Breve storia della musica classica nel mondo del cinema

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Alla domanda “qual è il genere musicale che preferisci?”, ci troviamo spesso in imbarazzo, non sapendo distinguere un preciso orientamento tra le nostre preferenze. Ma una cosa è statisticamente certa: in pochi barriamo la casella “musica classica”. Già il nome “classica” è tutto un programma. Classica come il Liceo, quello delle lingue morte o come i volumi tanto osannati dai professori accademici. Non nascondiamoci… se diciamo di essere appassionati di questa musica rischiamo di venire subito etichettati come “vecchi” o talvolta “snob”. Perché, si sa, “la musica classica è roba difficile”. La “difficoltà” che sembrerebbe essere intrinseca a questo genere è una delle scuse meglio architettate per non avvicinarsi ad esso. Ed è un vero peccato.

Per questo oggi mi rivolgo a te, che stai leggendo questi miei pensieri e ti trovi d’accordo sul fatto che sì, la musica classica è roba da cervellotici. Voglio provare a coinvolgerti in un viaggio a tema dentro la musica che pensi di non amare, e voglio che tu mi segua. Se non ci provi, rischi di perderti emozioni penetranti, capaci di incidere per sempre il tuo cuore e accompagnarti per tutta la vita. Non ti fidi? Fai un tentativo. Sono convinto che possiamo intraprendere un percorso di comprensione e avvicinamento, al repertorio classico e operistico, in un modo che ti risulterà particolarmente intrigante. Perché nel farlo ho pensato di ripercorrere scene tratte da celebri film, divenuti famosi proprio grazie a certe composizioni.

Ho selezionato quelle a mio avviso dal maggiore impatto emotivo. Vediamo se riesco così a farti innamorare o almeno a lasciarti la voglia di esplorare questa musica.

Iniziamo da Il Pianista di Roman Polański, tratto dal romanzo autobiografico omonimo del pianista polacco (di origine ebrea) Władysław Szpilman. Si tratta del racconto di quanto da lui vissuto, allo scoppio della seconda guerra mondiale. Si parla dell’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche, dell’occupazione di Varsavia, della creazione del ghetto, della vita e della sopravvivenza in quello spazio delimitato e della sua fuga e sopravvivenza fuori da esso, fino alla liberazione della città da parte dell’Armata Rossa. Le note melodiose e tristemente struggenti del pianista costituiscono una sorta di ideale fil rouge che si dipana fra dolore e memoria. Il pianista sopravvive soprattutto grazie alla forza datagli dalla sua passione per la musica. La scena più bella e commovente è quella dell’ufficiale tedesco che scopre Szpilman nascosto in una soffitta per sfuggire alla furia nazista. Dopo aver saputo che era un pianista lo mette alla prova e gli chiede di suonare. Szpilman, affamato e infreddolito gli suona la bellissima e drammatica Ballata in Sol minore, Op. 23 di Chopin. L’ufficiale lo ascolta fino alla commozione. Una luce straordinaria nel buio tragico della guerra.

Proseguiamo con il finale de Il Padrino – Parte III. Mi ha sempre dato i brividi. È un epilogo duro, spietato e cruento, incentrato sul personaggio di Michael Corleone, nel momento esatto in cui la figlia Mary viene assassinata al suo posto. Come non emozionarsi alla vista della maschera di dolore che si dipinge sul volto di Al Pacino? Una prova d’attore che da sola vale l’intero film. Il suo “silent scream” (urlo silente), che sembra possa durare per l’eternità, è stato paragonato all’Urlo di Munch. La musica che accompagna questo momento è l’Intermezzo strumentale tratto dalla Cavalleria Rusticana di Mascagni.

