Work it Harder, Make it Better: come ci hanno conquistato i Daft Punk

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Leggendo le biografie di cantanti o gruppi famosi, a volte hai l’impressione che siano entrati nel mondo della musica come fosse una dancefloor enorme: in punta di piedi, timidamente, guardandosi intorno e cercando di imparare i movimenti imitando gli altri, mimetizzandosi tra la folla. Finché qualcosa scatta, sblocca un meccanismo interno e – SBAM – accende la miccia che avevano dentro: e così quel ragazzino timido inizia a trovare da solo il suo stile, le sue regole, le sue mosse e inventa qualcosa di nuovo; e tutto di lui esprime il messaggio “io sono questo”.

Così è stato per i Daft Punk.

Quando nel ’93 Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo si propongono come gruppo rock (i Darlin’) insieme a Laurent Brancowitz, anche il prestigioso settimanale Melody Maker si interessa a loro. Peccato che sia per tracciare un’enorme riga rossa sopra, definendo il loro stile “Daft punky thrash” (Spazzatura punk senza senso).

Daft_Punk_1997
I Daft Punk in una foto dell 1997. A sinistra Guy-Manuel de Homem-Christo, a destra Thomas Bangalter

SBAM.

Il gruppo si scioglie. Laurent inizia a suonare nei Phoenix. Bangalter e De Homen-Christo accantonano rock e pop, formano un duo (che prende il nome da quella recensione, come a dire: vedremo), cambiano genere e decidono di sperimentare con un tipo di musica più recente, che arriva dall’America. È il 1993.

Scrive Marco Mancassola in Last Love Parade: “A Parigi [negli anni ’90] la tradizione della musica elettronica è già consolidata: già nel ’79 il concerto del compositore elettronico Jean Michael Jarre in Place de la Concorde raccoglieva un milione di spettatori.

Nel 1995 i Daft Punk tornano in studio per registrare Da Funk. Pubblicato nello stesso anno, il singolo vende 30.000 copie in tutto il mondo e viene ripreso da vari artisti tra cui Kris Needs e i Chemical Brothers.

E qui devo fermarmi per aprire una parentesi.

Il 14 luglio 2017 Macron e Trump erano insieme sugli Champs Élysées per assistere alla parata militare e in quell’occasione la banda ha scelto di suonare proprio un medley dei Daft Punk. Ne avevamo parlato qui.

La notizia mi ha costretto a farmi qualche domanda.

Ho avuto la fortuna di avere come coinquilino Kentin, parigino amante della techno, perciò ho chiesto a lui: perché sono arrivati al punto di rappresentare la musica francese? Cosa hanno di particolare? Cosa hanno inventato? Risposta: Niente. Ma ciò che hanno fatto l’hanno fatto bene, forse meglio di altri, nel momento in cui serviva.

L’Electronic Dance Music (spesso menzionata come EDM) è un gamma di generi in cui i francesi non brillavano particolarmente quando il duo è emerso. Le città-punti di riferimento dove si era sviluppato il genere erano New York, Chicago, Detroit. In Europa il ruolo di autorità apparteneva a Dusseldorf, Colonia, Berlino.

Il French touch, cioè la declinazione francese della musica house che andava definendosi in quegli anni, era solo un progetto abbozzato (grazie ai contributi di Cerrone, Sarah Brightman, Space, Sheila B. Devotion). Quando Homework viene pubblicato, invece, getta le ultime fondamenta dell’house francese.

I Daft Punk, gli Stardust e i Cassius finalmente definiscono l’identità nazionale del genere e diventano i primi artisti noti in tutto il mondo. Seguiranno nomi come Bob Sinclair e David Guetta, ma negli anni ’90 loro erano lì, al momento giusto, col prodotto giusto.

Homework (1997) presenta un repertorio techno, acid house e funky. È seguito da Discovery (2001), dai brani più melodici. Se Human After All (2005) ha ricevuto giudizi controversi per l’ostentata ripetitività dei brani, con Random Access Memories (2013) i Daft Punk recuperano vari stili musicali diffusi negli anni Settanta come funk, disco music, pop progressivo e soul.

Esempio di ambizione, quella bella. Quella che ti spinge a cercare ancora, anziché semplicemente ripetere uno schema che funziona. Insoddisfazione che ti obbliga a sperimentare, perché sai che se vai ancora un po’ avanti trovi dell’altro.

A proposito di Random Access MemoriesPharrel Williams, che ha collaborato alla realizzazione (“Like the legend of the phoenix / All ends with beginnings”… già sapete) ha detto: “Il miglior modo per descriverlo è 2001 di Kubrick. Ti portano indietro nel tempo e poi nel futuro.

Musica elettronica, ma senza computer e con un orchestra.

