Francesco Guccini, Eskimo: testo e significato del brano

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Quante volte sarà capitato, a Settembre, di pensare alla pesantezza della domenica e ai tempi andati? Magari canticchiando e arpeggiando con la chitarra questa canzone che, come un contenitore resistente all’erosione del tempo, racchiude al suo interno la storia, l’ideologia e la passione di un’intera generazione, traslata poi, con l’ascolto, a tutte le successive: questa è la forza indelebile di Eskimo, pilastro della discografia di Francesco Guccini nato nel 1978 dall’album Amerigo, capace di ritagliarsi un posto in prima fila tra le affezioni dei seguaci del cantautore modenese.

Ma che cos’è l’eskimo? Tecnicamente solo un cappotto il quale, durante gli anni ’60, costava davvero poco (Portavo allora un eskimo innocente / Dettato solo dalla povertà) che, come disse lo stesso Guccini “Non lo presi come divisa, ma come un cappotto che costava poco. Non era politicizzato, non aveva significati ideologici” (Non era la rivolta permanente). Nella realtà del cantautore, però, l’eskimo è la costante che unisce i punti di una storia, quella con la sua prima moglie, Roberta Baccilieri, alla quale aveva già dedicato anni prima Vedi cara (1970), raccontata attraverso i moti rivoluzionari del ’68 (scoppiava finalmente la rivolta), dagli occhi di chi quei movimenti li ricorda con un po’ di fierezza e un po’ di nostalgia.

Il racconto parte distante, ben prima di quegli anni (l’estate finiva più “nature” / vent’anni fa o giù di lì), mostrando fin da subito una certa malinconia per quel modo ingenuo e libero di viver la spensieratezza tipica dei giovani, i quali però non sono esenti dai propri naturali limiti di esperienza (a vent’anni si è stupidi davvero / quante balle si ha in testa a quell’età), eppure ricchi di una forza e una vitalità che, con l’arrivo dell’età adulta, sembrano amaramente affievolirsi (la paghi tutta, e a prezzi d’ inflazione / quella che chiaman la maturità), senza poter dimenticare la goliardia (quell’erba ci cresceva tutt’attorno / per noi crescevan solo i nostri guai) e le prime scoperte capaci di rivoluzionare il proprio piccolo mondo (contro il sistema anch’io mi ribellavo cioè / sognando Dylan e i provos).

Francesco Guccini -Eskimo-

Ma Eskimo è soprattutto una canzone d’amore: la relazione con Roberta e la loro distanza sociale, essendo lei una benestante da paletò, un cappotto alla moda (e mi pesava quel tuo paletò), e lui con quel suo eskimo sempre addosso, simbolo di una classe non abbiente, ma ricco di quella forza intellettuale che si sarebbe poi trasformata nella sua opera di cantautorato (Ma avevo la rivolta fra le dita / dei soldi in tasca niente e tu lo sai). Una differenza tra i due amanti così grande, e non solo a livello sociale (Portavo una coscienza immacolata / che tu tendevi a uccidere però), che lo stesso Guccini si domanda il perché della sua esistenza (Perché mi amavi non l’ho mai capito / così diverso da quei tuoi cliché /perché fra i tanti, bella, che hai colpito / ti sei gettata addosso proprio a me). Senza portar dubbio alcuno sulla sua naturale fine (si ride per non piangere perché / se penso a quella che eri, a quel che ero / che compassione che ho per me e per te), segnata da una passione oramai morente (vederti o non vederti tutta nuda / era un fatto di clima e non di voglia), in un ricordo intriso di un’antica nostalgia che, nonostante le grandi diversità di intenti tra i due (tu giri adesso con le tette al vento / io ci giravo già vent’anni fa), vive di un’immagine sincera, proprio come il ricordo di una giovinezza sì immatura e sbandata, ma pur sempre storia da conservare con la dovuta cura (Eppure a volte non mi spiacerebbe essere quelli di quei tempi là / sarà per aver quindici anni in meno o avere tutto per possibilità).

Forse proprio per questo Guccini scrive Eskimo: per omaggiare e non scordare quell’istante di vita chiamato gioventù, con tutti i propri attimi di irrazionalità, attraverso una dedica (ed io ti canterò questa canzone / uguale a tante che già ti cantai) ed un saluto al sapore di un addio già annunciato (ignorala come hai ignorato le altre / e poi saran le ultime oramai). Un po’ come in un lungo cammino verso un’immagine collettiva di esperienze, una vecchia polaroid la quale riesuma un passato non troppo lontano, fatto di sentimenti, sesso, ideali, illusioni e cose andate, ritrovata nel cassetto in una domenica di Settembre, la quale terminerà (E questa domenica in Settembre / se ne sta lentamente per finire / come le tante via, distrattamente / a cercare di fare o di capire) con la scrittura di questo testo. Una canzone portatrice di un bagno di emozioni in cui tutti, anche chi non ha vissuto gli anni descritti, si possono immergere, tra un arpeggio, una voce che, come sempre, fa quel che può, ed uno sguardo indietro, mirato, più che verso un reclamo politico, su quello che la musica può rappresentare.

