Paul Thomas Anderson, Il Filo Nascosto: un’opera dall’estetismo assordante

È chiaro che da The Master, proseguendo poi con Vizio di Forma qualcosa sia cambiato nel cinema di Paul Thomas Anderson: il suo modo di fare cinema infatti viene contaminato da aspirazioni di uscita dal seminato notevoli, una contemplazione della fuga però che riapre al ritorno. Proprio come la storia del sarto e stilista londinese Reynolds Woodcock, che nel secondo dopoguerra fece sussultare l’animo della moda inglese, vestendo reali e persone dell’alta società, soprattutto (neanche a dirlo) bellissime donne.

Il ruolo, che con ogni probabilità sarà l’ultimo per l’attore londinese Daniel Day Lewis, rappresenta l’ennesima lezione di maestria nel linguaggio del corpo, a svantaggio della eccessiva comunicazione oratoria. Il protagonista sembra l’uomo perfetto per intrepretare un personaggio sfuggente ed enigmatico, ma con molteplici lati oscuri, che non si preoccupa affatto di piacere al pubblico. Conosciuto per la cura maniacale con cui prepara i propri personaggi (per questo film ha realmente imparato a cucire un abito su misura), è esemplare nella ricerca dei tormenti del sarto, ricordando uno dei registi cardine per Anderson, Alfred Hitchcock ne La Donna Che Visse Due Volte e Rebecca.

Ci sono stati alcuni problemi sul set, per via della casa in stile Georgiano scelta da Anderson per ricreare appieno quegli anni, che è risultata decisamente scomoda per tutta la troupe. Questo non ha però impedito al regista e al protagonista di lavorare in modo simbiotico, facendo varie ricerche e lavorando sui dialoghi,  facendo sì che la casa di Woodcock risultasse estremamente particolare, dall’argenteria, sino al set per il thé alle sedie. I costumi (per cui il film ha vinto l’oscar) venivano sottoposti sempre prima a Daniel Day Lewis prima di andare in scena, e anche questo ha contribuito alla lenta alchimia che si è creata all’interno dell’opera.

httpv://www.youtube.com/watch?v=8S1icw–VSg

Oggi risulta molto complicata l’idea che dietro un corpo ci sia qualcosa di più profondo, qualcosa di non visibile, ma che indica l’essenza di una persona (in altri tempi l’avremmo chiamata anima). Il film affronta tra le altre anche questa tematica, e soprattutto su questo Alma e Reynolds danzano abilmente per tutto il film. È proprio questo il lato più ambiguo e stuzzicante, il lato femminile messo abilmente in risalto dal regista nella figura della “Musa” (Vicky Krieps), che così facendo ci lascia addentrare nella tenacia della donna a non demordere: lei è parte di un rapporto in cui riesce a prendere il controllo solo quando Reynolds risulta indifeso.

Questa nuova creatura, nell’incastro perfetto intriso di quotidianità che lo stilista si era costruito, porta a un inevitabile scontro, travolgendolo e creandogli non pochi problemi. Tutta l’eleganza, la creazione ed il controllo si fondono nel sapore nocivo del sentimento, che per continuare ad alimentarsi deve compiere le azioni più devianti. Il film del regista losangelino rimane appeso a questo dorsale, dove lo spettatore osserva i due attori in questa perpetua contesa, ed erige un film che merita certamente di essere visto con molta attenzione.

Da annoverare la scelta della colonna sonora, che prende a piene mani dalla musica classica, con compositori del calibro di Debussy, Berlioz, Brahms, oltre a Schubert alle prese con il Piano Trio No.2, quello che precorre il più illustre Andante con moto del Kubrickiano Barry Lyndon. Girato superbamente nel formato ormai ahimé morente della pellicola, questo piccolo tesoro rende omaggio allo stile ancora conservatoristico degli anni cinquanta, ma è inoltre capace di rimaneggiare argomenti che oramai sembravano finiti nel dimenticatoio. Dialoghi intensi e laconici, capaci di far fare più di una riflessione allo spettatore, sorprendendolo e costringendolo ad immedesimarsi in quell’aria sfuggente e fumosa dei primi anni Cinquanta in inghilterra.

Un film che per la sua complessità può far gridare al capolavoro come anche instaurare l’esatto opposto. Ma d’altronde questo deve fare l’arte: ammirare, ma anche discutere, a volte disprezzare.

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