Nell’immaginario collettivo si è portati a considerare il modo di pensare classico ed i contenuti della dottrina cristiana in totale contrapposizione, trascurandone invece i punti di evoluzione comuni. La presente trattazione cercherà di mettere in evidenza la continuità di tradizione che emerge dall’analisi dei testi classici e di quelli elaborati dalla dottrina cristiana, con particolare riferimento alle riflessioni della cosiddetta Scuola Alessandrina, a partire da Filone fino ad Origene.
Nel II secolo d.C. si verificò l’incontro tra gli Ebrei di lingua greca di Alessandria d’Egitto con la filosofia impropriamente definita “pagana”, soprattutto legata alle riflessioni dello Stoicismo e del Platonismo. Un contributo di fondamentale importanza era stato dato, qualche secolo prima, dalla traduzione della Bibbia dall’Ebraico in lingua greca che, secondo una versione dei fatti alquanto leggendaria, era stata curata da un gruppo di 70 o di 72 saggi convocati ad Alessandria dal re Tolomeo II Filadelfo, su proposta di Demetrio Falereo, allo scopo di rendere ancora più prestigiosa la biblioteca della cosmopolita metropoli. Inoltre, vi era l’esigenza delle comunità ebraiche ellenizzate di comprendere meglio i testi biblici, non più facilmente accessibili in lingua originale. Sempre in ambiente alessandrino furono redatti in greco alcuni libri che saranno inseriti nel canone cristiano, non presenti nella traduzione dei Settanta e non riconosciuti “sacri” nel canone ebraico-masoretico.
In linea generale, nei contenuti biblici, si può dire che la trasposizione dalla lingua ebraica a quella greca provoca cambiamenti interpretativi di assoluto rilievo. Ad esempio termini come “logos” (ragione, discorso) o “dianoia” (mente, intelligenza) fanno diventare molto più astratte ed intellettuali le intenzioni degli originari autori dei testi. L’inserimento della parola “psichè” (anima), per riferirsi al soffio divino che porta vita, rievoca senza dubbio schemi cari allo Stoicismo e al Platonismo. Non a caso Clemente Alessandrino, uno dei più insigni esponenti della precitata Scuola, in maniera abbastanza forzata, riteneva che lo stesso Platone avesse tratto spunti per la sua dottrina da alcuni testi biblici tradotti in maniera frammentaria ed episodica in greco, già nell’epoca antecedente alla dominazione di Alessandro Magno.
Il Dio della Bibbia, il cui nome non viene pronunciato dagli Ebrei in segno di rispetto ed espresso con il tetragramma JHWH, considerato volontà libera che vive fuori dalla storia e crea dal nulla ogni cosa, viene ad incontrarsi con gli archetipi plasmati dalle menti più brillanti della filosofia greca. Egli appare molto diverso dal dio-demiurgo platonico, ordinatore della cose, sulla base della materia pre-esistente e di un eterno sistema “di idee”; più conciliabile, seppure con profonde differenze, appare con la divinità “primo motore immobile” di Aristotele (pensiero di pensiero, pensiero che pensa sé stesso), comunque estraneo al mondo e causa primigenia del divenire delle cose; ed è anche diverso dal “Logos” degli Stoici, quale principio immanente dell’energia del caos, seppure il principio era stato adattato dall’autore del quarto vangelo, attribuito all’evangelista Giovanni in maniera pseudo-epigrafica, per dare una spiegazione filosofica all’incarnazione di Gesù Cristo, seconda persona della Trinità.
