Midnight Vultures, l’album che spiazzò i fan di Beck

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Da sempre Beck ha interpretato la propria carriera all’insegna dell’esplorazione di stili e generi che potessero essere scomposti e poi riadattati ai suoi bisogni, in una continua evoluzione che, soprattutto negli anni ’90, lo ha portato a essere uno dei più interessanti artisti in circolazione. Beck è un’anomalia sonora nel panorama pop e le etichette che hanno provato a incasellare la sua musica sono molte, ma tra le tante quella del post-folk sembra essere la più calzante: il folk di matrice dylaniana è stata sempre la base delle sue composizioni, a cui ha aggiunto di volta in volta nuovi scenari sonori come l’hip hop, l’elettronica, il punk, il noise e qualsiasi altra cosa gli passasse per la testa.

L’attitudine camaleontica di Beck, sempre pronto a mescolare generi e ad anticipare tendenze, si rinnova con Midnite Vultures, album del 1999, che viene dopo un trittico di lavori che lo hanno consacrato tra i più innovativi artisti degli anni ’90. Con il debutto di Mellow Gold aveva spiazzato l’ascoltatore con una la sua esplosiva miscela di suoni e un singolo indolente e innovativo (nella musica e nel linguaggio) come Loser. La strampalata canzone sembra fatta per tutti coloro che non si rivedono nella We Are The Champions dei Queen e l’orgogliosa rivendicazione nerd lo eleva subito ad artista simbolo della depressa Generazione X.

Con Odelay (da tutti ritenuto il suo capolavoro) lo scenario musicale, fatto di campionamenti e samples, si arricchisce di nuovi innesti elettronici e low-fi, mentre le sfumature bossanova fanno capolino all’orizzonte: diventeranno in seguito la colonna portante di Mutations, album in cui gli inserti di blues e psichedelia tracciano un contorno ancora più definito della natura mutante (appunto) dell’autore. Midnite Vultures aggiunge un ulteriore tassello alla spericolata voglia di stupire di Beck, che stavolta aggiunge alla sua coloratissima tavolozza anche il soul e il funk, tentando una sfrenata rilettura a base di tinte acide del Minneapolis Sound di Prince: d’altra parte la cosa non sembrava stonare con il personaggio, che dopo esser stato dipinto dai media fin da i suoi esordi come il nuovo “qualcosa” della scena musicale (prima come il “nuovo Dylan”, poi come il “nuovo Cobain”) era arrivato anche a essere definito come il “nuovo Prince”.

Di Prince e del suo vortice musicale viene sostanzialmente ricostruita la struttura, con l’ingresso di stratificazioni sonore in cui Beck insinua e condensa più strumenti possibili, farcendo ogni pezzo della propria vena sarcastica e surreale, che non risparmia critiche al modo di vivere occidentale, ormai schiavo dell’ipocrisia e incapace di stringere rapporti che vadano oltre la superficialità.

L’eversione musicale di Beck raggiunge con Midnite Vultures picchi estremi, in cui Sexx Laws, con le sue chitarrine country dentro un contesto funk, è solo l’antipasto più celebre: Nicotine & Gravy e Broken Train sono un caleidoscopio psichedelico, mentre Hollywood Freaks (l’unico pezzo veramente debole) e Get Real Paid sembrano vomitate entrambe dal Black Album, come anche Mixed Bizness, Pressure Zone e Milk & Honey, che introducono a una maggiore atmosfera dance grazie a tutti quegli spunti elettronici.

La dolcezza sognante di Beautiful Way è forse l’unico momento di calma nel disco, che ha in Peaches & Cream uno dei brani migliori: il riuscito tentativo di trapiantare in una ballad folk elementi funk fa emergere ancora di più la grande capacità di fusione tra generi di Beck, che conclude Midnite Vultures con Debra, la canzone che più delle altre è un evidente tentativo (assai ben riuscito) di rendere omaggio a Prince. La ballad soul “strappamutande” tipica del folletto di Minneapolis, piena zeppa di urla ammiccanti e in cui la temperatura sale esponenzialmente, trova in Beck un più che degno esecutore, che non fa affatto rimpiangere l’originale, ma che anzi sembra assolutamente predisposto per il genere.

La critica e i fans ancora oggi sono spaccati nel giudizio sull’album: per alcuni è stato un passo falso nella carriera di Beck, che non doveva tentare una così plateale carta per sfondare su MTV e diventare commerciale (lui, il portatore sano della sconfitta e cantore di Loser); mentre altri invece hanno visto in questo disco una naturale evoluzione del suo stile e un tentativo di andare oltre Odelay, senza per altro rinnegarlo.

In realtà Midnite Vultures è stato probabilmente l’ultimo album in cui Beck ha calato la carta della sperimentazione: Sea Change, che lo ha seguito, è stato una riproposizione più seriosa e con accenni maggiormente psichedelici di Mutations, mentre i vari Guero, The Information, Modern Guilt (il penoso Modern Guilt…) e Morning Phase hanno tutti più o meno declinato la stessa stanca canzone con solo qualche accenno di antica grandezza. Per questo Midnite Vultures va rivalutato da parte di chi non ne ha capito all’epoca il valore e lo ha crocifisso sull’altare del “troppo divertente e danzereccio” (evidente peccato mortale per un disco sostanzialmente funk), non accettando che il biondo collezionista compulsivo di samples non sarebbe più tornato e che l’eccessivo surrealismo del disco non era per forza da considerarsi come un difetto, ma in realtà come un valore aggiunto.

Se si va oltre la superficie laccata dell’album e si scava negli arrangiamenti, nelle melodie e nella complessiva scelta dei vari brani, non si può non comprendere il valore di Midnite Vultures, con cui Beck saluta gli anni ’90, il suo decennio, quello che lo ha visto tutt’altro che perdente. Per quello c’è sempre tempo, ma nell’attesa balliamoci su.

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