Come non parlare, poi, dello straordinario e imponente incipit musicale del film 2001: Odissea nello Spazio? La musica Così parlò Zarathustra, op. 30, utilizzata da Kubrick in questo cult di fantascienza, è di Strauss, che volle affrescare musicalmente il testo del celebre filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. In questo testo, il profeta (detto Zoroastro), fondatore dell’antico credo persiano, si confronta con l’uomo portando il suo insegnamento. Il tema alla base del suo credo (e di riflesso del film) è l’evoluzione, non solo intesa come progresso fisico e tecnologico, ma anche come progresso mentale e filosofico capace di portare l’uomo in direzione del SUPERUOMO. Solo distaccandosi dall’idea di un’evoluzione darwiniana l’uomo potrà prendere coscienza della sua posizione nel cosmo e governare la natura e le sue forze. Ma Strauss, pur traendo ispirazione dal testo filosofico, la pensava in modo diverso e cercò di mettere in musica la sua visione. Il SUPERUOMO di Strauss non riesce a domare le forze della natura che appaiono fin dal principio troppo grandi per lui. Indicativo e simbolico il susseguirsi delle note basse suonate dai contrabbassi a sottolineare il rumore cosmico assordante e inimitabile. Nulla potrà mai rivaleggiare con l’impeto, la forza e la profondità delle note iniziali del poema sinfonico; nulla potrà superare la voce della Creazione.

Uno dei brani più ascoltati e utilizzati nei film è sicuramente Clair de Lune, di Claude Debussy. Si tratta di una composizione per pianoforte facente parte del terzo movimento de La Suite Bergamasque. È una melodia molto conosciuta ripresa da film diventati culto come, Ocean’s Eleven, Canone Inverso o Twilight. Ma quella che voglio proporti è tratta dal film Sette anni in Tibet. Un viaggio dalla mente al cuore di Heinrich, un uomo molto determinato che ama scalare le montagne e per questa sua passione è disposto a sacrificare qualunque cosa. Ha una grande forza interiore ed è in lotta con il mondo intero. Il suo cuore è di pietra come la roccia che ama scalare. Mentre nell’Europa circolano venti di guerra, parte per fare una spedizione sull’Hymalaja lasciando a casa la moglie incinta. Ha investito tutte le sue energie per costruire un “Io” forte capace di affrontare le burrasche più potenti, ma è un uomo profondamente solo che ha bloccato la sua crescita esistenziale e non sa che cosa sia l’amore. La vita lo costringerà a prendere delle decisioni che lo faranno profondamente cambiare, come vedremo alla fine del film. Amare è un’arte che si apprende ed Heinrich, al suo ritorno, regalerà al figlio un carillon donatogli dal Dalai Lama. L’oggetto suona una musica dolce che si diffonde nell’aria, in quelle note c’è tutto il desiderio e tutto il dolore che Heinrich esprime al figlio per essersi assentato e per non essere stato capace di costruire un rapporto con lui.

Tra le scene immortali del cinema c’è quella dal film Philadelphia. Il soggetto è molto delicato, trattando il tema dell’AIDS. L’avvocato Andrew Beckett viene licenziato. Convinto che si tratti di una scusa, inizia una battaglia legale. Il suo avvocato difensore, Joe Miller, riesce a rendere giustizia al povero Andrew che, proprio il giorno nel quale il giudice proclama la sua vittoria, muore per l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche. Nel video, Andrew Beckett (l’attore Tom Hanks) ascolta Maria Callas interpretare un’Aria tratta dall’Opera Andrea Chénier di Umberto Giordano e traduce i versi al suo avvocato difensore Joe Miller (Denzel Washington), avendogli prima chiesto: “Ti piace l’Opera?

Pasolini amava la musica classica e in particolare Bach, tanto da inserire riferimenti continui alle opere del compositore. Nel film Accattone è proprio la musica di Bach che innalza il protagonista, povero Cristo, pappone di borgata, dalla miseria in cui lui e la sua gente si trovano confinati; è la musica che lo mostra al mondo, col suo coraggio e la sua viltà, innalzandolo al cielo in punto di morte, dalla polvere in cui ha sempre vissuto. Il Coro Finale della Passione secondo Matteo BWV 244 accompagna l’epilogo. Si tratta della trasposizione musicale dei capitoli 26 e 27 del Vangelo secondo Matteo. Tra le varie Arie, la più bella e commovente è la n.39 ‘Erbarme dich, mein Gott‘ (Abbi pietà di me, Signore). La canta Pietro che ricordando le parole dette da Gesù: “Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”, piange amaramente sulla propria infedeltà e chiede pietà a Dio. La musica fornisce una chiave di lettura al finale del film: una sorta di apoteosi del miserabile. Accattone si salva, non già acquistando la salvezza eterna, ma piuttosto riacquistando una giusta, umana dignità che fino a quel momento la vita gli aveva negato. Le note di Bach sottolineano tutto ciò, dando spessore e colore alle immagini e alle emozioni.

