C’eravamo Tanto Amati: l’Italia dei vinti secondo Ettore Scola

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Quando un film riesce a raccontare trent’anni di una generazione in un paio d’ore (facendolo pure con una storia dalla sceneggiatura illuminata, una regia solida e per tanti versi innovativa, attori bravissimi nel classi nei loro ruoli), allora nasce un capolavoro.

C’eravamo Tanto Amati è uno degli ultimi colpi di coda di quella Commedia all’italiana che tanto fece bene negli anni ’60, ma che ormai stava esaurendo la propria scia. Il film di Ettore Scola permette al genere di congedarsi con una grande opera piena di riferimenti e spunti, che esaminano con disillusione gli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, accompagnando lo spettatore fino ai primi anni ’70.

I tre protagonisti Antonio (Nino Manfredi), Gianni (Vittorio Gassman) e Nicola (Stefano Satta Flores), dopo aver combattuto assieme durante la Resistenza, si dividono negli anni successivi.

C'ERAVAMO TANTO AMATI - Io ero Sandokan

Antonio è un portantino che non riesce a staccarsi dalle proprie utopie giovanili: per questo vive un’esistenza discriminata sul luogo di lavoro e segnata da un idealismo che si ripercuote anche sulle sue scelte sentimentali.

Gianni inizialmente sceglie la stessa strada di Antonio, provando a essere un avvocato integerrimo, ma devia quasi subito il suo percorso, scegliendo di venire a patti con le proprie idee in cambio di una carriera più facile e ambiziosa.

Nicola è un professore liceale di Nocera Inferiore (“Nocera è inferiore perché ha dato i natali a gente come voi”) e anche l’intellettuale troppo ortodosso, che pur di assecondare le sue convinzioni lascia indietro famiglia e carriera, finendo per restare senza niente in mano.

A unire i tre c’è l’amore per Luciana (Stefania Sandrelli), che si concede a tutti, ma non resta con nessuno per inseguire il sogno di una carriera nel cinema che non si concretizzerà mai.

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Intanto le vite dei tre uomini scorrono su binari paralleli che spesso si toccano. Antonio e Nicola si ritrovano quando il professore si trasferisce a Roma. Gianni s’imbatte per caso con il portantino, con cui anni prima aveva avuto una violenta lite per l’amore di Luciana: Antonio lo crede un disgraziato parcheggiatole abusivo, ignorando il suo status di ricco palazzinaro, e lo convince a celebrare l’incontro assieme a Nicola. Gianni sta al gioco e non svela l’equivoco, partecipando alla cena nella vecchia trattoria in cui mangiavano anni prima. La serata si conclude in una specie di presidio notturno di persone riunite in attesa di poter iscrivere i propri figli a scuola. Tra loro c’è Luciana, che dopo aver rinunciato alle sue velleità artistiche, ha accettato l’amore di Antonio. Gianni, che si confessa alla donna in un momento in cui i due restano soli, si rende conto di non essere più parte di questo contesto e se ne va, dimenticando la patente. Dal documento gli altri risalgono al suo indirizzo e scoprono la vera vita dell’avvocato, lasciandolo solo.

“L’amicizia non è al di sopra di tutto?”

Antonio è un proletario che, pur di rimanere fedele alle proprie idee, rinuncia a eventuali scatti di carriera e a un’esistenza più facile. È un uomo che non scende a compromessi e non fa sconti, prima di tutto a se stesso. Il suo amore per Luciana lo porta a rincorrerla per tutta la vita, fino a raggiungerla quando non ci credeva più, accettandola anche con un figlio non suo. L’unico momento di rivalsa, quello in cui cerca una rivincita dalla vita, è quando la presenta come sua moglie a Gianni. Forse il suo invito all’amico di un tempo mira proprio a questo: ciò lo renderebbe più umano, ma forse anche un po’ più meschino di quanto sia apparso finora. Antonio rappresenta l’italiano puro, quello che non si piega e che vive di entusiasmi sinceri, che paga poi in prima persona e su cui si concentra la ricostruzione del dopoguerra di questo paese.

“Vincerà l’amicizia o l’amore? Sceglieremo di essere onesti o felici?”

