François Jullien, Accanto a Lei: un libro sulla filosofia delle relazioni umane

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Le relazioni umane sono da sempre una materia molto delicata. Iniziare un pezzo che ne parli è particolarmente difficile: per rompere il ghiaccio potrei cominciare col dire che si tratta di un argomento iperinflazionato, scritto dagli scrittori, cantato dai cantanti, poetato dai poeti. Insomma ne parlano tutti, e spesso gli esiti sono disastrosi. Se una volta tanto decide di prendere la parola di un filosofo, allora forse è il caso di ascoltarlo.

Il nostro uomo è François Jullien, filosofo e sinologo, recentemente alla ribalta con Essere o vivere, perfetto compendio di quell’intreccio tra cultura occidentale e orientale che è al centro del suo itinerario speculativo. L’opera di Jullien è volta, per lo più, a mostrare le comuni radici alla base delle due culture, il loro dialogo, quello che lui stesso definirebbe un tra, una tensione vitale.

Accanto a lei è un saggio che vive interamente nel pneuma di una tensione vitale. Lo potremmo definire un’inchiesta filosofica, il viaggio di un commissario della speculazione alla ricerca del senso delle relazioni umane, del loro significato, dei loro segreti. Nella sua indagine Jullien incontra – disvela – diversi ostacoli, alcuni così presenti nella nostra esperienza quotidiana da evaporare al nostro sguardo, lasciandosi dietro solo un’aria di insoddisfazione,

“muri invisibili che si levano tra noi e le cose che abbiamo sotto gli occhi (o forse proprio perché le abbiamo sotto gli occhi), livellate, così vicine; tra noi e gli altri, con i quali viviamo e abitiamo e dai quali tuttavia – o piuttosto proprio perché coabitiamo con loro – ci troviamo a poco a poco insidiosamente separati.”

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François Jullien

Le relazioni umane somigliano a un gioco, un gioco spesso incomprensibile e qualche volta persino crudele. Nell’amicizia, e ancor più nell’amore, monta, nella distanza, un sentimento di ricerca, la voglia di annullare una distanza, di penetrare completamente nella sfera emotiva dell’altro. Lo spazio tra le due esistenze collassa sotto l’instancabile lavorio di individui che si cercano. Sembra impossibile vivere separati, eppure, quando l’agognata méta è raggiunta, quando la presenza dell’altro si installa imponente nella propria vita, è lì che, secondo Jullien, si genera opacità:

“Non c’è più il filo tagliente dell’assenza che la faccia risaltare, lo spalancarsi di una distanza che richieda di conquistarla: ne consegue che la presenza si ritrova inerte e paralizzata. La presenza è sprofondata nella sua stessa presenza: è atona.”

A venir meno è una tensione, l’anelito verso l’incontro. È eroso, per così dire, quell’elemento oggettivo – la distanza, appunto – che riempiva di attesa e speranza il tra. Il fatto stesso che l’oggetto del desiderio sia finalmente presente rischia di provocare un’isterilimento che è mortale per la relazione stessa.

Per fortuna, secondo Jullien esiste un antidoto a quello che sembra un destino ineluttabile in ogni relazione umana:

“La presenza intima (o anche l’intimo della presenza) è la rivolta dell’umano che si approfondisce nella sua umanità, contro il fatto che l’esser-presso si dilegua proprio nel momento in cui si stabilisce, si prosciuga (si isterilisce) per il fatto stesso di realizzarsi; […] L’intimo emerge invece da uno svolgimento che persevera: si diventa intimi, e lo si diventa infinitamente. Superando a poco a poco le barriere delle buone maniere dopo quelle dell’indifferenza, ritirandosi da una stessa parte difronte alle apparenze del mondo, senza più proiettare progetti sull’altro e rinunciando alla prudenza nata dalla diffidenza o dai calcoli dell’interesse, gli amici-amanti – coloro che hanno fatto accadere l’intimo tra di loro – sono entrati per slittamenti progressivi in questa risorsa non divulgata, in questo fondo senza fondo di complicità da cui non smettono di attingere…”

Ciò che mantiene in vita un rapporto non è più un progetto sull’altro, un’immagine maldestramente ritagliata dalla propria fantasia che stenta ad aderire ai contorni reali della presenza, dello stare insieme. Jullien sembra suggerire un passaggio da una presenza esteriore (opacizzante) a una presenza interiore, che installa la presenza dell’altro in sé stessi attraverso “le cose minime dell’esistenza condivisa”. Niente capriole o gesti eclatanti, nessuna dimostrazione di erudizione o di vitalità fuori dal comune, soltanto una complicità che, per lo più, non ha bisogno di essere espressa.

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L’intimità è, dunque, una risorsa fondamentale per gli “amici-amanti”, così come li definisce Jullien. Un’intimità che non lavora verso la co-dipendenza, verso l’annullamento della propria soggettività. Al contrario, accresce i confini del sé in possibilità infinite. Questo sé, infatti “invece di essere chiuso e limitato in sé stesso, si approfondisce indefinitamente” nel rapporto con l’altro. “Fintanto che nell’intimo io trabocco dell’altro (e non mi trovo ripiegato su me stesso) la sua presenza non può cadere nell’opacità.”

Perché la relazione elevi la condizione di entrambi i soggetti, l’altro deve rimanere altro. L’alterità deve preservare la tensione intima tra i soggetti. Il dialogo, che in parte si è ritirato dalla sfera esteriore, deve rimanere più vivo che mai all’interno, nell’intimo. Perché ciò avvenga i soggetti devono essere poli opposti in grado di preservare la tensione magnetica tra gli individui…

“…quando i suoi occhi iniziano a posarsi su di me e i miei su di lei, accade tutt’altro, qualcosa di radicalmente nuovo […], lì nulla è già giocato e tutto quel che era previsto deve essere improvvisato.”

La presenza intima deve essere alimentata. Il “contatto visivo” deve costantemente rigenerare la tensione, mantenerla viva. È una “tensione dolce” ciò che, secondo Jullien, di più duraturo, benché instabile, si possa instaurare tra due esseri: non è propriamente amicizia né propriamente amore. Probabilmente si può definire prossimità.

“Sentire che si alza, nella stanza accanto. […] Aspetto ad alzarmi per ascoltare i suoi primi gesti, magari banali, ma al contempo unici. Non con fare inquisitorio, né per semplice curiosità, ma per avvertire in lei, o meglio in questa tensione verso di lei, tra lei e me, in questa sorta di cassa acustica dell’intimo, che cos’è esistere, di minuto in minuto, nell’attualità che Lei si inventa in questa mattina d’autunno.”

Condividere l’intimità è imparare, attraverso l’altro, a sentire.

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Fabrizio Cotimbo scrive di letteratura e dintorni su Ossimoro e Auralcrave. Seguilo su Facebook e Twitter.

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