dalle immagini, proprio come se si trovasse a giudicare un’opera d’arte contemporanea. Contemporanea, appunto: perché La paura mangia l’anima è un film fuori dal tempo.

L’importanza del lungometraggio del regista tedesco non risiede nell’aver smascherato l’ipocrisia tedesca di quel tempo, ma nell’aver saputo raccontare come sia nato quello che abbiamo definito post-razzismo. Questa ondata di paura e pregiudizio nei confronti del diverso nasce da una condizione socio-economia precaria (dettata dagli effetti del post-seconda guerra mondiale) per via della frustrazione di lavoratori e lavoratrici in cerca di un capro espiatorio. Il post-razzismo tedesco trova le proprie ragioni in luoghi sociali ben definiti, semplici bar o – come ci mostra Fassbinder – su una rampa di scale dove un gruppo di donne delle pulizie, che cerca qualche minuto di ristoro, accusa tramite stereotipi e luoghi comuni ciò che considerano diverso, elevandolo a causa – ed effetto – della loro condizione precaria.

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La contemporaneità nel film, accennata prima, sta proprio qui: quei luoghi sociali – un tempo circoscritti – si sono trasformati nella piazza pubblica dei social media. Se il vociferare stereotipato in un piccolo bar di quartiere si annidava così tanto nella mente delle persone da avere risonanza ingiustificata in quasi tutta la città, quanto può oggi pesare un post discriminatorio su Facebook?

Fassbinder non si limita a mostrare solo questo: Emmi e Alì, dopo essere stati maltrattati da parenti e amici, decidono di sposarsi e partono per il viaggio di nozze e, al loro ritorno, trovano tutti coloro che li avevano emarginati pronti a scusarsi e finalmente ad accettarli; lo stereotipo è però dietro l’angolo: quando Alì viene presentato alle amiche di Emmi queste si limitano esclusivamente a descrivere l’oggetto Alì anziché l’uomo, assalite da invidia e desiderio, definendolo nei termini di un toy-boy. Alì va via e torna in quel bar di periferia a giocare a carte e bere birra insieme agli altri emigranti come lui, lo stesso bar dove Emmi era entrata rompendo  ideologicamente convenzioni e stereotipi. La stessa Emmi, come metafora della resistenza, stanca e forse un po’ delusa ma mai doma torna in quel bar degradato e, proprio come durante il primo incontro, si mette a ballare con Alì, che cade a terra in preda agli spasmi. Alì è malato, ha un’ulcera, tipica dei lavoratori stranieri in Germania, che non guarirà mai. Ed è così che Fassbinder decide di chiudere il film, con la metafora di un qualcosa che non avrà mai fine, proprio come la malattia di Alì, anche l’ulcera ideologica di questa società non avrà mai una cura.

La paura mangia l’anima è un film ora più che mai necessario d’esser visto, perché fa da monito di una società deviata dalla paura e – come dice il titolo – l’anima si nutre della paura stessa fino a divorarla. È questo che come società moderna dobbiamo evitare, il ricadere nel baratro della paura, degli errori e degli stereotipi nei confronti di chi è come noi: umano.

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