Nel 1989, in un brano dell’album New York intitolato Strawman, Lou Reed incluse un verso che recita “Qualcuno ha bisogno di un altro film da un milione di dollari?”, il quale suona, è quasi superfluo dirlo, come la più retorica tra tutte le domande possibili. Al tempo in cui la canzone e l’LP furono pubblicati, la grande industria del cinema americano non aveva ancora in effetti completamente manifestato i paurosi segni di cedimento che ebbero luogo, in larga misura, a partire, diciamo, dalla metà del decennio successivo. A decorrere dagli anni ‘90 inoltrati, Hollywood sembrò infatti indirettamente dichiarare che, da quel momento in avanti, si sarebbe preoccupata di dare alla luce soltanto giganteschi e vuoti prodotti commerciali, decidendo persino di abdicare rispetto all’obiettivo di non perdere mai di vista una certa qualità e alcuni contenuti di fondo. Quest’ultimo è un “modus operandi” che, del resto, rappresentò una delle caratteristiche più significative e lodevoli degli anni della classicità, durante i quali le produzioni si erano mediamente mantenute in ottimo equilibrio fra le esigenze dell’attività con finalità commerciali e la coscienziosità che spingeva quell’enorme macchina produttiva ad offrire al pubblico film che, nella maggior parte dei casi, potevano comunque rivendicare una non trascurabile credibilità artistica.
Sul finire degli anni ‘80, la situazione del cinema americano non si era, come accennato, ancora evoluta in senso talmente tragico, il quale dato, automaticamente, è da solo sufficiente a conferire alle parole di Lou Reed un valore marcatamente profetico. Certo è, ad ogni modo, che sarebbe già stato possibile intravedere, se non proprio toccare con mano, le premesse per il disastro in atto negli anni a venire. Gli spazi che equivalgono alla sorta di riserva protetta, nel ristretto contesto della quale il cinema d’arte è solitamente uso muoversi ed operare, a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 erano via via venuti progressivamente assottigliandosi, al punto che, ad esempio, ci si chiede come e dove un regista come Alexandre Rockwell abbia potuto reperire il coraggio e l’ostinazione che, senza dubbio, gli furono estremamente necessari nell’intento di distribuire, nel 1983, un film come Lenz, dotato del passo e della scansione narrativa in grazia dei quali viene facile accostarlo alle produzioni underground più pure e meno restie alle soluzioni di compromesso per cui gli anni ‘60 rappresentarono un decennio assai più favorevole.
Dunque, eccezion fatta per l’impegno costantemente profuso da alcuni cavalli imbizzarriti e fieramente individualisti, da sempre e a buon diritto associati all’universo autoriale (Coppola, Lynch, Cimino ecc…), rispettivamente nel decennio della presidenza di Reagan e in quello in cui le politiche militar-imperialiste tornarono ad affermarsi su larga scala anche per il controverso ma glorioso tessuto cinematografico degli Stati Uniti si trattò di tempi quantomai difficili. Nella migliore delle ipotesi, furono prodotti film che, attraverso il pretesto del buon intrattenimento e dell’impeccabile confezione, seppero veicolare contenuti ed allegorie non privi di peso (Ritorno Al Futuro, Ghostbusters, E.T. …); nella peggiore, assai a malincuore, fu necessario prendere atto dell’invasione, pressoché incontrollata, dei cosiddetti blockbusters, il talmente limitato spessore attribuibile ai quali si esaurisce in esatta coincidenza con lo svuotamento del sacchetto di popcorn e del bicchierone di cocacola che, inevitabilmente, ne accompagnano la visione. Ciò a tutto detrimento delle tipologie di spettatori che, forse non così inconsciamente, tendono a confondere il bisogno di relax e leggerezza con la predisposizione all’obnubilamento delle facoltà intellettuali.