“La musica di oggi ha perso la sua poesia e magia perché ha le sue radici nella vita ipertecnologica di tutti i giorni. Poi ascolti musica classica, che sembra arrivare da un altro posto, senza tempo. Volevamo dichiarare che questo tipo di musica non appartiene solo al passato.”

Dall’intervista sul Guardian del 2013

Loro sono cosi, sempre un passo avanti agli altri, perchè vogliono che il lavoro sia bello. Senza tempo e soprattutto protagonista.

Non sono esattamente un gruppo tipico. Anzitutto, non si fanno fotografare dal 1996. Se in una prima fase indossavano maschere di diverso tipo, dal 1999 hanno iniziato a presentarsi con l’aspetto di robot.

“I robot sono parte del racconto e non è così interessante vedere cosa c’è dietro. Quando vedi C-3PO e Darth Vader e poi gli attori che ci stanno dietro quasi non riesci a trovarci un collegamento. Uccide l’incantesimo. Per me i robot sono lo stesso. Sono più interessanti [di me e Guy-man] di sicuro.”

In secondo luogo, hanno evitato il più possibile live e interviste.

“Non siamo sensibili a nessun tipo di pressione, la nostra libertà e creatività è ciò che abbiamo di più prezioso.”

Nonostante l’enorme ricavo che gli artisti ottengono dalle performance live, il duo evita live show o tour per seguire meglio i loro lavori.

Indimenticabile una delle loro rare esibizioni, che avvenne in occasione del Coachella (festival americano di musica alternative ed elettronica) nel 2006, dopo anni di richieste: si esibirono, ma presentandosi al pubblico all’interno di una spettacolare piramide ricoperta da schermi pensata da loro.

Per citare l’articolo di Rolling Stone Italia:

Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter salgono su una piramide illuminata da milioni di luci led e iniziano a mixare i propri pezzi con una potenza inaudita. Nulla sarà più come prima, i due ragazzi francesi già celebrati da ogni parte del mondo verranno da qui in poi venerati come delle divinità.

Racconta il documentario Daft Punk Unchained che, nonostante siano passati 11 anni, è ancora argomento di conversazione ogni estate.

Hanno inoltre rifiutato una collaborazione richiesta dallo stesso David Bowie, che se volete era proprio il modello di artista-protagonista da cui volevano prendere distanze. “La nostra carriera è stata definita più da ciò che non abbiamo fatto, che da cose che abbiamo fatto”, ha dichiarato Thomas a The Guardian. “Molti ragazzi ci chiedono ‘Cosa possiamo fare per essere dove siete voi? Faremo tutto!’. Ma noi non abbiamo fatto niente che non volessimo”.

Riferendosi alla loro riservatezza, Guy-Man dichiara: “Non desideriamo particolarmente essere conosciuti. Se anche non abbiamo tutto va bene. Devi imparare ad accontentarti. L’arte è l’unica priorità.

Hanno voluto rendere protagonista la loro musica anziché loro stessi. Amano così tanto quello che fanno da lasciare ai propri brani il palcoscenico e rimanendo in disparte.

Infine, non si sono fermati a un tipo di musica soltanto ma continuano a sperimentare, a lasciarsi guidare dalla loro curiosità e dal loro istinto più che dalle leggi del mercato.

Nel 2003 è uscito Interstella 555, film muto interamente basato sull’album Discovery. Il co-regista e ideatore del concept visivo di personaggi e ambientazioni è Leiji Matsumoto, autore di Capitan Harlock. Ancora una volta, volevano andare oltre, indagare nuovi mezzi di espressione, o reinventarli.

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I personaggi di Interstella 555, film muto interamente basato sull’album Discovery dei Daft Punk

Se da una parte questa libertà deriva da un’indiscutibile posizione privilegiata (entrambi i ragazzi agli inizi arrivavano da famiglie abbienti e potevano permettersi di non cercare disperatamente il consenso del pubblico per mantenersi), dall’altra rivela un amore per la musica così sincero da essere quasi disinteressato.

Leggendo le interviste o guardando il documentario su di loro si ha l’impressione che lavorino per produrre qualcosa che loro per primi vorrebbero ascoltare in giro, che sperimentino per il gusto di trovare un tipo di musica che a loro piacerebbe; e che da questo derivi la loro sicurezza. Come a dire: “Ecco, questo a noi piace, se piace anche a voi meglio”.

Quando più di vent’anni fa scelsero di seguire quello che davvero li interessava, avevano piena fiducia che la passione con cui lavoravano avrebbe prodotto risultati migliori di molti altri.

Hanno creduto in ciò che gli piaceva, si sono presi l’impegno e la responsabilità di investire in un genere musicale non ancora ben definito e portarlo oltre.

E ci hanno conquistato così. Working it harder, making it better.

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(Articolo pubblicato originariamente su Parte Del Discorso e gentilmente concesso ad Auralcrave per la ripubblicazione)

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