Come afferma lo stesso Guccini:

“Le canzoni, che pure si possono fare con grande serietà, sono il fatto di un momento, qualcosa di semplice, etereo e volatile, senza tante trascendenze e velleità.
Insomma, a canzoni non si fan rivoluzioni, servono cose un po’ più robuste; però possono essere delle ottime compagne di strada, ecco, questo sì”.

Questa domenica in Settembre non sarebbe pesata così,
l’ estate finiva più “nature” vent’anni fa o giù di lì…
Con l’ incoscienza dentro al basso ventre e alcuni audaci, in tasca “l’Unità”,
la paghi tutta, e a prezzi d’ inflazione, quella che chiaman la maturità…

Ma tu non sei cambiata di molto anche se adesso è al vento quello che
io per vederlo ci ho impiegato tanto filosofando pure sui perché,
ma tu non sei cambiata di tanto e se cos’è un orgasmo ora lo sai
potrai capire i miei vent’anni allora, i quasi cento adesso capirai…

Portavo allora un eskimo innocente dettato solo dalla povertà,
non era la rivolta permanente: diciamo che non c’ era e tanto fa.
Portavo una coscienza immacolata che tu tendevi a uccidere, però
inutilmente ti ci sei provata con foto di famiglia o paletò…

E quanto son cambiato da allora e l’eskimo che conoscevi tu
lo porta addosso mio fratello ancora e tu lo porteresti e non puoi più,
bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà:
tu giri adesso con le tette al vento, io ci giravo già vent’anni fa!

Ricordi fui con te a Santa Lucia, al portico dei Servi per Natale,
credevo che Bologna fosse mia: ballammo insieme all’anno o a Carnevale.
Lasciammo allora tutti e due un qualcuno che non ne fece un dramma o non lo so,
ma con i miei maglioni ero a disagio e mi pesava quel tuo paletò…

Ma avevo la rivolta fra le dita, dei soldi in tasca niente e tu lo sai
e mi pagavi il cinema stupita e non ti era toccato farlo mai!
Perché mi amavi non l’ ho mai capito così diverso da quei tuoi cliché,
perché fra i tanti, bella, che hai colpito ti sei gettata addosso proprio a me…

Infatti i fiori della prima volta non c’ erano già più nel sessantotto,
scoppiava finalmente la rivolta oppure in qualche modo mi ero rotto,
tu li aspettavi ancora, ma io già urlavo che Dio era morto, a monte, ma però
contro il sistema anch’io mi ribellavo cioè, sognando Dylan e i provos…

E Gianni, ritornato da Londra, a lungo ci parlò dell’ LSD,
tenne una quasi conferenza colta sul suo viaggio di nozze stile freak
e noi non l’ avevamo mai fatto e noi che non l’ avremmo fatto mai,
quell’erba ci cresceva tutt’ attorno, per noi crescevan solo i nostri guai…

Forse ci consolava far l’ amore, ma precari in quel senso si era già
un buco da un amico, un letto a ore su cui passava tutta la città.
L’amore fatto alla “boia d’ un Giuda” e al freddo in quella stanza di altri e spoglia:
vederti o non vederti tutta nuda era un fatto di clima e non di voglia!

E adesso che potremmo anche farlo e adesso che problemi non ne ho,
che nostalgia per quelli contro un muro o dentro a un cine o là dove si può…
E adesso che sappiam quasi tutto e adesso che problemi non ne hai,
per nostalgia, lo rifaremmo in piedi scordando la moquette stile e l’Hi-Fi…

Diciamolo per dire, ma davvero si ride per non piangere perché
se penso a quella che eri, a quel che ero, che compassione che ho per me e per te.
Eppure a volte non mi spiacerebbe essere quelli di quei tempi là,
sarà per aver quindici anni in meno o avere tutto per possibilità…

Perché a vent’anni è tutto ancora intero, perché a vent’anni è tutto chi lo sa,
a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età,
oppure allora si era solo noi non c’ entra o meno quella gioventù:
di discussioni, caroselli, eroi quel ch’è rimasto dimmelo un po’ tu…

E questa domenica in Settembre se ne sta lentamente per finire
come le tante via, distrattamente, a cercare di fare o di capire.
Forse lo stan pensando anche gli amici, gli andati, i rassegnati, i soddisfatti,
giocando a dire che si era più felici, pensando a chi s’ è perso o no a quei party…

Ed io che ho sempre un eskimo addosso uguale a quello che ricorderai,
io, come sempre, faccio quel che posso, domani poi ci penserò se mai
ed io ti canterò questa canzone uguale a tante che già ti cantai:
ignorala come hai ignorato le altre e poi saran le ultime oramai…

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