L’esistenzialismo maledetto di Closer dei Joy Division

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In occasione del 40° anniversario di Closer dei Joy Division è stato ripubblicato, in un’edizione speciale in vinile, l’album che di fatto ha segnato la fine del più importante gruppo postpunk inglese.

Il 18 luglio del 1980 usciva, infatti, il secondo e ultimo disco dei Joy Division, pubblicato postumo a due mesi esatti di distanza dal giorno in cui Ian Curtis aveva deciso di appendere la sua vita a una corda, soffocando per sempre il suo dolore per dare voce in eterno a quello degli altri. L’aura che questo gesto estremo ha impresso sul lavoro della band e sulla percezione di autenticità della loro musica è argomento che meriterebbe un’indagine molto più approfondita di quella che possiamo permetterci di affrontare in questa sede, ma è innegabile che il suicidio di Ian Curtis, così come il suicidio di altri artisti che sono venuti prima e dopo di lui (da Nick Drake a Elliott Smith passando per Kurt Cobain), è stato spesso mitizzato e utilizzato come una sorta di marchio di garanzia, un certificato di purezza da esibire all’occorrenza per dimostrare quanto fosse sincera la loro arte.

Ecco, nel caso di Ian Curtis e dei Joy Division possiamo dire che questo timbro non era assolutamente necessario, in quanto quella musica, così oscura, brillava già da sola di un’autenticità accecante; proprio come il segnale di una stella che muore nell’oscurità dell’universo, sapientemente riprodotto dal grafico Peter Saville sulla copertina del loro primo album Unknown Pleasures.

Anche la copertina di Closer fu una sua idea. E anche in quel caso venne scelta un’immagine capace di trasmettere un’idea di luce funerea: c’è sempre la stessa atmosfera di morte, ma sta volta è meno distante dello spazio siderale, anzi è molto più vicina (closer appunto) e più terrena. Si tratta, infatti, di una foto della tomba della famiglia Appiani scattata dal fotografo Bernard Pierre Wolff presso il Cimitero Monumentale di Genova di Staglieno.

Anche sulla copertina del singolo più famoso della band Love Will Tear Us Apart  – in cui Ian canta il dolore del suo matrimonio che va in pezzi proprio a causa dell’amore stesso – c’è un’altra immagine che proviene da quel cimitero e che raffigura la statua adagiata sulla tomba della famiglia Rimbaudo:

Ed è proprio quella frase, l’amore ci farà a pezzi, che per i fan è diventata il verbo, la verità assoluta, il destino ineluttabile a cui siamo tutti condannati, ad essere stata incisa come epitaffio sulla lapide di Ian Curtis (che si trova, invece, nel modestissimo cimitero di Macclesfield, vicino a Manchester).

Tutte queste immagini di reificazione scultorea della morte non fanno altro che scolpire nella pietra il messaggio lugubre contenuto nelle canzoni dei Joy Division, in particolare in quelle di Closer, che partono dal chiasso infernale di Atrocity Exhibition (un pezzo dal suono quasi industrial ottenuto grazie al “pedale del fuzz più merdoso che si possa immaginare”) e diventano via via sempre più spettrali.

Il brano di apertura, ispirato a una raccolta di racconti di J.G. Ballard ambientati in un ospedale psichiatrico, è il loro biglietto da visita di sola andata per l’inferno della mente umana, solo che al posto dell’avvertimento dantesco “Lasciate ogni speranza, voi che entrate” qui c’è la voce di Ian Curtis che, al contrario, ci invita a entrare senza fare troppi complimenti: Questa è la strada, entrate pure (This is the way, step inside.).

A Ian interessavano i meandri oscuri della psiche umana quelli che conducono al cuore di tenebra di Conrad, al Castello di Kafka, al pasto nudo di William Burroghs e alle degenerazioni dei totalitarismi.

Il narratore-cantante non ci dice subito cosa dovremo affrontare una volta entrati, ma ci spiega, invece, cosa sta affrontando lui con l’aggravarsi della sua malattia (il grande male) e gli attacchi epilettici diventati ormai sempre più frequenti: se in Unknown Pleasures  la sua epilessia veniva in qualche modo rigettata su un’altra persona (She’s Lost Control), qui viene completamente interiorizzata:

Per il loro divertimento guarndano il suo corpo che si contorce
Dietro i suoi occhi lui dice, ‘Esisto Ancora’

(For entertainment they watch his body twist,
Behind his eyes he says, ‘I still exist.’)