Il primo pensatore che cercò di integrare gli schemi filosofici classici con l’interpretazione dei testi biblici fu Filone di Alessandria, vissuto nei primi decenni del primo secolo d.C. La sua opera fu orientata ad una certa razionalizzazione della teologia rivelata, nonché all’incorporazione di determinate argomentazioni religiose e soteriologiche nell’alveo del pensiero filosofico. La sua lettura “allegorica” dei contenuti biblici è, per certi versi, rivoluzionaria e moderna, permettendo di superare il significato prettamente letterale dei testi con la possibilità di ricercare significati spirituali e didascalici più profondi. Filone arriva ad una visione della realtà strutturata su tre livelli: Dio, trascendente ed inafferrabile per la mente umana; le “Potenze” divine, cioè le sue emanazioni, tra cui primeggia il “Logos”, il primogenito, lo strumento mediante il quale Dio crea e plasma il mondo; la “materia” che spesso Filone definisce “la fonte di ogni male”, rivelando una concezione neoplatonica “estremizzata”, ripresa poi da alcuni filoni gnostici che, non solo si diffonderanno nei primi secoli dell’era cristiana, ma arriveranno fino al Tardo Medioevo, come nel caso dei Catari.
In maniera analoga, Filone individua tre livelli di vita etica per gli uomini che, attraverso un percorso di consapevolezza spirituale, possono raggiungere la perfezione divina o, comunque, devono tendere ad avvicinarsi ad essa. Tale cammino iniziatico richiama in modo sorprendente il Simposio di Platone, concludendosi anch’esso con l’estasi. Quest’ultimo stato rappresenterebbe la condizione di coloro in grado di liberare il proprio intelletto, affrancandosi dalla schiavitù delle passioni. Filone, ovviamente, legge questa condizione in chiave eminentemente religiosa, riservando il compimento della strada della conoscenza a saggi, sacerdoti e profeti, battendo ancora una volta terreni iniziatici cari alla sapienza gnostica. Applicando una metodologia classificatoria di tipo platonico, Filone arriva a stilare perfino una gerarchia delle figure bibliche dell’Antico Testamento, al cui vertice ci sarebbe Mosè, l’unico ad aver contemplato il Signore “faccia a faccia”. Mosè costituirebbe l’apice dell’estasi profetica, mentre di caratura più bassa dovrebbero essere considerate, secondo Filone, altri tre tipi di estasi: quella ottenuta con la “calma dell’intelligenza”; la seconda con un “profondo senso di sbalordimento”; la terza con uno “spiccato senso di furore” o di “malinconia”. Tutti questi stati, comunque, sarebbero guidati da Dio e capaci di distaccare l’anima dall’oppressione del corpo materiale. All’origine di tutto, per Filone, vi sarebbe l’immagine biblica della “somiglianza” dell’essere umano con Dio, così come voluto nella creazione, archetipo che si può riscontrare nella “scintilla divina” presente in ogni uomo della filosofia platonica.
Come è noto, la prima embrionale elaborazione di una primitiva forma di dottrina cristiana è contenuta nel Vangelo di Giovanni, in particolare nel complesso ed affascinante prologo. Gli studiosi ritengono che il quarto vangelo sia stato composto verso la fine del I secolo nell’ambito di una comunità di “Ebrei Cristiani”, espulsi definitivamente dalle altre sinagoghe. I primi proseliti della dottrina cristiana erano infatti considerati come eretici dell’Ebraismo e non come fautori di un movimento autonomo. Gli stessi scarni riferimenti degli autori latini rimarcano questa credenza. Sarà Paolo di Tarso la figura capace di rendere il “Cristianesimo” una religione universale e separata da quella ebraica, delineandone le differenze teleologiche e tracciandone gli stessi paradossi che saranno cristallizzati nei concili ecumenici dei secoli successivi. Il “Vangelo di Giovanni” è concepito, dunque, come uno scritto per un gruppo di iniziati, nel cui testo si rinvengono espressioni che, pur provenendo dalla tradizione ebraica, appaiono ampiamente ellenizzate.
