Quando è Moda è Moda: Giorgio Gaber contro l’ipocrisia dei piccolo borghesi

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Se c’è un artista nel panorama musicale italiano che non smetterà mai di essere attuale e perfettamente contestualizzato con ogni tempo, quello è Giorgio Gaber. Sempre diverso sia dagli altri che da sé stesso fin dall’inizio, quando milita insieme ad Enzo Jannacci nel rock’n’roll. I suoi testi non hanno confini, spaziano nei temi più differenti, dall’amore alla politica.

La sua discografia si può dividere in due periodi: prima e dopo l’approdo al teatro canzone. Sì, perché ciò che rende davvero unico Giorgio Gaber è proprio la fusione della musica leggera (ma pur sempre d’autore) con il teatro, che potremmo quasi definire “la sua America”. Parleremmo sicuramente in altri termini (di certo positivi, ma comunque diversi) del Signor G se, nel 1970, non avesse condiviso la tournée con Mina tra i migliori palcoscenici della penisola, scoprendo un mondo nuovo, che a lui calzava come un guanto cucito su misura. Proprio mentre per le strade, nelle università, nelle fabbriche arrivano il Sessantotto e la contestazione in tutte le loro mille sfaccettature, Gaber osserva con attenzione i cambiamenti, gli umori e gli animi di chi conduce quelle battaglie sociali, senza lasciarsi sfuggire il minimo dettaglio. Fastidio per l’ipocrisia, per chi si riempie la bocca di parole ma nei fatti non combina alcunché, attacchi alla Destra e alla Sinistra: nessuno si salva dalla sua lente di ingrandimento, capace di cogliere sfumature altrimenti nascoste.

È, però, l’omologazione della diversità da lui percepita nella sua artificiosità sempre più dilagante a suscitare nel cantautore milanese maggior insofferenza. In collaborazione con Sandro Luporini, scrive il recital della svolta, andato in scena nella stagione 1978-1979: Polli d’allevamento. La sensazione che i due autori intendono trasmettere al pubblico è la delusione per un’inerzia “attiva” con cui i valori del cambiamento, che hanno animato un intero decennio, vengono portati in piazza da giovani che sostengono di lottare contro un sistema (ma solo “per atteggiamento”). Gaber e Luporini, quindi, decidono di distanziarsi da tutto ciò, lasciando da parte le mezze misure e soprattutto di passare dal “noi” al “voi”. Benché grammaticalmente possa non sembrare una differenza così sostanziale, questa scelta ha un significato fondamentale: equivale a dissociarsi, a prendere le distanze da qualcosa in cui non si può più credere e ad attaccarlo senza timore.

Quando è moda è moda

Lo spettacolo viene registrato al teatro Duse di Bologna il 18 ottobre 1978 e gli arrangiamenti dei testi sono curati da Franco Battiato e Giusto Pio; coerenti con la nuova linea di Gaber e Luporini, anche nella musica si avvertono cambiamenti: non più basso, batteria e chitarre elettriche, bensì sintetizzatori, fiati e quartetti d’archi. Polli d’allevamento è costruito su un crescendo di tensione che esplode definitivamente nell’ultimo brano, Quando è moda è moda, un’invettiva infuocata che scatena il malcontento in diversi schieramenti politici, tanto di Destra quanto di Sinistra, preoccupati dalla portata mediatica del teatro canzone. Anche il pubblico accoglie con difficoltà questo pezzo, spesso fischiando a Gaber; benché comunque si senta privilegiato nel poter esprimere la propria opinione nonostante tutto, finita la tournée si ferma per un paio d’anni, guidato dalla stessa intelligenza e buon senso di cui i suoi testi sono pregni.

Con Quando la moda è moda, in quasi sette minuti Giorgio Gaber porta avanti un preciso attacco nei confronti non tanto del sistema, ma di chi ripete ogni giorno di volerlo abbattere e di riuscire a farlo perché si è “diversi”. L’acuta osservazione che sta alla base di questo testo – e che si può applicare a tutte le finte minoranze delle società occidentali – riguarda il fatto che, se chiunque proclama e diverse il proprio essere alternativo, il risultato finale è che nessuno lo è davvero; è una volontà sterile gridare al mondo di poter sovvertire il sistema se si è parte integrante e ben omologata. Il brano inizia con una sorta di reminiscenza dell’autore, che ricorda la meraviglia con cui osservava crescere i primi germogli di protesta, di voglia di cambiamento e di resistenza alle imposizioni dall’alto. Questa rievocazione, però, si trasforma subito in una decisa presa di posizione verso chi, un decennio dopo, “sporca” gli stessi termini e gli stessi valori con il fango dell’atteggiamento, del mostrarsi a tutti i costi “contro”.

“Non so cos’è successo
A queste facce, a questa gente
Se sia solo un fatto estetico
O qualche cosa di più importante”

Così dice Gaber, incredulo di fronte a ciò che, iniziato con le migliori intenzioni, è diventato un pretesto per fare baccano. Da uomo lungimirante quale è, riconosce già il futuro “per bene” di chi grida con il pugno sinistro alzato, o chi si riunisce in una comune;

“Sanno divertirsi
E fanno la fortuna e la vergogna
Dei litorali più sperduti e delle grandi spiagge
Della Sardegna”

Oggi combattono il padrone, domani ne hanno già tutti i vizi. La canzone stessa è un climax di tensione che prende le vie più disparate, mette in luce le ipocrisie delle persone e sottolinea l’inutilità di portare sempre le ideologie e i valori dei movimenti all’esasperazione, all’estremo. Ed è proprio su questo piano che affronta il problema nelle ultime strofe, assumendo il tono arrabbiato di chi protesta (ovviamente senza convinzione reale) perché per essere ascoltato sa che non può fare altrimenti.

Mi fanno schifo le vostre animazioni
le ricerche popolari e le altre cazzate
e finalmente non sopporto le vostre donne liberate
con cui voi discutete democraticamente

Sono diverso perché quando è merda è merda
non ha importanza la specificazione
autisti di piazza studenti barbieri santoni artisti operai
gramsciani cattolici nani datori di luci baristi
troie ruffiani paracadutisti ufologi

L’accortezza che gli ascoltatori dell’epoca non hanno dimostrato di avere (o non hanno voluto dimostrare, sempre per lo stesso motivo, ovvero il mantenimento della facciata di indignati verso il sistema) risiede nell’ascoltare questo brano – e per estensione tutto lo spettacolo – con il buon senso che permette di capire che Gaber (e Luporini con lui) non è contro il cambiamento, le proteste e il nuovo che avanza in toto, ossia senza distinzione alcuna fra ciò che è reale e profondo e ciò che è finto, bensì la moda dello sdegno.

Me lo immagino il Signor G che ci guarda da dovunque egli sia e si arrabbia – lui per davvero! – perché in questi quarant’anni non abbiamo capito nulla (e, temo, non capiremo mai).

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