Hopper sosteneva che “la grande arte è l’espressione esteriore della vita interiore dell’artista, e questa vita interiore rappresenta la sua visione personale del mondo.”
L’uomo Hopper ama la natura e la solitudine. La moglie Jo lo definiva un orso apatico. Il loro amico Soyey un giorno andò a fargli visita nella loro casa estiva a Cape Cod. Trovò Hopper seduto nel sofà che guardava fuori a contemplare le colline, mentre Jo guardava l’oceano nella direzione opposta. Lui le colline, lei l’oceano, e quando si incontravano le controversie tra di loro iniziavano. Hopper era incline al silenzio, taciturno ma dotato anche di uno spiccato senso di ironia. Non amava molto l’umanità, la trovava chiassosa e insulsa.
Osservando le sue opere, l’ansietà che traspare dalle varie scene dipinte è più che mai presente.

L’osservatore è colpito in prima persona, esce dalla sua safety zone per essere inghiottito dal vortice di un senso di smarrimento, di alienazione che il quadro emana.
L’artista nei suoi dipinti non vuole raccontare nulla, ma è la stessa cifra stilistica che crea il disagio. La famosa tela bianca, il bianco di Hopper. Quello che in altri contesti il critico Roberto Longhi definì “la liquida solennità del lume zenitale”, una sorta di specchio morale su cui poter piangere, la tristezza velata striata di surreale, ogni personaggio è perso all’interno del proprio mondo.
Tra i suoi soggetti favoriti vi sono scorci di vita nei tranquilli appartamenti della middle class statunitense, spesso intravisti dietro le finestre durante i suoi viaggi, immagini di tavole calde, sale di cinema, divenute delle vere e proprie icone.
Edward Hopper rappresenta uno dei più grandi pittori del realismo metafisico, maestro percettivo dell’alienazione degli Stati Uniti del primo novecento. Era solito affermare che quando dipingeva cercava di utilizzare la natura come mezzo da fissare sulla famosa tela bianca. Le reazioni più intime, vis a vis di un soggetto, che in quel preciso istante rappresentavano per lui un interesse da imprigionare sulla tela.

Diversi critici d’arte come Clement Greenberg, il maggior esponente dell’espressionismo astratto, scrisse di Hopper che era un cattivo pittore, ma se fosse stato diversamente non sarebbe stato il grande artista che invece è. Ad ogni modo si sa, i critici son critici, di Cezanne dicevano che era un imbrattatele. I dipinti di Hopper certo non lasciano indifferenti, le pennellate sono sfumate in maniera armoniosa, riescono a catturare la luce in maniers decisamente unica.
Aveva una marcata ritrosia a rilasciare interviste. Una delle pochissime, in cui Hopper spiega come nasce la sua arte e cosa l’osservatore può vederci, è nel video che trovate qui sotto.
A una domanda su cosa rappresentassero i suoi quadri, una volta lui rispose: “Parlano di me. Il quadro è il mio interiore ,un immenso fluttuante oceano, un autoritratto in cerca di se stesso”, aggiungendo, “Tutte le risposte sono sulla tela. L’uomo è l’opera. Niente viene fuori dal nulla.“
Quattro anni prima della sua morte, nel dipinto Sole in una Stanza Vuota (1963), Hopper si eleva a un misticismo unico. Un sole forte illumina con l’aiuto di un perfetto quadrato queste stanze vuote. Un Hopper maturo, al volgere della sua vita, regala quest’ultimo dipinto dominante, la luce che colpisce direttamente i soggetti, per amplificare la sensazione che vuole trasmettere.

Quando Brian O’Doherty gli chiese cosa c’è dietro quel dipinto, Hopper rispose: “Sto cercando me stesso”.
Cover image: Edward Hopper, Strada a Quattro Corsie (1956)