In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Logos era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
Il Logos di cui parla il Vangelo, di chiara ispirazione stoica, è la stessa parola di Cristo, anzi il Cristo stesso, presente fin dall’inizio dei tempi e destinata a rivelarsi all’umanità in un preciso momento della storia. Il Logos-Cristo è, pertanto, eterno nella visione “giovannea”, cancellando definitivamente qualsiasi legame con il Messianismo di tipo ebraico che aspettava un potente condottiero/profeta, mandato da Dio, ma pur sempre una figura umana. Il Redentore, in chiave salvifica, è visto come l’essenza stessa della creazione, venuto a portare un messaggio di “luce” in un mondo di “tenebre”, con espressioni molto in voga presso comunità che si discostavano dalla religiosità ufficiale del sacerdozio ebraico, come quella degli Esseni, a cui lo stesso Maestro sembra esser stato vicino. E la figura del Logos diventa il tema più importante della teologia cristiana dei primi secoli, fino ad arrivare al Concilio di Nicea del 325 che proclamerà Cristo, Figlio di Dio, consustanziale al Padre, da lui generato ma non creato, per mezzo del quale tutte le cose furono create, quelle nel cielo e quelle sulla terra. In quest’ottica, il Logos, archetipo della filosofia greca “si personificava” nella seconda Persona della Trinità, un rompicapo teologico mai risolto definitivamente dalla dottrina cristiana e relegato tra i “grandi dogmi” autoreferenziali,
Tra la fine del I secolo e l’inizio del secondo, nasce l’esigenza per i seguaci del Cristianesimo di presentarsi come il popolo eletto da Dio, ponendosi perfino come nuovo modello sociale e politico che, in età Medievale, troverà la sua massima espressione, supplendo al vuoto delle istituzioni del decaduto impero romano e mediando anche con le consuetudini delle popolazioni “barbare”. In questo periodo si impone la necessità, nei “Padri” apologeti, di combattere le ideologie gnostiche diversamente interpretate da alcune comunità cristiane. Per Gnosticismo, in linea generale, si intende quel modo di pensare e di concepire la realtà che attribuisce eccezionale importanza alla conoscenza personale (gnosis), tramite un percorso per acquisire un più elevato grado di consapevolezza e per ottenere la salvezza dell’anima. Lo Gnosticismo si basa soprattutto su un dualismo metafisico che separa il corpo dall’anima, la materia dallo spirito, il male dal bene, ritenendoli in perenne contrapposizione. In realtà, i movimenti gnostici affondano radici precristiane e pre-bibliche, potendosene intravedere significative anticipazioni nella religione zoroastriana ed in altri movimenti gnoseologici orientali. Lo Gnosticismo si espresse in vari movimenti e sette, con capi carismatici che si ispiravano soprattutto alla filosofia platonica e a quella stoica. Tra i personaggi di spicco, una particolare menzione merita Marcione (85-160 d.C.) che, uscendo dal primo gruppo di chiese cristiane, diede vita ad una severa crociata contro l’Ebraismo, radicalizzando le differenze tra la legge mosaica e quella di Gesù, tra il dio vendicativo e antropomorfo dell’Antico Testamento e quello spirituale, mistico e votato all’amore del Nuovo.
Marcione arriva ad affermare che il Dio descritto nell’Antico Testamento non sarebbe altro che la manifestazione del demiurgo, la divinità malvagia che avrebbe creato la materia ed imprigionato gli esseri umani nei corpi fisici, mentre il Dio del Nuovo Testamento sarebbe la divinità spirituale infinitamente buona che avrebbe offerto il suo unico figlio per liberarci dall’Essere malvagio. Marcione compie anche una scelta tra gli scritti del Nuovo Testamento, accettando come “rivelatori ed autentici” soltanto il Vangelo di Luca e dieci lettere di Paolo, che considerava i testi più lontani dalla visione veterotestamentaria. Le dottrine gnostiche saranno sviluppate anche da alcune sette sataniste o luciferiane, che vedevano nel serpente biblico non un personaggio malefico o demoniaco, ma l’anticipazione del dio buono predicato da Gesù, intenzionato a sottrarre l’uomo dalla schiavitù del perfido Geova.
