âMi chiamo Russel Harwick. Ho iniziato questo diario per documentare le mie esperienze di alcolizzato. Cominciai a bere a 14 anni durante una vacanza scolastica, a 15 anni soffrivo di delirium tremens. A 19, scoprii che la marijuana, lâhashish, la cocaina o lâeroina riuscivano a tenermi lontano dallâalcol per un periodo limitato di tempo. Il mio divenne un labirinto di assuefazione allâalcol e poi alle droghe. Fui infine introdotto al peyote allucinogeno e allâLSD 25. Sotto lâeffetto del peyote ebbi una visione che cercai di dimenticare tornando a bere. Ma il ricordo mi ossessionavaâ.
Ecco come si presenta Russel Harwick, regista e allo stesso tempo protagonista del film sperimentale e semi-autobiografico Chappaqua, Leone dâArgento alla mostra di Venezia del 1966 e da alcuni considerato, a torto, il manifesto della beat generation. Prima di tutto, va a questo proposito detto che la beat generation, seppur composta da scrittori legati fra loro da vincoli di amicizia, non ha mai avuto la pretesa dâessere un movimento artistico coeso. Sono stati i critici a volerne fare una grande famiglia. Kerouac, ad esempio, ha sempre rinnegato la propria appartenenza al âmovimentoâ, vivendola come una sorta di imposizione mediatica, distante dal suo sentire. Ad ogni modo, anche assumendo che la beat generation possa essere considerata una corrente letteraria unitaria, questo film non ne sarebbe comunque il manifesto.
Ă vero che nel cast compaiono Allen Ginsberg e William Burroughs, mostri sacri della sacra âconfraternitaâ beat, ma è altrettanto vero che una rondine non fa primavera e che non basta qualche featuring lapalissiano e modaiolo per ascrivere un prodotto culturale ad un determinato genere. Il movimento beat, infatti, era in quegli anni uno dei principali riferimenti della controcultura americana, al pari, per intenderci, di un Bob Dylan o di una Joan Baez. Ă naturale, quindi, che nella produzione di un film underground buona parte dellâenergia potesse essere spesa nel tentativo di avvalorare la diversitĂ , vera o presunta, della propria creazione. E quale migliore intuizione se non quella di arruolare a servizio della propria arte lo zoccolo duro della cosiddetta controcultura? Nel film, tra lâaltro, non compaiono solo i due esponenti della beat sopra citati, ma compare anche un cane sciolto come Moondog, il vichingo della 6th Avenue, compositore sui generis che molto poco ha da spartire con la beat generation, se non il fatto di âabitareâ la controcultura americana di quel periodo (seppur in modo decisamente piĂš anonimo). Compare anche, per altro, Ornette Coleman, profeta del free jazz allora appena trentaseienne, che, per quanto citato tra le fonti dâispirazione âritmicaâ dei beat, non ha nulla a che vedere col âmovimentoâ in senso stretto. Lo stesso dicasi per il guru Swami Satchidananda e per il musicista indiano Ravi Shankar, presenti nella pellicola con brevi cammei.
Il film ânarraâ semplicemente la storia di un tossicodipendente americano che raggiunge Parigi, al fine di disintossicarsi in una clinica che ha tutta lâaria dâessere il castello de Il mastino dei Baskerville. Siamo dâaccordo circa il fatto che la sperimentazione possa anche essere minimal, ma la fabula è in questo caso talmente semplice da risultare quasi imbecille. A complicare le cose, purtroppo o per fortuna, interviene però una regia volutamente contorta, fitta di flashback e visioni sovrapposte, di artifici tecnici, di sfuriate sonore e alternanza di b/n e colori, il tutto nella ricerca quasi ossessiva di un linguaggio cinematografico sperimentale. I dialoghi sono pochissimi, talvolta ridotti allâosso o persino annullati da una surrealtĂ eccessivamente compiaciuta. Insomma, il film come prodotto artistico in sĂŠ lascia il tempo che trova, è piĂš la noia che altro, ma vale senzâaltro la pena dâesser visto per comprendere il modo in cui, dietro la sperimentazione, si celi talvolta la totale mancanza di idee. O quasi.
Il protagonista ha tutta lâaria dâessere uno yuppie dei bei tempi che verranno (anni luce dallâideal-tipo della beat) e, anche se il film si definisce, appunto, sperimentale, è difficile buttare giĂš lâincapacitĂ e approssimazione attoriale di Russel Harwick, soprattutto per me che non sono un amante del Pasolini regista. Alla fine della fiera, il protagonista abbandonerĂ la clinica senza essere per nulla guarito. La morale la lascio trarre a voi.
Una delle poche cose a salvarsi, oltre alla musica beat e a quella indiana che tappezzano il film e ben rendono lâidea del gusto musicale degli alternativi del periodo, è una certa capacitĂ evocativa del linguaggio visivo che, seppur in maniera discontinua, aliena quel tanto che basta a non addormentarsi. Qua e lĂ lâeffetto di straniamento funziona e, pur non consentendo quasi mai una totale fusione col protagonista e con quanto prova-sente-vede, ci rende comunque partecipi di una qualche deriva esistenziale.
Questo film è psichedelico in due sensi, esattamente come alle volte lo è un blotter di LSD. Câè il fatto estetico e il fatto sostanziale. Ă psichedelico nellâestetica, produce una certa vertigine esistenziale, sconfina nellâonirico, nel deforme, nel trascendente. La sua estetica è quella del blotter di LSD su cui è rappresentato, ad esempio, un roselefante. Promette un tuffo verso dimensioni parallele, realtĂ altre. E poi câè il fatto sostanziale. LâLSD promette e mantiene. Ingerito il blotter su cui è raffigurato il roselefante, la realtĂ si scardina davvero e noi possiamo finalmente risalire uno ad uno i pioli della coscienza, fino allâannientamento dellâordinario nel trascendente. Per quanto riguarda Chappaqua, invece, dietro al discorso estetico, alla sua facciata, non câè molto altro, e la promessa visione non arriva mai. Ă unâoccasione mancata, insomma. Unâora e venti di plateau senza orgasmo finale.
Il film vuol essere simbolico, ma il suo simbolismo è triviale. Gli archetipi e i loro profondi, multipli significati sono legati al vissuto di ogni individuo, e quindi di difficilissima decrittazione. Scaturiscono da lui solo, svelarne il mistero è compito arduo se non impossibile. Per questo motivo, quando un simbolo è troppo generosamente offerto alla comprensione dello spettatore, mi viene da pensare che ci sia la fregatura. Nello specifico si pensi alla donna danzante, dai lunghi capelli neri, che compare ogni qual volta il protagonista del film perde il controllo di sĂŠ. Rappresenta fin troppo chiaramente lâevasione nella sua duplice natura di musa e perfida matrona, come ben suggerito dalla riuscita recitazione dellâattrice. Troppo facile, insomma, per un film che si dice sperimentale e di ricerca, in cui mi aspetto, al minimo, di dover svelare qualcosa, e non di vuotarmi eserciti di caffettiere nello stomaco per riuscire a tenere gli occhi aperti.