La Bambina e l’Avvoltoio: la foto che uccise Kevin Carter

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Questo articolo è un estratto della tesi di laurea “Etica del fotogiornalismo nell’oggettività di un’immagine” di Matteo Maretto

Nel corso del tempo il fotogiornalismo ha assunto un significato definitivo nella sua funzione, quello di “raccontare una storia” tramite immagini, un linguaggio universale e visivo, non necessitando di parole per decifrarne il significato, priva di barriere geografiche, culturali, linguistiche e temporali[…] Quando un fotogiornalista decide di rappresentare fatti di cronaca o la miseria umana entra in una spirale che lo può rendere debole dal punto di vista morale. Con certi tipi di fotografie è possibile concentrare l’attenzione delle persone su problemi sociali e spesso si riesce a coinvolgerle. Ha per questo una responsabilità nella collettività generale in ciò che pubblica, nella veridicità imparziale e oggettiva dei fatti e nell’osservazione del proprio codice deontologico, in quanto giornalista visivo […] Questo lavoro vuole dimostrare come ci sia una responsabilità ovvia nella professione fotogiornalistica, ma come anche l’etica (del senso comune) che crea dibattito in ambito di contenuti morali sottoposti alla collettività, debba essere discussa differentemente per coloro che dedicano la propria vita alla documentazione di atti umani e non.

Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini… così ho pensato che forse le mie azioni non sono state poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non fu necessariamente un male.

Kevin Carter

Una vicenda che mise in discussione l’etica fotogiornalistica è quella che colpì Kevin Carter, fotogiornalista sudafricano celebre per i suoi scatti sulla brutalità delle condizioni umane in Africa alla fine degli anni ’90, nei giorni precedenti alla caduta dell’apartheid. Quando nel 1984 cominciò a lavorare in Sudan documentando gli orrori che la guerra civile tra l’ANC (African National Congress), il partito di Mandela, e l’Inkatha Freedom Party, partito a maggioranza Zulu, si rese conto di quanto era controverso il suo lavoro. Membro del Bang Bang Club  – un gruppo di giovani fotografi di guerra (gli altri erano Greg Marinovich, Ken Oosterbroek e Joao Silva) – cominciò a raccontare assieme ai suoi colleghi le esecuzioni e le atrocità di quegli anni, compresa la carestia che imperversava tra le popolazioni africane. Vinse il premio Pulitzer nel 1993 per la miglior fotografia “La bambina e l’avvoltoio” in cui viene raffigurata una piccola bambina malnutrita e rannicchiata su sé stessa con un avvoltoio alle spalle che sembra aspettare il sopraggiungere della morte. Questo è quello che leggiamo al primo impatto da questa immagine che al momento della sua pubblicazione, quando fu liberata tra le coscienze, divenne la goccia che fece traboccare il vaso in un clima in cui si cominciava ad aver interesse per i diritti umanitari e il benessere altrui. Divenne il simbolo della fame nel mondo. Uno schiaffo in faccia che svegliava l’umanità.

Kevin Carter – The Vulture and the Little Girl

Non appena la gente cominciò a parlare, a chiedergli cosa ne fosse stato della bambina immediatamente dopo lo scatto, se fosse sopravvissuta, per quanto ancora si trascinò in quelle condizioni, Carter non seppe dare una versione ufficiale del seguito della vicenda, ma anzi, più il tempo passava e più erano le domande che gli venivano fatte. Secondo i racconti di Carter la bambina si stava dirigendo verso un centro di raccolta che stava dispensando viveri, e in una dichiarazione ammise di aver scacciato l’avvoltoio con un calcio non appena fatta la fotografia. Le critiche e le accuse di omissione di soccorso furono innumerevoli e i sensi di colpa e la depressione avanzavano nel fotografo, che in seguito ad altri avvenimenti, come la morte del collega e amico Ken Oosterbroek, si suicidò nel suo pick-up con il monossido di carbonio del tubo di scarico nel luglio 1994, a 33 anni. Da un’inchiesta svolta nel 2011 dal giornale El Mundo si scoprì che in realtà era un maschio il bambino della foto, Kong Nyong, e tramite interviste ad abitanti dei villaggi limitrofi e in seguito al riconoscimento della foto da parte del padre del piccolo, si accertò che sopravvisse alla carestia e alla denutrizione, ma che morì quattro anni dopo per la febbre.

Kevin Carter

Sappiamo che le fotografie devono esprimere un ideale di indipendenza e che quindi raccontare i fatti con scatti che fermano il tempo su una data situazione può essere considerato etico allo stesso modo di quanto riteniamo importante denunciare controversie, problematiche e indignazioni tramite il solo passa parola o la condivisone nel web di contenuti immorali al cospetto del comune giudizio, senza poi concretamente far nulla di dignitoso. Molteplici possono essere i significati che possiamo interpretare dalla foto ed uno di questi è che siamo tutti spettatori nel nostro tempo, della realtà, di ciò che ci succede ogni giorno. In quel momento Carter non solo denunciava la carestia africana, in quel momento Carter era tutti noi, uno spettatore inerme di fronte a tanta tristezza. Quello che la gente al tempo non capì fu forse che al di fuori della foto, in quel momento in Africa c’erano centinaia, migliaia di bambine e bambini in quelle condizioni, senza cibo né acqua. Quella ragazzina era solo una sineddoche visiva, una parte di un tutto che nessuno avrebbe mai notato senza di essa. L’aver puntato il dito verso il fotografo o puntarlo verso chi altro si fosse trovato nella sua situazione porta solo al rischio di far passare il professionista come l’avvoltoio raffigurato nella foto di Carter, un adulatore della morte.

Susan Sontag diceva “fotografare è essenzialmente un atto di non intervento […] chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire”. Questo pensiero delinea già come si sarebbe poi considerato il ruolo di un fotoreporter. Non esistono colpe se l’intento è nobile, non esiste perversione se non c’è un principio di malizia in ciò che si fa, ciò in cui si crede. Perché il fotogiornalismo è catturare pezzi di storia, raccontare una storia. Carter forse avrà avuto le sue colpe, ma il pregiudizio delle persone gli è stato fatale.

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