Nel II secolo Giustino riprese l’opera di Filone, cercando di conciliare la teologia cristiana ancora in formazione e la secolare filosofia greca. Dopo la conversione al Cristianesimo, Giustino cercò di dimostrare una sostanziale continuità tra verità filosofica e verità rivelata nel Cristianesimo. Ispirandosi ai testi neoplatonici, l’esegeta alessandrino affermò che di Dio si può dire solo che è ingenerato, incorruttibile, ineffabile, privo di ogni qualità, grandezza e forma, immutabile, trascendente e superiore per dignità ad ogni realtà. In estrema sintesi, per Giustino non è un giusto esercizio ermeneutico quello di prendere alla lettera tutto ciò che è contenuto nell’Antico Testamento, dove Dio è presentato come un essere antropomorfo che “parla”, “si adira”, “è geloso”, “stermina le nazioni” ed “osserva dall’alto”. Dal platonismo, e più precisamente dal medio-platonismo, Giustino ricava anche il concetto di “Logos”, come secondo livello ontologico, provando a gettare luce sul concetto di “generazione” e “non creazione” che legherebbe il Padre al Figlio e sulla loro relazione con il mondo materiale. Secondo Giustino, il Logos sarebbe “emesso” direttamente da Dio, come appunto un “suo figlio”, pur essendo esistente in Lui fin dall’eternità e rappresentando al tempo stesso sapienza divina e potenza demiurgica della creazione. Il Logos determinerebbe le modalità di concretizzazione del progetto concepito dal Padre prima dei tempi storici. Con grande acume, anticipando di molti secoli quanto sarà affermato solo negli anni Sessanta del secolo scorso in seno al Concilio Vaticano II, Giustino riconobbe perfino che quella cristiana non sia l’unica forma in cui la verità può essere conosciuta dagli uomini. Mentre al giorno d’oggi si attribuisce grande dignità alle altre religioni monoteiste ed al comportamento retto dell’individuo, Giustino affermò che i filosofi antichi, pur non conoscendo le scritture bibliche, potevano accedere alla “verità”, in proporzione alle loro limitate capacità, in quanto possedevano il logos spernmaticòs (la ragione seminale), in grado di comprendere i “semi di verità”. Ciò significherebbe, in chiave neoplatonica, che ogni uomo racchiude in sé una scintilla del Logos divino, ma soltanto alcuni avrebbero le caratteristiche tali per poterne sviluppare appieno le potenzialità. Giustino considera il Cristianesimo, con evidenti argomentazioni apologetiche, il compimento di quanto già approfondito dalla filosofia greca, già in grado di intuire verità parziali. Non fu questa la strada intrapresa da tutti gli apologeti, come ad esempio Tertulliano, autore di lingua latina, che sottolineò, invece, la totale discontinuità tra filosofia classica e Cristianesimo, accentuando le caratteristiche rivoluzionarie e scandalose della nuova religione, su concetti importanti come la morte e la resurrezione, nonché la possibilità di redenzione del corpo e dell’anima. Il pensatore cartaginese, tuttavia, non rinunciò a confrontarsi con il neoplatonismo e con lo stoicismo, di cui non si fece scrupolo a mutuare schemi retorici e concettuali, scagliandosi nel contempo contro l’intellettualismo dei filosofi e contro la “superbia” degli Ebrei che, a suo dire, erano colpevoli per non aver voluto riconoscere il Figlio di Dio.