Nel film Pretty Woman, l’opera che i protagonisti Edward e Vivian vanno a vedere a teatro è La Traviata di Giuseppe Verdi. Racconta la storia di una prostituta (Violetta) che si innamora di un uomo ricco (Alfredo), riflettendo e riprendendo, così, la trama dello stesso film. Vivian e Violetta sono entrambe cortigiane, liberate da un’unica speranza: l’amore vero. Una scena fondamentale del film è proprio quando i protagonisti assistono alla messa in scena dell’Opera a Teatro… l’emozione di Julia Roberts sull’Aria “Amami Alfredo” e sul grido urlato al cielo, di disperata felicità di Violetta, hanno fatto sognare e piangere milioni di romantici (compreso il sottoscritto).

Prima del film Shine non avevo mai ascoltato Rachmaninoff né, tantomeno, il suo Concerto per Pianoforte e Orchestra n. 3 in Re minore op. 30. Nel film la composizione viene quasi mitizzata tanto da essere definita con il nome secco, impetuoso e inquietante di Rach 3, dicitura che non è mai stata diffusa in Europa e che è divenuta popolare solo dopo il successo del film. La storia narrata è uno strano duello a distanza: il pianista Helfgott contro il compositore Rachmaninoff e il suo concerto. Un brano che tutti i maestri di pianoforte gli sconsigliano e che è, però, quello che lui decide di presentare come saggio di perfezionamento. Rach 3 è in effetti musicalmente il concerto più difficile del mondo, tremendamente veloce, con più note per secondo di qualunque altro brano. Rach 3 è anche la causa di guai seri per David Helfgott che, dopo averlo eseguito, ha un crollo psicofisico che lo terrà nella “nebbia” per più di dieci anni in ospedali psichiatrici. Ma è sempre grazie alla musica e al Rach 3 che riuscirà a riemergere, per poi trovare una vita normale. Sono davvero emozionanti le parole che il professore riserverà al protagonista del film, nel momento che quest’ultimo gli esprimerà la sua volontà ferma di volersi cimentare nell’esecuzione del brano: “Rachmaninoff, ma sei sicuro? Nessuno è così pazzo da affrontare il Rach 3. Ma se vuoi farlo devi pensare a due distinte melodie che lottano per la supremazia. Le mani, come due giganti… ognuna con dieci dita. L’esecuzione è un rischio, niente rete di protezione. Ci si può far male. Devi impararlo a suonare con gli occhi bendati.

Un’altra Aria che si ascolta sempre nei film è “Vesti la giubba”, conosciuta soprattutto come “Ridi, pagliaccio” o “Recitar“. È tratta dall’Opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Nel film Gli Intoccabili di Brian De Palma, c’è una famosa sequenza in cui Al Capone, interpretato da un Robert De Niro sopra le righe e d’antologia, si commuove mentre assiste all’Aria mentre i suoi sicari hanno fatto fuori uno dei detective che indagano su i suoi traffici.

