Il Giovane Favoloso: il film che rende giustizia a Giacomo Leopardi

La domanda è frequente e con il tempo ha assunto le sembianze di una convinzione vera e propria: Leopardi è davvero il pessimista per eccellenza?

No. Affatto.

Mario Martone, nel suo film Il Giovane Favoloso del 2014, ha fatto davvero di tutto per dimostrare che la poetica del romantico recanatese è sempre stata intrisa di speranza, d’una speranza a tratti anche ingiustificata verso quella vita che non tarderà a colpirlo, sguainando la spada contro la sua rassegnazione.

La regia è, insieme all’interpretazione di Elio Germano, raffinata ed evocativa: l’urlo sordo dell’immaginazione che scuote e accompagna il protagonista; la recitazione dolce e vera de L’infinito; lo scontro sognante con Madre Natura che si sgretola di fronte all’impotenza dell’uomo, per il quale però non può fare altro che esistere incarnando perfettamente il concetto della condizione umana; le scene ambientate a Napoli, illuminate d’allegria. Il riscatto morale dovuto a una città finalmente solare, capace di far tornare il sorriso al deluso Leopardi – colpito, la speranza messa alle strette – con la sola vista del mare, con gelati, aroma di pasticceria e simpatici convivi improvvisati con i napoletani della strada.

Il giovane favoloso - Fanciullezza perduta

Una città che però, perché come tutte le città abitata da uomini, non tarda a ferirlo, nuovamente, con insopportabili accuse di malinconia, con la morte del colera. E allora, di nuovo Leopardi che non ride più, senza neanche la voglia di andare ad esplorare la città, ancora una volta a scrivere con lo scrittoio davanti alla finestra dove, con gli occhi che bruciano, esclama “sempre caro mi fu …”, consapevole dell’eterno ripetersi di una condizione che non può mutare. La stessa di quella ginestra che sul dorso scosceso del Vesuvio, innocente, un giorno dovrà calare lo stelo, e soccombere.

Una riflessione profonda, dunque, sulla genesi di un pessimismo che ha lottato alacremente prima di acutizzarsi in cosmico. Potremmo dire, alla fine, che non è stato compreso, come d’altronde accade spesso ai più grandi. Non è stata compresa la sua attitudine verso la vita, troppe volte giudicata solo per l’apparenza di una malattia che aveva la sfortuna di urlare in faccia a tutti, incapace di passare inosservata.

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