Lo sport è uno straordinario diffusore di idee e nonostante qualcuno ci provi, sminuendo la sua componente sociologica si finisce col trascurare la primaria importanza che ha ricoperto in tante rivendicazioni sociali, politiche e territoriali.
Volendo menzionare uno degli esempi più importanti e significativi a sostegno della suddetta affermazione, andrebbe sicuramente ricordato Nelson Mandela e il ruolo che hanno rivestito il calcio e il rugby in Sudafrica nel superamento dell’apartheid.
Il mondo, però, è pieno di azioni simboliche veicolate attraverso lo sport, in particolar modo il calcio, per sensibilizzarne o radicalizzarne i contenuti. I tifosi del Barcellona più volte hanno fatto sfoggio di mastodontiche coreografie inneggianti alla Catalogna per ribadire la volontà di indipendenza dalla Spagna, così come ipocrita sarebbe negare quanto le derive separatiste nella allora Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia abbiano subito una brusca impennata dopo gli scontri della partita Stella Rossa – Dinamo Zagabria, portando il paese alle soglie di sanguinose guerre secessioniste.
Sebbene priva del peso e il clamore dei casi sopra citati, esiste una situazione di scontento sociale-politico-territoriale spesso esacerbato in occasione di eventi sportivi nazionali dal forte impatto collettivo, anche in Italia.
In periodi di fervore calcistico, ad eccezion fatta forse per la Basilicata, passeggiando per le strade delle restanti regioni del sud Italia, capita che poche persone si accorgerebbero di come una fetta di cittadini non si rispecchi nel tricolore. Tanti sono i balconi abbelliti con bandiere italiane e tante sono le trombette strimpellate ad ogni gol della compagine azzurra. Tuttavia, non è raro poter notare bianche bandiere borboniche che ballano al vento su statue di acclamati eroi nazionali o slogan di vernice spray in onore dei briganti su vecchi muri polverosi ingialliti dal tempo. Un malcontento popolare espressione di una minoranza, ma che esiste e che, puntualmente, viene rimescolato in occorrenza di avvenimenti quali europei o mondiali di calcio, sprigionando per le strade un aroma pungente difficile da ignorare.
I motivi alla base di tale estraneità verso uno stato e la sua bandiera da parte di persone omogenee che permeano tutti gli strati della società sono vari. Non sentirsi italiani perché non ci considerano italiani. Non sentirsi italiani per la diversità di cultura e tradizione che contraddistingue sud e nord quasi fossero, in effetti, due nazioni separate. Non sentirsi italiani perché non siamo italiani.
Nel calderone di esposizioni che spingono una fetta del sud a sentirsi avulsi alla nazione di cui fanno parte, questo ultimo motivo è senza dubbio quello che merita più ascolto. Le persone del meridione capaci di affrontare un confronto serio in merito, al di là dei banali battibecchi che talvolta impestano le bacheche di Facebook impoverendo un dibattito più che profondo, mettono in discussione la bandiera nazionale nell’atto di rispolverare un passato, a loro dire, insabbiato da fonti ufficiali. Questo sentimento, nelle menti dei suoi adepti, si ramifica in due precise correnti. I primi narrano di un trascorso glorioso, per niente scevro di ricchezze, smantellato da un’invasione bellica che li ha ridotti all’osso in una perenne condizione di colonia. I secondi, invece, più oltranzisti, poco adito danno a nostalgie talvolta reputate fanatiche o ingannevoli, mirando più che altro ad omaggiare quei banditi e contadini che lottarono per la liberazione delle proprie terre dal loro invasore.
Antonio Gramsci, Giacinto de’ Sivo, Tommaso Pedio, Francesco Saverio Nitti, Rosario Villari, Nicola Zitara, Carlo Alianello, Gigi di Fiore, Eugenio di Rienzo, Pino Aprile, tanti sono gli esponenti del mondo accademico, gli studiosi indipendenti, i personaggi politici che hanno o continuano a scoperchiare la pentola in cui friggono gli eventi che hanno portato alla nascita del regno d’Italia. Letture di diverse interpretazioni, ma che snocciolate conducono tutte ad una analisi diversa da quella raccontata dalla storiografia ufficiale. Quello che accomuna l’interpretazione revisionistica sul Risorgimento italiano più radicale da quella più moderata, è nello specifico un’unione coercitiva perpetrata nel sangue, portata avanti da parte di un regno, quello di Sardegna, nei confronti di un altro regno, non sviluppato, ma neanche tremendamente martoriato come enunciato ai posteri, quello delle due Sicilie. Seguendo i rintocchi di questa campana, per molti scrittori, giornalisti e storici vari, l’invasione fu attuata e pianificata a tavolino per trafugare le risorse del meridione, nella speranza, o per ripagare una parte degli ingenti debiti creati dai Savoia per portare a termine il compimento delle guerre di indipendenza, o di sfruttarle come trampolino di lancio verso l’orbita industriale in cui il mondo iniziava ad accingersi, creando così la falla di disavanzo economico tra sud e nord che ancora oggi, dopo più di un secolo e mezzo, fatica a sanarsi. Fenditura ormai storiograficamente conosciuta come: questione meridionale.
