David Bowie e la musica che trascende il tempo

Mi ha sempre affascinata come le matrici linguistiche si fondano le une con le altre, dando vita alle parole e alle loro derivazioni. Così la parola greca allos – il nostro altro – dà origine al pronome latino alius e, conseguentemente, all’aggettivo alienus.

Le parole alieno e alienazione condividono la stessa focale: parlano di Altro. Altre menti, altri mondi, altre esperienze: qualcosa di lontano da gran parte della comprensione umana. Di diverso.

Quando penso a David Bowie penso sempre a un bellissimo alieno: che fosse il poliedrico Ziggy Stardust, il sottile Duca Bianco, Major Tom o semplicemente se stesso – lui, più di ogni navicella e missione, ha saputo portare gli uomini nello spazio.

Agli albori degli anni ’70 vedeva la luce Space Oddity; con una brillante mossa di marketing, il singolo uscì appena dieci giorni prima che Neil Armstrong posasse il piede sulla luna. Da lì in poi, divenne la canzone dei documentari sull’Apollo 11, la colonna sonora simbolo dell’avanscoperta spaziale – ma anche un inno a un determinato tipo di condizione umana.

È sorprendente come ad oggi Bowie sia più di tutti l’artista in grado di trascendere il tempo e lo spazio stesso, esprimendo con le sue canzoni problematiche attuali e complesse.

Nel 2020 la gente vive con il naso puntato all’insù: Elon Musk ha fatto sua la definizione di sogno americano e, con la sua compagnia privata, ha permesso che gli Stati Uniti decollassero di nuovo dalle loro basi – dopo la ferita mai completamente chiusa dello Shuttle esploso nel ’86. Si parla di andare in vacanza sulla Luna, su Marte: ma nel frattempo la vita qui sulla Terra si muove secondo le regolari contraddizioni che ciclicamente attraversano i secoli. Alcune delle quali piuttosto banali, nel loro essere ridondanti, ma mai scontate.

Possiamo seguire la missione in tempo reale, dal sito della nasa la Stazione Spaziale è tracciabile h24. Abbiamo visto il lancio, il decollo, la vita nella navicella, l’attracco. E rimangono impresse, oltreché l’alta definizione, il senso di sospensione dovuto all’assenza di gravità. La sensazione che ci sia da quelle parti un grande e incantevole silenzio.

Eppure, Bowie ce lo aveva detto già negli anni ’60, com’è sentirsi soli nello spazio.

Space Oddity è una canzone controversa e misteriosa, che si apre a diversi tipi di interpretazione ma che affonda le sue radici in una serie di bellissime metafore.

Ci racconta di Major Tom disperso lassù tra le stelle: di quali siano le sue impressioni. Ci dice a chiare lettere che la terra, da lassù, è blu – dove di nuovo tornano le meraviglie della linguistica e in questo caso delle traduzioni. La parola blu, in inglese, si riferisce sia al colore sia alla malinconia.

Ma anche che le stelle non sono mai state così belle, sembrano così diverse da come le vediamo dalla terra.

Major Tom sa che la sua vita sta per finire, ma è pieno di gratitudine. Vive le contraddizioni di sentirsi il cuore spezzato dalla solitudine, di provare dolore per il mondo, di sentire la mancanza di casa e allo stesso tempo di essere completamente riempito da una bellezza più grande e più antica, più profonda e misteriosa, che a noi è arrivata proprio come un messaggio dallo spazio attraverso una canzone.

La sua storia non trova mai una conclusione in tutti gli album postumi: tranne, forse, nell’incipit del video di Blackstar.

Nei primissimi minuti, infatti, vediamo una donna con la coda di gatto camminare in direzione di una tuta spaziale, abbandonata tra le rocce. Nel sollevare il casco, quello che scopriamo è un teschio intarsiato. Quindi Major Tom se ne è andato: e, considerata la breve tempistica tra l’uscita di Blackstar e la morte di Bowie, sembra quasi una predizione.

Come se l’Uomo delle Stelle ci avesse lasciato per tornare al suo posto.

Presto, sempre troppo presto: perché ora più che mai, in questa quotidianità fatta di stanze e nuovi e invisibili muri, abbiamo ancora bisogno di qualcuno che ci ricordi che è possibile essere Heroes, anche solo per un giorno.

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