Il sogno e lo specchio: la scrittura simbolista di Jorge Luis Borges

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L’acqua, il fuoco, la terra, l’aria. Il sogno.

Jorge Luis Borges è il bibliotecario per eccellenza, il demiurgo del labirinto, il sognatore che sogna di sognare. Tutto è circolare nella sua scrittura simbolista e liquida, l’inizio e la fine sono concetti legati al tempo e quando si sogna il tempo si dilata, si disgrega, e del resto “tra i giorni e le notti, che differenza c’è?”.

Borges sembra aver scorto il segreto dell’universo e desidera comunicarlo al resto del mondo attraverso la metafora: la biblioteca verticale e infinita in cui è racchiuso potenzialmente tutto il sapere, il passato e il futuro, in cui il libro è “estensione dell’anima” e dove si consuma la costante ricerca dell’interpretazione della realtà.

Finzioni (parliamo dell’edizione più recente di Adelphi in cui appaiono tre nuovi racconti rispetto all’edizione originale) è certamente l’opera considerata il cardine della letteratura borgesiana, comprendendo i celebri La biblioteca di Babele e Il giardino dei sentieri che si biforcano, dai quali emerge potente l’affabulazione onirica e la visionarietà magica con cui la letteratura contemporanea ha dovuto, inconsapevolmente o meno, fare i conti.

Il sogno è infatti protagonista incontrastato de Le rovine circolari. Il mago che sogna di sognare, il tema della creazione dell’uomo, il golem. Qui tutto è finzione e simbolismo in cui la Natura è viva e sussurra in un gioco elementale all’orecchio dell’uomo: si mescolano terra e fuoco tra le rovine circolari, nelle quali si consuma l’impossibile proposito del mago, quello di creare una verità dal sogno, una vita umana dalla pura immaginazione.

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Tutto è metafora, la creazione del mondo e dell’uomo, la creazione dell’opera letteraria stessa, persino nei racconti in cui ci si immerge nella dimensione saggistica: Antonio Melis nella postfazione suggerisce infatti che la cifra caratteristica di Borges è quella di mescolare i generi e contaminarli, trasgredire le regole letterarie e superare i topos con volontà allucinatoria e straniante;  si alternano qui senza un apparente ordine programmatico i racconti puramente finzionali come Le rovine circolari ai raffinati esercizi stilistici su libri immaginari, ad esempio in Tlon, Uqbar, Orbus Tertius.

In quest’ultimo – che in effetti è il racconto con il quale si apre la raccolta – compare un elemento ricorrente e quasi ossessivo: lo specchio. “Gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano e propagano il numero degli uomini” cita, nella finzione del racconto, il suo amico Bioy Casares. Il problema centrale è quello dell’identità, del riflesso e della conseguente percezione di sé, in un gioco complesso di rimandi e piani di lettura, in cui ritorna anche la ciclicità del tempo; lo specchio è capace di moltiplicare lo spazio potenzialmente all’infinito: è questo uno dei temi presenti anche nella Biblioteca, il dominio della ripetizione e dell’infinita combinazione di caratteri che formano libri sui quali è già stato scritto tutto, e nei quali si palesano tutte le cose del mondo. Nell’atrio della biblioteca-universo c’è uno specchio che serve a “raddoppiare fedelmente le apparenze; […] io preferisco sognare che le superfici terse figurano e promettono l’infinito.”

L’assassino cieco e spaventoso che si aggira per i labirinti della biblioteca è l’immagine indimenticabile che Umberto Eco ci lascia del suo personale fantasma di Borges, sintesi impeccabile del bibliotecario ossessionato dai dedali della mente.

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M. C. Escher, Relatività, 1953

Il labirinto è infatti un’altra immagine ricorrente, configurazione di simboli applicabili a più campi interpretativi, sentieri che si biforcano e che tornano, sempre uguali a se stessi eppure ogni volta diversi.

Il gioco è intenso perché si svolge sul terreno dell’etica: il rapporto tra amico e nemico, tra buono e cattivo: La forma della spada è il geniale racconto di Vincent Moon, che solo alla fine rivelerà di essere il carnefice di se stesso, confondendo l’idea stessa di protagonista e antagonista, legando così l’inizio e la fine del racconto in un cerchio perfetto.

Ne Il giardino dei sentieri che si biforcano, che dà il titolo alla prima parte della raccolta, c’è il libro e il labirinto, anzi essi sono la stessa cosa: l’antenato di Yu Tsun aveva scritto un romanzo in cui cercava di configurare tutte le convergenze, tutti i risultati di un evento nel futuro – e in tutti i futuri, ogni linea temporale simulata nell’infinità labirintica delle possibilità narrative.

Un racconto che combina l’estrema sinteticità narrativa all’infinita tematica circolare alla quale si rivolge: nel prologo Borges ci informa di questa sua prerogativa scrivendo che è “vaneggiamento laborioso e avvilente quello di chi compone vasti libri; quello di dilatare in cinquecento pagine un’idea la cui perfetta esposizione orale richiede pochi minuti.”

Yu Tsun ha modo di scoprire, suo malgrado, la profonda verità intuita nel libro dell’antenato, e si ritrova davanti una persona che crede sua amica, e in effetti lo è, ma lui stesso si trasforma in nemico comprendendo finalmente la verità, condensata nelle righe più intense di questo racconto:

“Pensai che un uomo può essere nemico di altri uomini, di altri momenti di altri uomini, ma non di un paese; non di lucciole, parole, giardini, corsi d’acqua, tramonti.”

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