Dalla prospettiva revisionistica, il fatto che sui libri di scuola si apprenda di un sud oppresso liberato da padroni “stranieri” austeri e gravissime arretratezze economiche, accontentando così il diffuso sentimento patriottico di riunificazione che pulsava in tanti cuori dei suoi abitanti, pone dunque l’accento sulla catechizzazione ad una falsa verità cui tutta Italia, ma in particolar modo il meridione, nel tempo, sarebbe stato sottoposto.
Pur non negando gli errori nella violenta gestione sfociata in acuta repressione del complesso fenomeno appellato brigantaggio da parte dell’esercito del neonato regno d’Italia, ampie sono state le smentite provenienti da altrettanti e più eminenti scrittori, giornalisti e storici riguardo gli aspetti che precedettero l’unificazione messi in discussione, ovvero molteplici documentazioni su come la classe più colta e nobile della società borbonica fosse a favore dell’italianizzazione; su come, tralasciando Napoli e Palermo, il resto dei territori del Mezzogiorno fosse campagna abitata da persone con un elevato grado di analfabetismo; su come le convinzioni che forgiano l’idea di un passato diverso da quello riportato manchino di fonti attendibili; su come il sottosviluppo industriale del meridione vada implicato in gran parte ad una classe dirigente politica inadeguata e al prosciugamento di capitali che le mafie, persistentemente, attuano sul territorio; su come il revisionismo, in pratica, sia stato adoperato in modo sapiente per trasformare un dibattito puramente storico in uno di stampo ideologico, mistificando fatti scientificamente accertati e alimentando così la fiamma dell’odio che si interpone da sempre tra nord e sud.
Volendo credere tra le due, alla versione non ufficiale, difatti, questo non può che instillare rabbia o fastidio nelle coscienze delle persone, innalzando il livello della discussione anche a toni da scontro. Il delitto peggiore che si possa perpetrare ai danni di un popolo è ingannarlo sulla propria storia.
In1984 George Orwell racconta di un futuro raccapricciante in cui nessuna libertà è permessa e spiega come un governo dittatoriale mantenga il controllo del potere attraverso specifiche manovre. Una fra tutte, la cancellazione del passato e la sua perenne riscrittura in chiave propagandistica. Con il secondo conflitto mondiale da poco cessato e i fantasmi delle dittature ancora ad aleggiare per le strade, cavalcando la distopia per rendere l’etica più chiara, lo scrittore inglese ci teneva a ribadire temi a lui cari, fondamenta di ogni civiltà che si rispetti, condannando fermamente, ad esempio, l’idea che la storia fosse materia soggetta esclusivamente ai vincitori.
Inimmaginabile sarebbe pensare un irlandese sventolare fiero una bandiera britannica, perché attraverso la storia, lui possiede memoria. Ma cosa sarebbe successo nel 1921 se il British Army fosse riuscito ad avere la meglio sull’I. R. A.?
Che la storia sia un blocco di infinite pagine bianche nelle mani di un susseguirsi di vincitori di guerre è innegabile. Residui di migliaia di popolazioni ne hanno assaporato gli effetti fin dall’alba del mondo. Ma che sia stata davvero questa la manovra riservata anche alla storia del meridione? Forse la verità non sta né da una parte, né dall’altra, bensì nel mezzo, nel cerchio di incroci in cui frammenti di visioni opposte si fondono invece di scontrarsi, rendendo le vie dei fatti meno confuse e più delineate.
Lo sfoggio di bandiere che adornano i balconi di milioni di case evidenzia come un popolo ami rispecchiarsi in un vessillo. Credere in qualcosa in cui crede anche uno sconosciuto lontano mille chilometri di distanza enfatizza e unisce. In altri pochi contesti si può notare un coinvolgimento del genere tra le persone. Tutti che scivolano in un imbuto sentimentale, nel nome di un mantra complessivo capace di annullare differenze di qualsivoglia origine.
In soccorso al meridione, magari un giorno un linguaggio universale come il calcio potrà favorire per le generazioni a venire un processo di unificazione di intenti. Probabilmente innescando una intrinseca rivoluzione culturale, elevando il dibattito a priorità assoluta, nel tentativo di migliorare la propria condizione sociale, politica e territoriale.
Oppure appianando la maggior parte delle istanze revisionistiche, sulla scia di un entusiasmo popolare capace di innescare sempre più discussioni costruttive volte ad accantonare ogni forma di rancore atavico, per puntare insieme al presente, sulla base di ardori germogliati da un digerito convincimento, ossia la ferma idea che, anni or sono, nella speranza di poggiare le basi per un futuro migliore, a trarne profitto furono entrambe le formazioni.
Ad ogni modo, qualsiasi delle due sorti sia, la speranza è che vi si arrivi tifando la bandiera che conta, quella con due parole incise sopra: verità e memoria. È sempre nel nome e in onore di queste due concezioni che l’umanità deve districarsi, gemelle siamesi partorite da una mamma feconda e immortale: la Storia. Ciò che serve per capire chi siamo.
Alessandro Saviano