The Killing of a Sacred Deer, l’involuzione di Yorgos Lanthimos

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Presentato in concorso al Festival di Cannes 2017, e vincitore del premio per la miglior sceneggiatura, The Killing of a Sacred Deer doveva rappresentare per Yorgos Lanthimos – dopo gli apprezzatissimi Kynodontas e The Lobster – la consacrazione in quel ristretto gruppo di Autori (con la A maiuscola) dell’ultimo decennio. Niente di tutto ciò, purtroppo: il film risulta pretenzioso e lacunoso, fa leva solo ed esclusivamente sulla tensione generata dal mistero che aleggia intorno ai personaggi. La struttura narrativa, già carente (ma comunque con una sua precisa logica) nei due lungometraggi precedentemente citati, è qui ridotta in maniera alquanto semplicistica.

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Si coglie già dall’inizio del film un forte senso di autoreferenzialità da parte del regista greco, c’è l’abbandono dei rapporti alienati del mondo in cui è ambientato The Lobster per favorire un ritorno all’interno delle quattro mura domestiche già viste in Kynodontas, spicca moltissimo l’analogia tra i coniugi protagonisti di questa pellicola – rigide figure patriarcali e sinistre – e quelli visti nel già citato Kynodontas; l’aggiunta in The Killing of a Sacred Deer sarà quella di un misterioso personaggio che entra a far parte della vita del protagonista, quest’ultimo interpretato da un glaciale Colin Farrell, spalleggiato da un’altrettanto fredda e distaccata Nicole Kidman.

Il soggetto, ispirato da una tragedia greca, si concentra – per farla breve –  sulla disintegrazione della stereotipata famiglia borghese a cui procede tutto rose e fiori. Un ragazzo all’apparenza affetto da gravi problemi psichici entrerà nella vita dell’affermato chirurgo (Farrell) che ha ucciso suo padre durante un intervento cardiaco, e  tutto ciò provocherà una concatenazione di eventi, al limite tra fantastico ed esoterico, che coinvolgeranno la moglie (Nicole Kidman) e i due figli, Kim e Bob, portando il nucleo familiare alla distruzione.

Non mi voglio soffermare sulla trama, che come avrete intuito non ha chissà quali elementi innovativi, ma piuttosto evidenziare quei difetti (e i pochi pregi) che rendono The Killing of a Sacred Deer un film fondamentalmente dimenticabile, soprattutto per chi considera il regista greco tra i più talentuosi degli ultimi anni. Nonostante i film di Lanthimos siano certamente debitori a pellicole di grandi cineasti del calibro di Lynch, Haneke e Von Trier, il regista greco stava – pian piano – costruendo un suo stile e, se avesse proseguito le orme tracciate con Kynodontas, ora The Killing of a Sacred Deer sarebbe stata la conferma dell’avvenuta maturità. Perché qualcosa è andato storto?

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L’apertura verso un circuito più mainstream è giustissima, niente da obiettare se non fosse che – nel caso di Lanthimos – questo aprirsi verso una concezione diversa di fare cinema faccia sì che si crei un netto distacco tra chi guarda e chi viene guardato. Mi spiego meglio: questo distacco, è comunque presente in tutti i suoi lungometraggi, ma ha un valore diverso in ognuno. In Kynodontas il regista crea un distacco quasi documentaristico: vediamo la disgregazione della parola (con scambi di battute al limite dell’assurdo) e della famiglia, siamo distaccati perché ce lo impone il solo atto del guardare quelle situazioni irreali. In The Lobster questo distacco imposto si fa mano a mano distacco involontario: se nel precedente film eravamo testimoni di una vicenda ora siamo semplici spettatori, tutto ciò è dato da due fattori preponderanti: un futuro distopico e un’ambientazione dal carattere cinematografico, finto, in contrasto con la casa di Kynodontas che poteva tranquillamente essere la casa del nostro vicino. In The Killing of a Sacred Deer la distanza si fa ancora più netta e crea uno iato tra lo spettatore e la pellicola. Assistiamo a qualcosa che nemmeno noi riusciamo a definire, anche le cose che dovrebbero risultare meno confuse di altre ci sfuggono,  questo perché il film – ripeto – è costruito su di una struttura narrativa basilare, in bilico tra realtà e fantascienza (?). Inoltre la presenza di scene erotiche o violente è assolutamente ingiustificata e grottesca, sembrano essere messe lì tanto per, solo ed esclusivamente per continuità coi precedenti lungometraggi (dove in realtà tutto aveva una sua coerenza narrativa), il disgusto che ci provocano è piuttosto dettato dall’inutilità della scena in sé che dalla consecutio degli eventi. Le scelte dei protagonisti infine  non risultano ne convincenti ne coerenti: sembra di assistere ad una rappresentazione standardizzazionata degli eventi. Come possiamo immedesimarci o essere testimoni di un qualcosa che non riusciamo a cogliere, ne in ambito narrativo ne in ambito estetico?

Un’ulteriore involuzione del regista la troviamo inoltre nella caratterizzazione dei personaggi, nonostante le buone prove attoriali del duo Farrell/Kidman, il carattere impresso da Lanthimos ai due personaggi è perennemente in contrasto, non c’è una presa di posizione netta nella psicologia dei protagonisti. Il padre e la madre sembrano dapprima due autorità per i figli (come in Kynodontas), per poi rivelarsi man mano personaggi dai contorni ambigui e indefiniti, da qui nasce un’ulteriore senso di distacco Spettatore/Attore. L’unico personaggio ad essere caratterizzato in maniera concretamente valida è il misterioso ragazzo che entra nella vita della tranquilla famiglia borghese. Anche i due figli della coppia, proprio come i genitori,  risulteranno più come un escamotage narrativo per giustificare gli eventi che come due personaggi veri e propri.

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La pellicola di Lanthimos ci lascia con l’amaro in bocca, se dapprima il cineasta greco ha sempre trovato i compromessi giusti tra forma ed estetica, questa volta gli ottimi movimenti di macchina, le inquadrature e le zoommate ansiogene, non riescono compensare le evidenti carenze strutturali della narrazione. È evidente la mancanza di quelle chicche d’originalità che avevano proiettato il regista  a sviluppare un proprio segno di riconoscimento (il linguaggio in Kynodontas, in barba a tutti i trattati di Linguistica o la geniale trovata della vita da animale in The Lobster). L’unica nota positiva è l’alta carica di tensione che pervade l’atmosfera di tutto il lungometraggio, che si accumula fino ad esplodere completamente nel finale. Peccato che non basti a salvare uno dei più grandi rimpianti di quest’anno.

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