Dodes’ka-den: il significato del film nella vita di Akira Kurosawa

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Akira Kurosawa, “Imperatore” del cinema giapponese per i suoi compatrioti – “buon artigiano schiavo del cinema” secondo lui, definizione quest’ultima che ne fa trascendere tutta l’umiltà ed umanità. Questi due termini – umiltà ed umanità –  caratterizzano le sue opere cinematografiche sin dagli inizi come regista e sceneggiatore, in particolar modo: Vivere, Rashomon, Cane Randagio, e via via elencando gli innumerevoli capolavori a cui ci ha abituato.

C’è però un momento della vita in cui determinate certezze – a volte, solo illusioni (come in fin dei conti è fatto il mondo del cinema) – vengono meno. Si apre così una frattura, una crisi profonda nell’animo di quell’umile artigiano che, negli anni, aveva mostrato al mondo – grazie ai protagonisti delle sue opere – tutta la misericordia dell’essere umano purificato da quei sentimenti d’egoismo e malvagità, figli di una società impura (contro la quale Kurosawa si scagliò, spesso e volentieri), che corrompono l’anima all’uomo.

Qual è stata la causa di questo improvviso (e momentaneo) scossone nella vita del regista? Il cinema dei produttori, quei produttori che da sempre hanno dato filo da torcere al regista. Già, perché lui, da vero artista qual era, aveva smania di perfezionismo (anche per questo divennero famosi i budget spropositati di cui necessitava), che però veniva puntualmente distrutta per i frequenti tagli adoperati dai produttori: censura, esagerata lunghezza, scelte queste a dir poco scellerate.

Dopo aver terminato la lavorazione di Barbarossa nel 1965, il discreto successo di pubblico della pellicola (che però non bastò a ripagare i costi) fece si che i produttori si allontanassero dall’Imperatore, spaventati appunto dal suo esagerato perfezionismo. L’inattività non è una parola contemplata dal vocabolario di Kurosawa: così si rivolse agli americani che, dopo aver apprezzato le sue opere (Kurosawa fu colui che rese grande e conosciuto il cinema nipponico del dopoguerra), gli affidarono alcuni progetti, destinati poi a naufragare. Il primo dei quali traeva ispirazione da un fatto di cronaca realmente accaduto, la folle corsa per tutta Chicago di un treno merci con tre uomini a bordo, privo del conducente morto inspiegabilmente suicida: il film avrebbe mostrato come il mezzo sarebbe stato fermato. Kurosawa, che necessitava della sua intera troupe dal Giappone, venne per questo motivo escluso dal progetto da parte del produttore Levine, e il film in questione (Runaway Train) verrà realizzato oltre vent’anni dopo da Koncalovski. Il secondo – e più drammatico – progetto (fallito) americano di Kurosawa è Tora! Tora! Tora!, ricostruzione storica dei retroscena della battaglia di Pearl Harbor. A causare problemi questa volta è l’impossibilità del produttore, Darryl Zanuck, a capire i metodi di lavoro di Kurosawa: come affermato da un testimone presente sul set, Zanuck licenziò in tronco il regista nipponico, considerandolo (parole sue) “un pazzo”.

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Conclusasi la deludente esperienza americana, Kurosawa dopo varie discussioni con tre dei suoi più illustri colleghi (Kinoshita, Ichikawa, Kobayashi), decise di fondare – come rimedio alla crisi che stava vivendo il cinema giapponese – una casa di produzione indipendente insieme ad essi: I quattro cavalieri. Il primo progetto, Dodes’ka-Den – dopo il lungo travagliato stop – è proprio opera dell’imperatore, un film che si portava dietro il probabile rischio di fallimento (di critica e di pubblico) per vari fattori: prima di tutto il soggetto, ispirato al libro Quartiere senza sole di Shugoro Yamamoto, che cozzava col periodo di boom economico vissuto in quel preciso momento storico dal Giappone. Fallimento poi effettivamente avvenuto, il lungometraggio fu un insuccesso di pubblico che fu anche causa, insieme ad una misteriosa malattia ed alla delusione susseguente al licenziamento subito per Tora! Tora Tora!, del tentato suicidio da parte di Kurosawa. Quello stesso umanista che stava per essere quasi vinto da ciò in cui credeva più di qualsiasi altra cosa: la fede che riponeva negli uomini. Ed è proprio la carica di cinismo, scaturita nel regista durante quel periodo, la colonna portante del film che ha segnato il periodo di svolta dell’Imperatore. Dodesk’a-den, appunto.