Ma è questa un’esistenza condannata all’oblio (una cecità che tocca la perfezione, ma fa male come ogni altra cosa) e destinata all’isolamento,come canta ossessivamente nella seconda traccia dell’album: Isolation che, a dispetto del titolo, sembra proiettata verso il futuro synth pop dei New Order, la band che nascerà dalle ceneri dei Joy Division, cambiando nome come previsto dal patto di sangue dei suoi membri.

Un patto di sangue che è sempre stato presente fin dalla firma del primo contratto con la Factory di Tony Wilson, etichetta discografica dalla storia assurda e irripetibile, che in realtà non era solita contrattualizzare i suoi gruppi: la leggenda (ripresa poi anche dal biobic di Anton Corbijn Control) narra, infatti, che tale fantomatico contratto venne scritto e firmato col sangue su un tovagliolo di carta, più per gioco che per altro, riportando queste poche e “semplici” parole:

“Ai musicisti appartiene tutto, alla compagnia niente. Tutte le nostre band hanno la libertà di andarsene affanculo”.

Ma il sangue che era stato presente fin dalle origini della band ormai aveva cominciato a scorrere in maniera sempre più frequente ogni volta che Ian crollava a terra all’improvviso in preda alle convulsioni. La situazione non era più sostenibile, ma nessuno aveva il coraggio di dire che bisognava fermarsi. La band continuava a macinare concerti, anche se Ian a volte non era neanche in grado di salire sul palco. Con tali premesse era probabile che la storia dei Joy Division finisse nel sangue per davvero, così com’era cominciata soltanto per scherzo. E infatti in molte canzoni di Closer è facile trovare indizi rivelatori di quell’ultimo gesto compiuto da Ian nella notte a cavallo tra il 17 e il 18 maggio 1980.

La traccia numero tre ad esempio si intitola inequivocabilmente Passover e ancora più inequivocabili sono i versi che la accompagnano:

Questa è la crisi  che sapevo doveva arrivare
Distruggendo l’equilibrio che avevo mantenuto
Dubitando, sconvolgendo e girando intorno
Immaginando cosa verrà dopo

È questo il ruolo che volevi vivere?

Ogni canzone sembra quasi una richiesta di aiuto (A cry for help) come lo era stato il primo tentativo di suicidio a base di barbiturici avvenuto la sera del 7 aprile 1980, prima del famoso e disastroso concerto alla Derby Hall di Bury finito a bottigliate. Mentre Ian era seduto in disparte a guardare la sua band che suonava senza di lui disse a Lindsay Reale (moglie di Tony Wilson) di aver la sensazione di essere ormai separato da loro.  Un distacco graduale che possiamo avvertire anche nella sua voce, soprattutto se la ascoltiamo durante l’esperimento di ipnosi che aveva condotto con l’aiuto del chitarrista Bernard Sumner e di cui potete ascoltare qui un estratto, tratto dal documentario di Grant Gee del 2007. Era vivo, ma la sua voce e la sua mente stavano già viaggiando insieme alle anime dei morti (Dead Souls).

Nella Colonia (Colony) in cui si ritrovava confinato non era mai stato così solo, perché c’erano anche gli altri membri della band a plasmare la cattedrale gotica di suoni lancinanti in cui era avvolto, ma al suo interno ormai era come se lo fosse (Stood alone here in this colony), la vita famigliare non esisteva più  e i suoi compagni non lo capivano fino in fondo o forse non lo volevano capire per paura di spezzare quell’incantesimo occulto che non sarebbero in stati grado di riprodurre da soli (“senza di lui era come se fossimo rimasti senz’occhi”), quella sorta di magia nera che sembrava venir fuori dai suoi versi apocalittici, se non addirittura essere emanata direttamente dal suo corpo in preda agli spasmi.

Un corpo diventato ormai solo un tramite per giungere a una fine (A Means to An End), dilaniato tra due abissi, cuore e anima (Heart and Soul) che si specchiano l’un l’altro come un cratere che guarda il cielo fino a quando quest’ultimo non finisce per sprofondarci dentro tra le fiamme: Heart and soul, one will burn.