Un altro esponente di grande spessore della Scuola Alessandrina è stato Origene, forse a torto non annoverato tra i Padri della Chiesa, nonostante la vastissima portata della sua produzione letteraria e della sua cultura enciclopedica. Sul giudizio dei posteri pesò la sua teologia considerata in parte “eretica”, soprattutto per l’ipotesi dell’apocatastasi del diavolo, su cui ci soffermeremo in seguito e di cui ho parlato in maniera trasfigurata e romanzata nella mia trilogia La redenzione di Satana (Apocatastasi-Apostasia-Apocalisse). Secondo la visione di Origene, le Scritture contengono diversi strati di significato, che possono essere interpretati in maniera corretta soltanto dagli studiosi che uniscano profonda conoscenza ad integrità morale. Anche Origene tende ad applicare il metodo “allegorico” inaugurato da Filone: la lettura del racconto biblico diventa un insegnamento di carattere concettuale e morale, ma non bisogna mai perdere di vista lo scopo di innalzare il significato del testo dal suo tenore letterale verso un più raffinato significato spirituale. Con Origene, rispetto a Filone, l’allegoria diventa ancora di più “anagogica”, cioè “capace di innalzare”. Il pensatore alessandrino si propone l’arduo compito di conservare l’intera tradizione, attribuendo valore alla continuità tra Antico e Nuovo Testamento. A differenza dell’intransigente Marcione, l’opera di Origene si orienta a recuperare anche quanto appare del tutto inaccettabile, sotto il profilo logico e morale, nei testi dell’Antico Testamento. Origene distingue tra senso letterale, comprensibile dai “semplici” e senso “spirituale” che si adegua ai “perfetti”, o meglio a “coloro che tendono alla perfezione”. Notiamo come un certa terminologia origeniana (“i perfetti”, ad esempio) sarà adoperata da alcuni gruppi gnostici dell’età medievale, come i già citati Catari. I principi, l’opera più importante di Origene, formano un trattato incentrato sui motivi basilari ontologici che richiamano le strutture di pensiero dei medioplatonici: l’intera realtà del mondo deriva dalla potenza di un principio divino, Dio-padre, immutabile, onnipotente, invisibile, incorporeo, eterno e buono. L’universo è stato creato dal nulla da quell’unico Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento, contrastando le derive gnostiche, secondo cui i protagonisti dell’uno e dell’altro sarebbero due divinità diverse, addirittura contrapposte. Da Dio Padre trarrebbe origine il Logos, il Figlio: il primo è “uno” nella sua semplicità, il secondo rappresenta la “molteplicità” delle idee mediante la quale il mondo viene creato. La posizione del Figlio rispetto al Padre della visione di Origene risente fortemente degli influssi neoplatonici, ponendo il secondo in una posizione gerarchica secondaria rispetto al primo. Per questi motivi, la teologia di Origene sarà tacciata di “subordinazionismo”, cioè di aver ritenuto il Figlio inferiore al Padre e di aver, di fatto, aperto le strade alla diffusione dell’Arianesimo e di credenze di altri gruppi religiosi che ne ribadiscono la diversa natura, sopravvissuti peraltro fino ai nostri giorni, come i Testimoni di Geova.
Per Origene, l’uomo può diventare simile a Dio, tramite un’azione costante e progressiva, acquisendo rispetto all’Onnipotente la perfetta somiglianza per mezzo delle opere. Il processo di ritorno a Dio non riguarderebbe soltanto il singolo individuo, ma dovrebbe abbracciare l’intero cosmo e tenderebbe ad attuarsi con cicli che si realizzano nel tempo. Si tratta della dottrina dell’apocatastasi, da intendersi come “restaurazione” o “reintegrazione” nella purezza originaria del ritorno all’Uno, a Dio, come propugnavano gli Stoici, ma affrancata dal cieco determinismo e dall’esatta ripetizione degli eventi. La teoria dell’apocatastasi è menzionata anche in un passo degli Atti degli Apostoli, dove si dice che, alla fine dei tempi, vi sarebbe una restaurazione finale di tutte le cose in Dio. Origene ne offre un’interpretazione radicale, facendo leva sull’immensa bontà di Dio e rifacendosi anche ad un passo di Paolo nella prima Lettera ai Corinzi, dove scrive che, alla fine dei tempi, Dio sarà tutto in tutti. L’esegeta alessandrino sostiene perfino che il diavolo ed i suoi accoliti potranno ritornare all’Onnipotente, in quanto sue creature ed emanazioni della sua incommensurabile misericordia. Anche l’inferno viene visto come un luogo d’espiazione per i peccati commessi, ma non di durata eterna. L’ipotesi riguardante l’apocatastasi diventò la ragione principale della condanna dell’opera origeniana, in particolare per i temi estremamente delicati del libero arbitrio e della punizione dei colpevoli. La temporaneità della pena infernale non sembrò conciliabile con la spiegazione del male, quale allontanamento deliberato e definitivo da Dio, anche se alcuni teologi, anche in età contemporanea, hanno riproposto la possibilità di una sorta di “restaurazione finale”. Nel 543 d,C, nell’ottica di formalizzare una dogmatica ufficiale con scopi anche politici e di ordine pubblico, Giustiniano fece divulgare il Trattato contro l’empio Origene e le sue abominevoli dottrine, in cui le posizioni espresse negli scritti del teologo venivano estremizzate, mal interpretate ed indicate come blasfeme. Un decennio dopo, nel 553, si riunì un concilio a Costantinopoli che, tra i vari argomenti all’ordine del giorno, condannò fermamente le tesi attribuite ad Origene ed ai suoi seguaci.
