Chi decide in che modo moriamo?

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Si muore di Covid.
Si muore di complicazioni legate a un vaccino.
Si muore di attacco di cuore, perché non si ha più un lavoro e non sai più come sfamare la famiglia.
Si muore di suicidio, perché la depressione è l’unica cosa certa che arriva dopo oltre un anno di vita passato con perenne senso di insicurezza e incertezza.
Si muore di vecchiaia. Ma magari poi dicono che nel corpo avevamo quel virus lì.
Si muore delle complicanze di ciò di cui eravamo già malati, perché visto il periodo si è portati a posticipare visite dal medico o in ospedale che avremmo dovuto fare.
Si muore di solitudine. Di noia. Di apatia.

In questo gioco macabro che stiamo conducendo da qualche tempo, l’illusione è di starsi sforzando in tutti i modi di evitare la morte. Ma la cruda verità è che mentre riduciamo la probabilità di morire per una ragione specifica, aumentiamo quella di morire per tutte le altre ragioni. Perché la coperta non è grande abbastanza per coprire tutti gli angoli del disegno più grande di tutti.

Un disegno che dovrebbe dirci chiaro e forte qualcosa che avremmo dovuto capire da tempo: che la morte è una dimensione che va oltre il controllo dell’essere umano.

Potremmo barricarci in casa per i prossimi tre anni senza vedere anima viva e ridurre al minimo il rischio di morire di Covid. E allo stesso aumentare al massimo quello di morire nel sonno, da soli, perché ci siamo giocati il nostro equilibrio psicofisico. O magari di morte dovuta all’impatto del nostro cranio sul duro cemento del cortile, dopo esserci gettati dal balcone.

È naturale avere paura di morire. Ma è arrogante pensare di poter controllare la morte.

È una consapevolezza che un secolo fa avevamo. Arrivava una guerra mondiale, una catastrofe naturale, o una fase di povertà estrema dovuta a situazioni economiche, e tra una cosa e l’altra la vita ci ricordava costantemente che in fondo siamo nelle mani di Dio, se è in Dio che crediamo, oppure in quelle del destino, del karma, o semplicemente del puro caso. Avevamo la saggia consapevolezza che, almeno nelle questioni più grandi di noi, come quelle che impattano la collettività senza distinzione alcuna, non c’è nulla che possiamo fare come individui. E quando avevamo paura della morte, andavamo dal prete, leggevamo la Bibbia, o semplicemente bevevamo un bicchiere di vino in famiglia, invece di sederci a tavolino per definire il piano d’attacco necessario a vivere qualche giorno in più.

Poi una manciata di decenni di benessere ci hanno convinto di essere immortali.

Ora improvvisamente l’idea di morire per una causa inaspettata è qualcosa che ci terrorizza così tanto che bisogna assolutamente fare qualcosa. Stare attenti. Guardarsi intorno in ogni secondo. Stabilire una serie di precauzioni costanti e non permetterci di allontanarsene nemmeno per un secondo, da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire. E per sicurezza anche mentre sogniamo.

Quello che fino a nemmeno due anni fa costituiva un comportamento da discutere con uno psichiatra, ora è eretto a valore fondante della nuova società. Un bisogno di controllo assoluto che si riversa sui gesti capillari della vita quotidiana, per illuderci di avere il controllo su dimensioni dell’esistenza che invece ci guardano dall’alto come puntini insignificanti.

E con lo stesso spirito firmiamo, commentiamo, fronteggiamo decreti per scampare alla morte. Mettendocela tutta ad ignorare la realtà che abbiamo di fronte agli occhi, vale a dire che qualsiasi cosa facciamo, la gente continua a morire. Noi continuiamo a morire. E non per colpa di chi ti sta accanto. Semplicemente perché è così che deve andare in questo momento storico.

Ma mentre ci spiegano che dobbiamo affrontare ogni tipo di restrizione con un responsabile senso di accettazione totale, non ci ricordano che quel senso di accettazione dovremmo usarlo per le questioni che vanno oltre al nostro controllo umano. Come il momento o il modo preciso in cui moriremo.

Da tanto, troppo tempo abbiamo trasformato la nostra vita nel tentativo di influenzare la nostra morte.

Ogni giorno, alzandoci una mascherina sul naso, trattenendoci dall’abbracciare un amico, impedendoci di visitare un museo, privando i bambini della loro indispensabile interazione sociale, posticipando il momento in cui facciamo visita ai nostri genitori, stiamo concentrando la quasi totalità dei nostri sforzi in un blasfemo tentativo di giocare carte che normalmente maneggiano gli dèi che vegliano sopra di noi. E noi, che in quanto uomini siamo chiamati prima di tutto a vivere, abbiamo deciso di mortificare la stessa esistenza che ci è stata donata, dedicandola alla visione costante, ininterrotta, ossessiva della sua fine.

Ed è così che, mentre questo o quell’altro governo passa da un provvedimento eccezionale all’altro, perpetuando un suo malato gioco di ruolo con la volontà autonoma della Morte, resta a noi, e soltanto a noi, la responsabilità di valorizzare l’unica cosa che siamo chiamati a rispettare: la vita. Qualcosa a cui abbiamo vigliaccamente deciso di rinunciare, dedicandoci invece all’inutile tentativo di dialogo con la sola dimensione della sopravvivenza. Come se fossimo una qualunque gazzella nella savana selvaggia.

3 comments

  1. Si ha paura di ciò che non si conosce..la morte ad esempio..è difficile accettare e permettere ad un virus, sempre che sia quella la causa scatenante, di prendersi gioco delle nostre difese e stenderci al suolo..bisognerebbe accettare che ognuno ha una sua batteria, terminata quella, game over..e chi si è visto, si è visto..io lotterò per vivere finché la mia batteria vorrà..

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