Quando Dostoevskij raccontò la sua condanna a morte

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La letteratura russa dell’ottocento non ha certamente lesinato il suo contributo all’umanità, regalando capolavori a profusione. Se idealmente volessimo costruire un Impero Russo delle Lettere, sarebbe difficile non individuare in Fyodor Dostoevskij il patriarca di questa potenza dispiegata nello spazio e nel tempo a venire. Leggendo Dostoevskij si scruta l’animo umano, si scopre – come Herman Hesse sottolinea – quello che sempre si è saputo e mai si è riuscito a esprimere con tale chiarezza sui significati della vita. Dostoevskij è una sorta di Chuk Norris della verità che fa a cazzotti con l’umanità e i suoi segreti.

L’Idiota è certamente uno dei romanzi simbolo della produzione dello scrittore pietroburghese. Lo scopo che il nostro Fedor si prefigge è una cosetta da niente: “raffigurare un uomo assolutamente buono.” È così che Dostoevskij si esprime in una lettera indirizzata allo scrittore Appollon Nikolaevic Majkov, aggiungendovi che “Niente, secondo me, può essere più difficile di questo, al giorno d’oggi soprattutto.”

Quest’uomo assolutamente buono non poteva che essere la star del romanzo, il principe Lev Nikolaevic Myskin, di cui dovreste avere il poster in camera se li producessero. Il principe Myskin, di ritorno a San Pietroburgo dopo aver passato gli anni della giovinezza in esilio in Svizzera per curare la propria epilessia, dopo un così lungo periodo di lontananza dalla propria patria, si ritrova avulso dalla società russa, uno sconosciuto in casa propria. È così che decide di mettersi sulle tracce di una propria lontana parente, Elizaveta Proko’fevna, con la quale condivide le proprie nobili origini. Riuscito a farsi ricevere nella casa di Ivan Fedorovic Epancin, accolto degnamente dalla sua nobile parente, il principe Myskin si trova in un tale stato di esaltazione che a stento gli consente di trattenere la lingua. Inebriato, il principe Myskin si profonde in racconti e divagazioni ed è ad una di tali divagazione che Dostoevskij affida una delle pagine più belle che la letteratura di ogni tempo ricordi sul tema della condanna capitale. Il principe racconta a Elizaveta Proko’fevna di avere assistito a Lione, in Francia, all’esecuzione a morte di uomo, per mezzo della ghigliottina. All’osservazione che la pena somministrata in tal guisa non produrrebbe sofferenza, Lev Nikolaevic risponde come segue:

“Così dicono tutti, e perciò hanno inventato quella così detta ghigliottina. A me invece balenò allora il sospetto: e se invece è quello il colmo della sofferenza? Questo vi parrà strano, vi farà ridere… eppure… Prendiamo, per esempio, la tortura: strazio, piaghe, scricchiolio di ossa, dolore materiale insomma, che distrae la vittima dalle sofferenze morali, fino a che non venga la morte. Ma il dolore principale, il più forte, non è già quello delle ferite; è invece la certezza, che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima si staccherà dal corpo, e che tu, uomo, cesserai irrevocabilmente di essere un uomo. Questa certezza è spaventosa. Tu metti la testa sotto la mannaia, senti strisciare il ferro, e quel quarto di secondo è più atroce di qualunque agonia. Questa non è una mia fantasia; moltissimi ci sono che pensano come me. E ve ne dico anche un’altra. Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e sempre spera, fino all’ultimo, di potersi salvare. Si sono dati casi, in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, ovvero, supplicando, ha ottenuto grazia dagli assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, che attenua lo spavento della morte, ve la tolgono con una certezza matematica, spietata. Attaccate un soldato alla bocca di un cannone, e accostatevi con la miccia: chi sa! penserà il disgraziato, tutto è possibile… Ma leggetegli la sentenza di morte, e lo vedrete piangere o impazzire. Chi ha mai detto che la natura umana può sopportare un tal colpo senza perdere la ragione? A che dunque questa pena mostruosa e inutile? Un solo uomo potrebbe chiarire il punto; un uomo cui abbiamo letto la sentenza di morte, e poi detto: “Va ti è fatta la grazia!”. Di un tale strazio anche Cristo ha parlato… No, no, è inumana la pena, è selvaggia e non può nè deve esser lecito applicarla all’uomo”.

C’è però un dettaglio molto importante dietro questa pagina, che non tutti sanno: l’uomo di cui si sta parlando, quello a cui è stata letta la sentenza di morte, è proprio lui: Dostoevskij.

Fedor Dostoevskij fu condannato alla pena capitale il 23 aprile 1849. Viene arrestato per aver partecipato all’attività di una società segreta con scopi sovversivi e quindi imprigionato nella fortezza di Pietro e Paolo. Il 19 dicembre dello stesso anno, lo zar Nicola commuta la pena in lavori forzati, che lo scrittore eseguirà per quattro anni in Siberia, prima di essere liberato per buona condotta. Lo zar ha pensato bene di regalare anch’egli i fuochi d’artificio ai condannati: gli comunicherà la grazia ricevuta proprio sul patibolo.

Le riflessioni contenute nell’Idiota non sono certo un unicum all’interno della produzione dosoevskiana – basti pensare ai memorabili passi che sullo stesso argomento si ritrovano in Delitto e Castigo – né tantomeno nella letteratura in generale, da Hugo a Camus, passando per Beccaria e tanti altri. Quello che colpisce di questa storia è sicuramente il suo intrecciarsi con la biografia stessa di Dostoevskij, la sua veridicità. Dostoevskij ci restituisce uno sguardo sull’abisso, tanto più vero in quanto affonda le proprie radici negli eventi che hanno segnato indelebilmente la sua vita.

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