Muovendo da certi tutt’altro che confortanti presupposti e, peggio, ormai rassegnato a dover rinunciare ad uno dei più importanti tasselli che costituiscono il mosaico della cosiddetta settima arte, è stato per me giocoforza ricuperare l’entusiasmo dell’appassionato dopo che, grazie alla preziosa opera di divulgazione messa in atto dalla più rilevante piattaforma di cinema in streaming, mi fu concesso di venire a conoscenza (purtroppo, in netto ritardo sui tempi; più vado avanti, più mi dico convinto che alla necessità di vivere in provincia non conseguono se non pesantissime controindicazioni) di una corrente a cui è stata affibbiata l’etichetta “mumblecore” e che, seppure d’omologazione ancora relativamente recente, già non ha mancato di radunare attorno a sé qualche manipolo degli arcinoti detrattori “per definizione”. Sono, naturalmente, i bastiani contrari che si fanno un punto d’onore di parlar male, quale che sia l’ambito artistico di riferimento, di una scena, un filone, un gruppo, un collettivo, dal momento che nei vari manifesti programmatici, propriamente scritti o giusto oralmente diffusi, è inclusa la volontà di tentare di esprimersi in un linguaggio quanto più possibile originale, innovativo o anche solo di rottura rispetto a schemi e formule che il tempo e la perversa passione per la conservazione ed il manierismo hanno inevitabilmente reso stantii, ammuffiti ed urgentemente bisognosi di immediati messa a riposo e ricambio.
Gli zelanti critici che si propongono di sminuirne la peraltro ancora piuttosto acerba reputazione affermano, a proposito del “mumblecore”, che si tratta di una cinematografia “navel gazing”, vale a dire, letteralmente, del tipo di quelle che hanno la tendenza a “fissarsi l’ombelico”, quindi, per allargare il concetto, a non operare attraverso modalità universalistiche e che non si curano pertanto di alimentare il dibattito e la riflessione sullo stato, in un determinato tempo storico e sociale, della condizione umana. Certi inflessibili esegeti della materia stanno, evidentemente, sbagliando bersaglio. Se sono realmente interessati a porre in rilievo un cosiddetto genere di cinema in cui i personaggi e il copione non fanno che girare attorno alla limitata circonferenza delineata dai loro sembianti – e che, in altre parole, non tiene conto, dato che non è cosciente della sua sussistenza, della Storia, presente e passata, della quale dovrebbe rappresentare invece la più diretta emanazione -, possono tranquillamente rivolgersi alla gran parte dei prodotti che l’Italia ha distribuito nel corso degli ultimi quattro decenni e che, fatta eccezione per il lavoro di pochissimi cineasti (Del Monte, Bertolucci, il miglior Guadagnino, cioè quello che non si ritrae al cospetto dell’eventualità di osare e, magari, anche di commettere errori riconducibili alla sfera dell’umano…), mancano completamente, a differenza delle opere dei connazionali che sono venuti prima, di respiro internazionale ed “universale”.
Al termine della visione di Alexander The Last di Joe Swanberg, cioè di quello che per me ha rappresentato il primo contatto con la scena cinematografica americana più importante dai tempi di quella conosciuta con l’etichetta “New Hollywood” e nata, ormai, più di cinquant’anni fa, non riuscivo a credere ai miei occhi e, letteralmente, stentavo a convincermi che al girato appena visto fossero stati effettivamente dati i natali sul piano della realtà più fattuale. Dopo che per così tanti anni era stato necessario sopportare il cinema posticcio ed inutilmente costoso sull’aereo presidenziale che subisce l’attacco delle forze nemiche, sui grattacieli che esplodono, sulle metropoli poste sotto assedio a causa dell’invasione di pericolosi ed enormi insetti, rettili e gorilla, sulla glaciazione prossima ventura (il quale si basa sulla trasformazione di questi eventi, ognuno rappresentante una reale catastrofe potenziale, in altrettanti giocattoli progettati in studio con tanto di largo abuso di computer grafica)… ecco, finalmente, un film che, al di là di ogni considerazione, sull’esempio del Francis Ford Coppola “povero” degli anni ‘80, si rivela al pari dell’ennesima certificazione per cui quando si può rivendicare il possesso di un certo talento, quando, in altre parole, si è pienamente coscienti di aver qualcosa da dire e di poter contare su un minimo di capacità intellettuale che serva allo scopo di poterla adeguatamente articolare ed elaborare, l’ammasso di ammennicoli da laboratorio, che ormai costituisce l’unica ragion d’essere del cinema di più vasto consumo, può (o potrebbe) essere tranquillamente accantonato e in fretta dimenticato.