L’incarico di comporre una messa funebre era certamente un fatto ordinario per un compositore del ‘700. Se però il compositore si chiama Mozart, se il committente (disposto peraltro a pagare senza discussioni una cifra non da poco) rimane segreto, servendosi di un messaggero, se poco dopo la commessa sopravviene una malattia, se la malattia si rivela mortale, se pertanto questa diventa l’ultima opera del compositore e se addirittura egli non riesce a terminarla prima di una morte le cui cause la medicina non è in grado di chiarire, allora una commissione del genere si carica di significati sinistri che possono scatenare, e di fatto hanno scatenato una proliferazione di leggende che tuttora colorano con la loro luce, o la loro ombra, il Requiem (Messa in Re minore K 626) di Wolfgang Amadeus Mozart. Tra le varie ipotesi fatte nel corso del tempo, per spiegare la morte del musicista, quella dell’avvelenamento a opera di colleghi invidiosi (primo fra tutti Salieri), è la versione apparsa nel celebre film Amadeus, del regista americano Milos Forman. Qualunque sia la verità sulla sua morte, la certezza è che il giovane e malato Mozart, ormai a pochi passi dalla fine, ci regala accenti di profonda, inconfondibile e moderna intimità. Due dei momenti che più mi emozionano: il Confutatis e il Lacrimosa.

Non posso che concludere con uno dei film più belli su Ludwig van Beethoven: Amata Immortale, diretto da Bernard Rose. La scena che ti propongo è dominata musicalmente dall’ultimo movimento della Sinfonia n.9. Si basa sul testo dell’ode An die Freude (Inno alla gioia) di Friedrich Schiller, tema che, peraltro, è stato adottato, nel 1972, come Inno europeo. Le immagini sintetizzano perfettamente l’anima del compositore. Il vecchio Beethoven, ormai quasi completamente sordo, prima di dirigere la sua ultima Sinfonia, ripercorre con la mente i ricordi e i molti traumi sofferti nell’infanzia. Sensibile alla nevrosi materna, ma ancor più sopraffatto dalla figura paterna, era terrorizzato dalle percosse, dal pericolo di essere colto in errore o svegliato improvvisamente in piena notte. Beethoven manifestò, per tutta la vita, insieme a un carattere scontroso e stravolto, un grande bisogno d’amore e l’ansia pungente di costruirsi un nido di affetti domestici. Davanti a questo vissuto si comprende anche la gigantesca lotta dell’eroe contro le oscure potenze, avverse e irrazionali, che opprimono l’uomo. I tumulti, il dolore, gli incubi l’abbattimento, la rivolta, gli stessi scuotimenti tellurici dello stile e quant’altro sconvolge il tessuto delle sue sinfonie, possono essere visti come i segni della lotta di Beethoven contro i demoni della sua infanzia. A questi si aggiungeva il suo male interiore, quella sordità che si era fatta insopportabile e che minava la sua vita. Il suo amico Maelzel (lo stesso che inventò il metronomo) realizzò apposta per lui un enorme cornetto acustico. Si fece costruire anche da altri, strumenti per ascoltare il suono ‘fisicamente’. Ma lo strumento più stupefacente che usava era una bacchetta di metallo, di ottone, che soleva tenere tra i denti e che metteva a contatto con la tavola armonica del pianoforte: riusciva così a percepire fisicamente le vibrazioni del suono. In questa Sinfonia c’è tutto il suo dolore e tormento ma al tempo stesso il messaggio di speranza e fratellanza lanciato proprio nel finale con l’Inno alla Gioia. Sulle parole «O Freunde, nicht diese Töne!» (O amici, non questi suoni!), che precede l’esposizione cantata del tema della Gioia, Beethoven esplicita il significato simbolico e musicale del rifiuto dei movimenti precedenti, quasi una catarsi rispetto ai ricordi di lotte e tragedie, e scrive: “No, questo caos ci ricorda la nostra disperazione. Oggi è un giorno di celebrazione, celebriamolo con canti e danze“.

La musica classica non è sempre roba difficile. È versatile, capace di rubare la scena praticamente in qualsiasi contesto, sa catturare l’attenzione e può emozionare come poche altre cose in musica. L’accostamento con le immagini, come accade nei film che ti ho raccontato qui sopra, è probabilmente il miglior modo per convincere gli scettici del valore inestimabile che le note classico ci hanno donato. E con questo viaggio spero, se non proprio di averti convinto, almeno di averti dato gli spunti opportuni per approfondire ulteriormente. Vista l’enorme offerta del genere, il pezzo capace di farti innamorare esiste di sicuro.

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