Andy Warhol: la massificazione dell’arte e la spersonalizzazione dell’io

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“I miei quadri non vengono fuori mai come me li aspettavo ma di questo non sono mai sorpreso”

Così Andy Warhol descriveva la sua arte, lontanissima dall’idea di atto creativo unico ed irripetibile, totalmente incentrata su una serialità visiva, volutamente programmatica ma mai anonima.

L’America di Warhol, quella dei favolosi anni ’60, è uno stato democratico in cui il concetto di “american people” è subordinato al consumismo. La pubblicità, vero perno della società capitalistica, induce alla massificazione, favorendo l’insorgere di tendenze e di stereotipi.

Andy Warhol non declina questo cliché, anzi, da artista perfettamente integrato, ripropone il trend della sua stessa società, imponendosi come massimo esponente della Pop Art.

Da innovatore, sperimenta l’uso della serigrafia per immortalare la standardizzazione plastica del gusto popolare, ed è così che una banalissima lattina di zuppa diventa la celeberrima Campbell’s Soup, nient’altro che arte da consumare.

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Il paradosso ideologico risiede nel fatto che, mentre un oggetto di consumo assume un’identità riconoscibile grazie ai mass media, contemporaneamente l’uomo spersonalizza se stesso proprio nell’uso quotidiano di quell’oggetto.

Quasi come esseri mitizzati, si ergono su anonime tele bottigliette riprodotte in serie della bibita simbolo dell’american way of life. Warhol dirà: “Puoi  bere Coca Cola e pensare che anche il Presidente sta facendo la stessa cosa, come Liz Taylor. Una Coca è una Coca e nessuna somma di denaro può darti una Coca migliore di quella che il barbone sta bevendo all’angolo della strada”, manifesto dell’ideologia del tutti uguali in quanto tutti consumatori.

Le lattine di zuppa Campbell e le bottiglie di Coca-Cola aprono interrogativi riguardo cosa effettivamente Warhol volesse rappresentare mediante la genesi di queste opere: semplice tentativo di rendere l’arte estremamente popolare, in quanto riproducente un soggetto immediatamente riconoscibile, oppure disincanto per una società completamente assoggettata alle leggi di mercato?

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Un’ambivalenza destinata a non essere risolta, tant’è che lo stesso artista offrirà al pubblico versioni contraddittorie della lattina tanto osannata, varianti ammaccate e con l’etichetta strappata, quindi non vendibili secondo le logiche del commercio ma che, per un occhio attento, possono diventare l’emblema di una tenace affermazione di individualità e di libertà nel mostrarsi per quello che si è, con i propri difetti, all’interno di un sistema basato sul conformismo e sull’omologazione.

La stessa linea interpretativa può essere seguita analizzando la produzione artistica degli ultimi anni di Warhol, incentrata soprattutto sugli autoritratti, almeno sei quelli prodotti, tutti caratterizzati da colori e forme privi di realismo ed ottenuti con la tecnica della digitalizzazione.

La sensazione immediata che si ha nel guardarli è di allucinazione ed estraneazione dalla realtà.

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L’intento di Warhol era certamente autocelebrativo, ma fermarsi a questa affermazione sarebbe riduttivo. L’artista sceglie chiaramente di estremizzare la propria immagine, divenendo egli stesso occasione di critica verso una società che, nel portarlo in auge, lo aveva trasformato in un simbolo di arte di massa.

Il concetto appare particolarmente evidente nella versione in cui il volto è stilizzato come una sorta di maschera mimetica, senza nessuna connessione apparente con il corpo, quasi a voler trarre in inganno l’osservatore sulla reale identità del soggetto-oggetto.

Probabilmente non capiremo mai fino in fondo cosa volesse comunicare Andy Warhol e forse il segreto risiede nella sua filosofia secondo cui “un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha bisogno, ma che egli, per qualche ragione, pensa sia una buona idea darle”.

Fatto sta che l’abolizione del confine tra artificiale e reale da lui professata ci spinge ancora oggi ad interrogarci sul senso intrinseco dell’arte contemporanea.

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