Gianni è quello dei tre che per comodità soldi liquida sé stesso e ciò in cui crede, sposando Elide (Giovanna Ralli), la figlia dello sgradevole Romolo Catenacci (un grandissimo Aldo Fabrizi). La sua vita, mentre si accumulano anni e fortune, si veste di vacuità e disillusione, soffrendo sempre più l’assenza di quegli ideali giovanili per cui sentiva di stare dalla parte giusta. Il suo associarsi a Catenacci (che disprezza per le sue idee fasciste e per la sua visione del mondo) lo logora fino a isolarlo in una casa enorme e vuota, costruita sulla svendita di ciò in cui credeva. Il colpo che riceve dopo aver rivelato a Luciana i propri sentimenti, nella speranza che lei provi lo stesso, è devastante. Muore così ogni possibilità di tornare quello di un tempo (o almeno di potervi assomigliare) e per questo si allontana per sempre dai suoi amici. Gianni è l’italiano capace di continui compromessi pur di raggiungere i propri scopi.

“L’intellettuale è più avanti, è più su, è più giù. Egli è irraggiungibile, egli è oltre!”

Nicola è un uomo solo e che sceglie la propria solitudine, non accettando confronti con ciò che reputa diverso da sé. La sua rigidità lo porta ad abbandonare i suoi affetti, a farsi scacciare dalla scuola in cui lavora a vivere al di sotto delle proprie possibilità pur di diventare quello che non potrà mai essere. È un vinto, soprattutto da sé stesso, vittima di una concezione della vita troppo distaccata dal confronto e schiava di un dogmatismo fin troppo inflessibile. Alla fine del film si rende conto di quanto si è lasciato indietro, di quante cose ha perso, mentre suo figlio è ormai un uomo e lui non l’ha mai visto crescere. È un fallito su tutti i fronti perché ha scelto un’esistenza sterile. Nicola è l’italiano che prova e riesce a disertare le responsabilità che la vita gli pone di fronte, ornando la propria fuga con orpelli che dovrebbero conferirle dignità.

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In C’eravamo tanto amati questi tre tipi d’italiano s’incontrano e si scontrano attraverso tre decenni che segnano la fine dell’incubo della guerra e il faticoso ritorno alla normalità. In questo percorso vengono tutti travolti dagli eventi, con l’apparente eccezione di Gianni, che sa adattarsi meglio di tutti ai compromessi della vita. Ma l’inutilità e la desolazione della della sua vittoria (in cui è sempre più solo e abbandonato) fa da contraltare alla mediocrità rassegnata, ma dignitosa di Antonio, che rimane comunque saldo al timone della propria esistenza.

Il film è soprattutto la storia di un’amicizia che all’inizio (come quasi tutte) sembra eterna. La condivisione di ideali ed esperienze giovanili su cui il rapporto dei tre uomini si basa, viene logorato dall’amore per la stessa donna e dalle scelte che a poco a poco li dividono: questo vale soprattutto per il rapporto tra Gianni e Antonio. Quello che li unisce (e che li avrebbe potuti tenere vicini per sempre) non c’è più e anche la loro cena finale, in cui sembrano poter ricominciare sulla base dei bei tempi andati, è basata sulla menzogna di Gianni. Antonio e Nicola, con tutte le loro sconfitte e le loro tragedie, sono comunque ancora lì, dentro quella trattoria, mentre Gianni è solo un fantasma che si aggira alla ricerca di un senso per le sue scelte.

La nostra generazione ha fallito.

In C’eravamo Tanto Amati, come in gran parte dei film della Commedia all’italiana, la storia del Paese viene sviscerata ed esaminata attraverso quella dei protagonisti, portando a galla tutta l’incoerenza e l’impreparazione del passaggio da un’Italia sconfitta povera a quella del Boom e della DC. Questo film (prezioso e bellissimo dall’inizio in bianco e nero, alla fine a colori) è il più grande regalo che Ettore Scola e tutti quelli che vi hanno partecipato (come i due grandi sceneggiatori Age & Scarpelli) hanno lasciato al nostro cinema.

“Credevamo di cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato noi” è forse la frase che racconta non solo la vita di Gianni, Antonio, Luciana e Nicola, ma anche un po’ quella di tutti noi.

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