Rorschach: il più solitario e disadattato dei Watchmen

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Se avete amato Watchmen, avete amato innanzitutto Rorschach: per la sua umanità genuina, sgraziata e straziata, maleodorante, per il suo essere profondo e autentico nonostante un manicheismo fanatico.

Per molti versi simile a un altro celebre disadattato del grande schermo, il Travis Bickle che in Taxi Driver aspira a ripulire New York, il nostro Rorschach conduce la propria esistenza sullo stesso limite scivoloso che trasforma la giustizia fai-da-te in desiderio di morte e auto-annientamento.

Perché Rorschach è certamente il vigilante in missione per ripulire il mondo dal male connaturato alla condizione umana; è pure un sociopatico/misantropo che si allontana – ne è messo ai margini – dal consesso civile; un fanatico integralista che divide il mondo in buoni e cattivi, morali e amorali, braves e flaccidi borghesi, patrioti e “comunisti”. Ma non solo.

Incarna un preciso approccio esistenziale: sfrondare la vita da orpelli e mollezze di ogni genere, restando ligi al solo rigore morale alla maniera della scuola cinica ateniese. È lui il novello Diogene con tanto di lampada – la torcia elettrica con cui si aggira furtivamente nella notte –  che ci viene in soccorso per squarciare il velo della finzione e ristabilire la verità nel mondo.

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Abbiamo a che fare con un misantropo a tutto tondo, colui che subisce il richiamo della foresta e della solitudine, dell’obbligata distanza saturnina da mettere tra sé e il mondo degli uomini, tra sé e la civiltà.

Come i cinici ateniesi, anche Rorschach conduce una vita randagia e autonoma nel segno degli istinti più selvaggi (cinismo deriva dal greco kyón che vuol dire cane), non interessato ai bisogni e alle passioni umane ma fedele al solo rigore morale: la sua condotta e i suoi valori si oppongono radicalmente a quelli dell’antagonista Ozymandias – portatore di raffinata civiltà e sofisticata menzogna al contempo – alla stessa maniera in cui il cinismo rappresentò il primo sfregio all’equilibrio della bellezza classica.

Attraverso le sue sentenze cupe e affilate, venate di un misticismo ascetico, Rorschach si fa portatore della lucidità del folle che dispensa moniti allo stolto e presuntuoso uomo contemporaneo. È un grido disperato quanto instancabile e minaccioso il suo, come quello di un predicatore medievale che esorta gli uomini a non lasciarsi ingannare dalle “magnifiche sorti e progressive”, un proclama che assume le forme di una condanna della modernità e delle sue storture spacciate per progresso: senza possibilità di discussione alcuna, poiché sentenziata all’interno della vita psichica del personaggio e del suo solipsismo feroce.

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Quasi abitasse una dimensione parallela – come il dr. Manhattan che può vedere i fili che muovono i burattini nell’universo – anche Rorschach percepisce, più umanamente, le sovrastrutture sociali che fanno da impalcatura al nostro essere al mondo; ne prova disgusto e gli costa fatica adeguarsi, la fatica della menzogna innanzitutto. Riesce a toccare con mano la coltre che separa verità e finzione, ma oltrepassarla non gli è dato poiché sarebbe come indossare uno scomodo abito da cerimonia: così si va in scena tra gli uomini, dolorosamente, come il bruco che diventa farfalla, materia inerte e felice che si anima per l’infelicità del mondo.

Il mondo là fuori è fumo negli occhi dello stolto, è una ragnatela di sciocchezze e blablabla: la osserva al rallenty come in Matrix e scorge solo maschere e pose fittizie.

Da questa rinuncia al mondo deriva quella consapevolezza che è la sua arma più potente, che fa di lui l’avversario più irriducibile: una lucidità che non fa sconti e disegna un mondo in bianco e nero, come la maschera che indossa, dove il compromesso morale non è mai accettabile.

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