Sul piano tecnico e narrativo, il film di Swanberg, esattamente come la gran parte di quelli ascrivibili alla stessa corrente, non ha l’ambizione né l’obiettivo di porsi come qualcosa di straordinariamente innovativo e mai visto prima, evidentemente perché la necessità di comunicare è, in questo caso, più urgente rispetto alle preoccupazioni relative alla cura dell’aspetto esteriore dell’opera. Il riferimento formale più immediato sembrano, infatti, essere le avanguardie realiste, si potrebbe quasi parlare di cinema “neo beat”, postesi in luce tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60. Per essere precisi, Alexander The Last dà modo di riportare alla mente il John Cassavetes sperimentale di film come “Ombre” e “Volti” – e sì che quella macchina a mano che deambula a fatica, appare malferma e non vuole saperne di inquadrature fisse ed immobili, quei dialoghi che sanno tanto d’improvvisato e quindi non scritto (al punto che avrebbero fatto uscire dai gangheri il Lawrence Olivier che, sul set de Il Maratoneta, non senza una punta d’acrimonia, sentenziò, riferendosi al co-protagonista Dustin Hoffman: “Fate sapere a quel ragazzo ebreo che ogni tanto potrebbe anche recitare”) servono perfettamente allo scopo di svelare l’animo inquieto, tribolato e non pacificato dei personaggi.
Si giunge, perciò, rimanendo strettamente allacciati a quest’ultima riflessione, al punto focale dell’intera questione. L’11 Settembre del 2001 ebbe luogo, per eccellenza, l’evento inversamente epocale della più recente storia degli Stati Uniti, periodicamente costretti a mettere pesantemente in discussione le presunte certezze relative alle proprie potenza ed invincibilità. Durante ogni fase in cui il paese è stato chiamato a ripiegarsi su se stesso, allo scopo di sottoporsi ad un processo di auto-analisi, va da sé, il più onesto ed obiettivo possibile, le varie forme d’arte non hanno mancato, parallelamente, di far sentire la loro voce. Ciò sia, non senza adombrare perfidia, sadismo e crudo realismo, nell’intento di affondare nella piaga coltelli oltremodo sanguinari, sia per offrire un contributo alla meditazione, attraverso le modalità della compassione, riguardo alle particolari conseguenze che sempre i momenti storici più difficili e delicati sono soliti portarsi dietro, a mo’ d’ineludibile precipitato.
Perciò, contrariamente a chi sostiene che si preoccupi unicamente di rimirarsi estasiata l’ombelico, la più recente manifestazione del cinema indipendente americano dimostra, altresì, di essere collegata a doppio filo a questo scorcio della Storia, di cui, quindi, si propone di essere, al pari delle correnti assurte alla fama durante gli altri problematici decenni del XX secolo, un attendibile contraltare artistico. Infatti, non può essere tenuto alla stregua di una mera coincidenza che i film di Joe Swanberg, ma anche di Amy Seimetz, di Destin D. Cretton, di Eliza Hittman ecc…attraverso i quali vengono posti al centro di ogni vicenda temi quali l’insicurezza, l’incertezza, la malinconia, la depressione e il profondo senso d’inadeguatezza sono arrivati (dopo che, per anni, il cinema dei super-eroi era stato utilizzato come discutibile e patetica metafora attraverso la quale sbandierare un’illusoria sensazione d’imbattibilità) giusto a partire dall’indomani dell’attentato al World Trade Center, a causa del quale, altresì, gli Stati Uniti sono costretti, seppur non sempre a chiare lettere e a cuore aperto e non senza fare in modo che le sue ferite possano rimanere il più possibile imperscrutabili all’occhio delle telecamere, a rivedere decisamente i termini e la sostanza della sua storia psicologica e morale.