C’è un punto, al crocevia tra le righe delle lettere di Vincent Van Gogh al fratello Theo e le vorticose pennellate colorate, in cui la pittura si fa letteratura, in cui ci è data la rara possibilità di entrare nella mente dell’artista che lucidamente snocciola il processo creativo sulla carta fissandolo per l’eternità, esattamente come in uno dei suoi disegni. Van Gogh scrive preziose parole, principalmente al fratello – raccolte dalla vedova di Theo Van Gogh, Joahnna Bonger – e grazie alla confidenza e l’affetto verso Theo si apre a riflessioni sullo stato dell’arte e sulla sua personale interpretazione del mondo.
Scopriamo Van Gogh capace di fissare profonde riflessioni non solo sulla tela ma anche in questo epistolario, seguiamo il filo dei pensieri spesso cupi e tristi, sempre a scandagliare lucidamente le profondità dei sentimenti e le difficoltà della vita, della malattia e del lavoro.
Ne La vedova Van Gogh, (edito da Marcos y marcos) Camilo Sanchez mette in scena la tragedia familiare dei Van Gogh che viene spazzata via dalla determinazione e dalla positività di questa donna, Johanna, la vedova del fratello. La penna di Sanchez ci racconta di una donna forte, che accudisce amorevolmente il figlioletto Vincent (straziante omonimia) e nel frattempo osserva il deperimento spirituale di suo marito Theo che si lascia morire di dolore al pensiero che il fratello, il grande van Gogh, si sia sparato un colpo al petto e sia morto in solitudine. Quello di Johanna è un diario intimo, un esercizio di scrittura per appuntare emozioni e progetti. Primo fra tutti quello di redimere il lavoro del suocero, renderlo noto al mondo. L’arte di van Gogh non può essere impiegata per tappare i buchi nei muri o essere dimenticata in qualche scantinato buio, l’arte di van Gogh dovrà essere immortale.

Un lavoro quindi da “curatrice” di una collezione inestimabile sparsa alla rinfusa per tutta casa. La presenza costante di un personaggio dalla statura immensa, un fantasma che aleggia intorno ai suoi stessi dipinti. Vincent Van Gogh non compare nel racconto ma c’è sempre: ogni stanza della casa di Pigalle è ricoperta di notti stellate e autoritratti, ogni pagina del diario di Johanna tende alla sua intima scoperta
Tra queste tele doveva spiccare in particolare quel giallo che ossessionava Vincent, il giallo della casa di Arles al n. 2 di place Lamartine, i girasoli, gli inquieti campi di grano; nelle lettere ne parla moltissimo, si interroga sul modo migliore di utilizzarli sui ritratti e nei paesaggi:
“Supponiamo che io debba dipingere un paesaggio autunnale, degli alberi con foglie gialle. Bene. Che differenza fa se lo concepisco come una sinfonia in giallo, e che il mio giallo fondamentale sia o no il giallo delle foglie? Ciò aggiunge o toglie ben poco: molto dipende, e direi anzi che tutto dipende, dal sentimento che provo dell’infinita varietà di toni di un’unica famiglia.”
Queste parole si caricano di un significato molto particolare pensando che Vincent Van Gogh soffrisse di un disturbo, la xanthopsia, che assieme all’abuso di medicinali e assenzio, la dura vita frugale e qualche problema depressivo, faceva percepire in maniera differente i colori, specialmente il giallo.

I toni scuri virano sul violetto, i chiari tutti sul giallo, che infatti sembra predominare incontrastato in moltissime tele: il cielo giallo, i fiori, la casa gialla, “è tutto sole” ciò che Vincent vuole fissare sulla tela in quegli istanti di perfetta lucidità che precedono le crisi allucinatorie, come raccontava perfettamente anche Dostoevskij, affetto da epilessia e curato con le stesse sostanze che usava il pittore.
Nei grandi campi della Provenza trova le cromature malinconiche e inquiete che trasferisce nei petali dei girasoli o nella vorticosa luna delle notti stellate, e le esprime senza le velleità simboliste del collega e amico Gauguin con il quale divide la Casa Gialla per un periodo; con sincerità e commozione ci lascia nei dipinti ciò che è stata la sua vita, i dolori e le sofferenze e le piccole gioie.
“Il mondo non m’interessa se non per il fatto che ho un debito verso di esso, e anche il dovere, dato che mi ci sono aggirato per trent’anni, di lasciargli come segno di gratitudine alcuni ricordi sotto forma di disegni o di quadri, non eseguiti per compiacere a questa o a quella tendenza, ma per esprimere un sentimento umano sincero.”

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