L’opera sincretica di cristianesimo e platonismo elaborata da Origene fallì per la volontà politica e per le tensioni sociali dell’epoca, anche se avrebbe potuto costituire una svolta significativa nella contrapposizione con la cultura pagana. L’editto di Milano, emanato dagli imperatori Licinio e Costantino nel 313, rese possibile l’inserimento degli intellettuali cristiani in funzioni istituzionali di primo piano. A quel punto l’alleanza con la Chiesa diventò un utile e strategico strumento di stabilità politica per la classe dirigente dell’ormai decadente impero romano. Con l’editto dell’imperatore Teodosio del 380, il cristianesimo diventò addirittura religione di stato, mentre gli altri culti furono messi ufficialmente al bando, nonostante le antiche tradizioni continuassero ad essere praticate sotto molte forme. Inizia, in tale contesto storico, un processo di “integrazione” e di “disintegrazione” inverso: la Chiesa cominciò a sostituire le usanze e le ricorrenze classiche, adattandole alle esigenze della nuova dottrina. Si tratta di tematiche che ho ampiamente trattato in altri scritti.
Nei secoli successivi i cosiddetti Patres, i Padri della Chiesa, continuarono ad elaborare una teologia sempre più raffinata, adattando gli schemi della filosofia greca alle necessità delle tradizioni ebraica e cristiana. Il Neoplatonismo, privato dei suoi elementi più razionalisti, si confermò la via maestra per accedere ad un tipo di sapienza sincretica. Agli albori dell’età medievale, il più grande interprete dell’incontro tra pensiero ellenico e Cristianesimo fu senza dubbio Agostino d’Ippona, che cerco di ricondurre le riflessioni classiche verso una dimensione caratterizzata dalla fede e da un rapporto intimo dell’anima con Dio. Come i filosofi greci, anche Agostino si chiedeva: Chi siamo? Da dove veniamo? Come provare l’esistenza di Dio?
Con il teologo di Ippona il bisogno di formulare argomentazioni dottrinarie cristiane, basate si sulla fede, ma confortate anche da contenuti logici e razionali, diventò articolato e sistematico. Diversi secoli dopo, Tommaso d’Aquino, erede del pensiero agostiniano, di quello averroista e della filosofia classica, elaborò una versione originale del rapporto tra fede e ragione. Pur riconoscendo, secondo la tradizione cristiana, che la prima conduceva ad una verità superiore rispetto alla seconda, precisò che la ragione non poteva essere in contrasto con la verità. In sintesi, ragione e fede possono proseguire il proprio cammino di conoscenza di pari passo e soltanto quando ragione e filosofia si presentano inadeguate, è il caso di cedere ai dogmi della fede. Con Tommaso vi è una generale rivalutazione della filosofia aristotelica e degli schemi razionalistici dei suoi percorsi logici.