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Dodes’ka-Den, la locandina originale

Nella locandina in alto possiamo osservare, oltre gli sgargianti colori, la frase “Akira Kurosawa’s First film in color”, ad annunciare Dodes’ka-Den come il primo lungometraggio a colori del maestro. Troviamo dunque un punto di rottura con la sua produzione precedente in bianco e nero, dopo oltre vent’anni Kurosawa adopera il colore che si rivelerà poi una delle peculiarità, insieme alla fotografia, dei suoi successivi lungometraggi: Dersu Uzala, Kagemusha, Ran. Ed è proprio grazie all’uso del colore che il cineasta nipponico ci mostra il suo quartiere senza sole, una bidonville che risulta ancor più spietata nella messa in scena rispetto a quella Zavattiniana di Miracolo a Milano o quella post-Pasoliniana di Brutti, Sporchi e Cattivi. L’ennesimo punto di rottura lo ritroviamo nella maniera “umana” in cui aveva rappresentato I Bassifondi nel film omonimo o i quartieri di Tokyo dimenticati da Dio in Cane Randagio, ed è quello che qui porta alla rappresentazione all’estremo: cumuli di rifiuti, totale assenza di vegetazione e il colore nero a dominare la scena di questo gigantesco affresco. Si creano così – in questo insieme di innumerevoli colori – contrasti che ci rivelano il deliberato uso pittorico-espressionistico della palette cromatica: il verde e l’ocra a simboleggiare l’avvelenamento, il giallo e il nero l’ebrezza dell’alcool e così via. Gli scenari invece sembrano frutto di un incontro tra Kurosawa ed un altro maestro, questa volta un teatrante, Samuel Beckett. Tant’è vero che non è azzardato analizzare le similitudini tra le ambientazioni descritte dal teatrante irlandese in Finale di partita o Aspettando Godot con quelle che vedremo in Dodesk’a-den.

“Senza far dimenticare la miseria, questi colori antinaturalistici e fantastici la rendono più allucinante e atroce.”
Bernard Cohn

Nel già citato libro dal quale è tratto il lungometraggio abbiamo quindici storie ambientate in diverse epoche. Kurosawa sceglie solo otto racconti, li colloca nella stessa epoca e nello stesso luogo mostrandoli frammentati in un esperimento di concatenazione degli eventi decisamente lungo, per una durata complessiva di quattro ore, successivamente ridotta a due ore e venti dai distributori (non esiste purtroppo la versione originale della pellicola). Tornando alla locandina, inoltre, troviamo un’altra importante informazione riguardo lo strambo titolo: Dodesk’a-den, the sound of trolley, il suono del tram, che può introdurci uno dei protagonisti del film, Rokuchan. Un ragazzo ritardato amante dei tram (come vedremo dai suoi disegni dai colori sgargianti) che – incurante e disinteressato (incarna pienamente il profilo del sognatore) a ciò che lo circonda – attraversa la bidonville mentre guida un tram immaginario e ripetendo senza sosta “Do-De-Sk’a-Den” ovvero il rumore che provoca il tram che transita sulle rotaie.

Gli altri personaggi che incontreremo saranno sempre degli inetti o dei dimenticati da Dio: i due barboni, padre e figlio piccolo, che sogneranno continuamente case immense con piscina collocate su colline intrise di verde, mentre in realtà sono costretti a vivere nella carcassa di un’auto; un parassita che abusa della nipote, quest’ultima costretta a lavorare per mantenerlo. Più altri innumerevoli personaggi dai contorni tragi-grotteschi ma non solo: ci sarà spazio anche per dei personaggi guidati dalla misericordia e dall’umanesimo che contraddistingue il cinema di Kurosawa, come il vecchio saggio Tamba. Il tutto viene condensato in una scena: un ladro, dopo aver derubato l’anziano ed essere stato scoperto dalla polizia, tornerà a far visita al vecchio che, preso dalla compassione per la condizione in cui è costretto a vivere il ladro (il rubare per necessità e non per cattiveria), non solo negherà il furto alla polizia, ma inviterà il ladro ad andare a trovarlo, questa volta però passando dalla porta. Nonostante questi “sguardi felici”, lo sguardo saggio dell’anziano, o il disincanto dei due barboni saranno in contrasto con lo sguardo del regista, che risulterà cinico e disinteressato alle sorti dei suoi personaggi. Possiamo anche – in maniera alquanto leggera – idealizzare il personaggio dell’autista del tram immaginario con Kurosawa ed il suo genio creativo, che incantato si muove senza sosta attraverso un mondo fatto di rifiuti umani e morali.

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E, forse, quella luce solare che illumina la stanza e i disegni di Rokuchan nel finale del film, richiama e può simboleggiare una speranza flebilmente ritrovata dall’Imperatore Kurosawa.

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