Quel saltimbanco di Enzo Jannacci

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Provare a descrivere in poche righe uno dei più singolari e significativi cantautori italiani non è facile, anche perché Jannacci era “un uomo solo al comando” di una vita che ne includeva mille altre: jazzista, medico, cabarettista, autore teatrale, attore, conduttore televisivo, cantante…

Enzo Jannacci non è stato forse celebrato e ricordato come meriterebbe: troppo schivo e distaccato, troppo ironico e libero dai condizionamenti per essere messo nell’arca della gloria. Eppure alcune delle cose migliori della nostra canzone vengono da quella penna anticonformista e sovversiva e da quella voce priva di retorica e colma d’ironia.

Nei fumosi locali che negli anni ’50 ospitano molti dei futuri protagonisti della nostra canzone c’é anche lui, che a poco a poco si fa notare e inizia un percorso che lo porta verso la fama. Jannacci la notorietà, quella vera, la tocca negli anni ’60, quando pian piano si impone nel panorama della giovane televisione italiana come personaggio eccentrico e stralunato, entrando nelle case con El Portava i scarp del tennis, L’Armando, Sfiorisci bel fiore, Faceva il palo, fino a deflagrare in classifica per mesi con Vengo anch’io (No, tu no).

Enzo Jannacci - Vengo anch'io no tu no - Official Audio

Ma il rischio di restare ingabbiato in una dimensione da macchietta non tarda a farsi strada tra le paure del cantautore, che per la prima volta vede gli effetti narcotizzanti e deformanti di cui è capace il mezzo televisivo. L’incisiva e ironica storia di emarginazione classista che è Vengo anch’io (No, tu no) alla fine sfugge al controllo dell’autore, diventando una canzoncina clownesca e inoffensiva, un tormentone che lo inseguirà per tutta la carriera come un’ombra: anche per questo Jannacci non l’amerà mai e l’eseguirà controvoglia nei concerti.

Ma uno dei momenti cruciali della carriera del Dottore si svolge durante la Finale di Canzonissima 1968: Jannacci vuole partecipare con Ho visto un Re, scritta come molte altre canzoni assieme a Dario Fo, ma la Rai gli impedisce di eseguirla nello scontro con Gianni Morandi, perché “sovversiva” e quindi inadatta al pubblico televisivo del sabato sera. Il “non expedit” costringe Jannacci a cantare un altro brano, Gli Zingari, con cui perde non solo la gara, ma anche la voglia di cantare.

Nonostante tutto, la voglia di spettacolo non viene mai meno e Jannacci si concentra sul  cinema, teatro e cabaret: quando poi arriva l’occasione di scrivere con l’amico di sempre Beppe Viola non solo la sceneggiatura, ma anche la colonna sonora di Romanzo popolare, si riappacifica definitamente con la musica. Vincenzina e la Fabbrica è forse il suo capolavoro ed è lì dentro, in quella desolazione industriale, in quel sussurro sul coraggio di vivere un’esistenza ingabbiata, costretta, senza apparente via d’uscita, che Jannacci svela tutta la sua grandezza d’autore.

Arrivano album importanti come Quelli che…, O vivere o ridere, Foto ricordo, Ci vuole orecchio (contenente l’omonimo singolo che scalo’ per mesi le classifiche), che lo ripropongono ad altissimi livelli per tutti gli anni 70, mentre negli anni 80 imperversa in teatro e anche in tv: poeta imprevedibile e disordinato nelle rime come nei riferimenti, accomuna il suo carissimo amico Giorgio Gaber al meno nobile dei sanitari da bagno nel brano Se me lo dicevi prima (“E allora è bello, Quando tace il water, Quando ride un figlio, Quando parla Gaber”) con cui si presenta al Festival di Sanremo nel 1989.

Seguono anni in cui litiga spesso con le case discografiche e anche se riesce a incidere i densi e ispirati Come gli aeroplani L’uomo a metà, prodotti con amore dal figlio Paolo, il periodo migliore è ormai alle spalle: la malattia lo colpisce e dopo qualche anno se lo porta via nel 2013.

Astratto, imperversando spesso tra paradossi linguistici e tormentoni nonsense (il celebre “non valevole ciccioli” di Silvano), Jannacci mugugnava frasi e pensieri sconnessi, inseguiti da chi gli era attorno mentre lui era già lontano, al successivo concetto, che gli carambolava per caso tra le labbra. Cantava canzoni solo sue, capaci sia di regalare sorrisi sornioni alla fine dell’ascolto, così come di  gettarti dentro fredde e dense solitudini.

Nei brani di Jannacci c’erano ironia, miseria, amore, forza, emozioni. E poi umanità (tanta), incazzature (ancora di più), amarezza, dignità, rinunce e morte. Anche l’amore, sfiorato, accarezzato, timidamente accennato come se fosse una materia troppo difficile da trattare è entrato nel calderone del suo canzoniere: Io e te, pur non parlando direttamente d’amore, ma di tutto ciò che gli gira intorno, è una delle sue composizioni più delicate e strazianti.

Nessun altro nel nostro panorama musicale ha saputo legare assieme così tanti stati d’animo, riuscendo a a dipingere sfumature in cui tragedia e allegria si mescolano proprio come nella vita di tutti noi. Magari, un giorno, qualcuno si ricorderà di quanto Jannacci sia stato importante per la nostra canzone (sempre più “etta”) e gli renderà il giusto merito, anche perché, come disse Cesare Zavattini, sapeva scrivere brani che “erano film con dentro angeli che non sapevano volare”. Ecco chi era Enzo Jannacci.

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