Closer è, quindi, un ultimo lungo biglietto d’addio di cui nessuno si era ancora ben reso conto, nemmeno Ian (Non ho mai capito le lunghezze che avrei dovuto percorrere / tutti gli angoli più bui di un senso che non conoscevo), le ultime 24 ore (Twenty Four Hours) di un condannato a morte che si è autoinflitto la pena, che ha guardato al di là del giorno che ha nella mano e non ha trovato niente: Looked beyond the day in hand, there’s nothing there at all.

Non c’è niente, perché la vita non ha senso. È solo una sequenza ripetitiva di gesti inutili per ingannare l’attesa della morte. È questa la conclusione a cui si giunge alla fine di questo viaggio nei meandri della depressione. Ed è proprio questo che secondo il critico Mark Fisher (aka K-Punk, morto suicida anche lui nel 2017) contrassegna in maniera distintiva la musica dei Joy Division. Ci sono milioni di dischi che sono venuti prima e dopo i Joy Division che vengono identificati come “musica triste” (pensiamo a tutta la storia del Blues o per restare più vicino aThe Queen is Dead degli Smiths o a Mellon Collie & The Infitive Sadness degli Smashing Pumpkins), ma nella maggior parte dei casi si tratta di dischi che parlano di malinconia o comunque di una forma di tristezza dietro la quale c’è un motivo, si tratta, cioè, di canzoni per la cui sofferenza c’è una ragione ben precisa, una causa a cui è riconducibile tutto quel dolore espresso in musica.

Nel caso dei Joy Division invece no.

Non c’è una vera causa. Il blu(es) della tristezza ha varcato i confini cromatici del dolore sfociando nel nero della depressione. Come puntualizza ancora Fisher “la differenza rispetto alla pura e semplice tristezza consiste nella pretesa di aver scoperto La Verità in materia di vita e di desideri”. Fisher arriva addirittura a considerarli il gruppo più schopenhaueriano della storia perché hanno raggiunto quello che desideravano ardentemente (diventare una band acclamata), per poi scoprire che non era davvero quello che volevano, che quella sensazione di vuoto interiore era ancora lì. E quindi che senso ha affannarsi per raggiungere un desiderio che poi una volta raggiunto scopri non essere più tale? È questo che rende quella musica così dolorosa. La depressione è prima di tutto una teoria sul mondo e sulla vita, una posizione filosofica senza via di uscita.

Salvo una. La fine.

Per questo nelle ultime due canzoni dell’album, The Eternal e Decades la voce di Ian sembra quasi non far già più parte di questo mondo come quando era sotto l’effetto di ipnosi, un Frank Sinatra che invece di cantare dalla luna canta dall’oltretomba. La processione prosegue accompagnata dai rintocchi delle campane funebri che risuonano in poche note di pianoforte e eternità, i decenni si allungano nella coda strumentale di sintetizzatori dell’anima che chiudono l’album bussando, non più alle porte del paradiso come Bob Dylan, ma alle porte della camera più buia dell’Inferno. La risposta è una domanda:

I dolori che abbiamo sofferto e che non sono mai stati liberi.
Dove sono stati?

In conclusione, a distanza di 40 anni possiamo dire che la musica dei Joy Division continua ad essere rilevante perché è fondamentalmente atemporale, come ha notato il critico Paul Morley “il tempo non sembra mai corrompere la musica dei Joy Division; le sue azioni, le sue sensazioni, le sue immagini, il suo movimento, tutto sembra “entrare” nel momento successivo, i rumori e i turbamenti, il coraggio e l’impegno, è come se accadesse sempre tutto per la prima volta”. La musica dei Joy Division non si limita a riflettere l’ambiente mancuniano in cui è stata concepita, ma trascende la desolazione post industriale a cui spesso è stata abbinata, le singole storie personali, il futuro e il passato del rock’n’roll e persino il concetto stesso di modernità così come viene descritto in apertura del documentario su di loro:

“Essere moderni vuol dire trovarsi in un ambiente che promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che al contempo minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo”

Insomma il tempo non ha importanza, i Joy Division ci faranno sempre a pezzi.

One comment

  1. Quell’album seminale conteneva tutto, il prima e il dopo.
    Solo chi non si è imbattuto in quell’esperienza non può capire.
    Solo chi si è imbattuto in quell’esperienza può capire.
    Solo chi non si è imbattuto in quell’esperienza dovrebbe capire.

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