Cos’è la “morte di Dio”: da Friedrich Nietzsche ad Albert Camus

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“Morto Dio, restano gli uomini, vale a dire la storia che bisogna comprendere e costruire.”

A. Camus, L’uomo in rivolta

Uno dei concetti più rinomati e conosciuti oggi, all’interno della speculazione filosofica occidentale, è sicuramente quello di “Morte di Dio”, che trova la sua teorizzazione – probabilmente – più raffinata e articolata nella figura di Friedrich Nietzsche. Ciò che quest’autore pose come nucleo fondante della sua teoria è il fatto che nella cosiddetta morte di Dio vi è insita la morte dell’intera gamma di illusioni, miti e storie che l’uomo, all’interno della sua esistenza, si è creato e raccontato al fine di riempire di senso e significato la stessa esistenza in bilico altalenante tra la vita e la morte.  Ma questo aspetto della teoria rappresenta soltanto l’aspetto superficiale di essa, poiché nella morte di Dio si cela, in realtà, un insieme di significati molto più complessi.

Il Dio di cui parla Nietzsche è quello della tradizione giudaico-cristiana ed etnocentrica, che diventa il riferimento principale della storia dell’Occidente e la sua morte è la colpa più grande che l’uomo ha, poiché è stato lui, con le sue creazioni, con le sue azioni incondizionate e senza argine ad averne demolito e distrutto tutto il significato che rappresentava. Nietzsche raffina la sua teoria, prendendo come esempio la figura del folle che parla alla massa, annunciando proprio questo momento critico dell’esistenza dell’uomo e dell’esistere in generale, in quanto vita che abbraccia tutti gli enti dell’umano sentire. Le parole che l’autore fa pronunciare al suo folle sono dure, colpevolizzanti, denigratorie nei confronti di un mondo che, in fondo, nella sua coscienza intenzionale aveva già scelto di andare in una direzione che avrebbe causato la fine, la crisi, la morte di quel Dio:

“Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?”

Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza, 1882


Queste parole de La gaia scienza rappresentano il clima esistenziale in cui l’uomo, a partire dal grande evento critico, si è cominciato a trovare. La morte di Dio, ovviamente, non è da intendere nel senso che fisicamente esso sia morto, poiché perderebbe di profondità teorica il concetto, va inteso piuttosto come morte di ciò da cui si dipartivano tutti i principi morali e teologici che accompagnavo l’esistenza umana.

L’evento in questione non è un evento isolato nella sua morfologia, ma rappresenta un evento la cui manifestazione affonda le sue radici in un processo che, per dirla con Fernand Braudel, verrebbe definito “di lunga durata”. Il folle, parlando alla massa, denunzia un agire cumulativo degli individui che in fine ha portato il mondo al crollo di qualsiasi morale. Questa condizione esistenziale dell’individuo, ha portato – nello sviluppo teorico del concetto – il Nietzsche verso quello che poi sarà definito come “nichilismo passivo”. Quest’ultimo rappresenta il nulla nullificante dell’essere, tutto diventa concezione del nulla e i valori che precedentemente al crollo erano strutturali per una razionalità esistenziale adesso sono affondati nel nulla. È proprio il nichilismo che, nell’assoluto crollo, darà vita a quella tipologia di individuo adatta all’affrontare una dinamica esistenziale tale da poter rinascere e vivere il “nuovo” mondo di valori da ritrovare, quest’individuo si sintetizza nella figura del “superuomo”. Quest’ultimo è colui che sopravvive di fronte alla tempesta di un mondo che nella crisi – o apocalisse, intendendola come un qualcosa che porta ad un nuovo inizio – distrugge tutto ciò che nelle categorie interpretative dell’essere era stato normalizzato.

Questo è il quadro teorico su cui si basa questo concetto determinante per l’epoca in cui Nietzsche viveva, un quadro teorico che tratta i segni somatici e caratteristici di un’epoca di totale crollo psico-culturale. Emblematiche sono state le parole dette da Albert Camus, riferendosi al filosofo tedesco, in quell’altrettanto critico ed importante libro che fu L’uomo in rivolta (1981):

“[…]A suo modo, ha scritto il “Discorso del metodo” del proprio tempo, senza la libertà e l’esattezza di quel Seicento francese che tanto ammirava, ma con la folle lucidità che caratterizza il ventesimo secolo, secolo del genio, secondo lui.”

Jackson Pollock, Alchimia, 1947

Nietzsche diede, dall’alto della sua consapevolezza che lo rendeva quasi come un deviante razionale di fronte ad un mondo che non scorgeva la realtà fattuale della propria condizione, un modo per comprendere che bisognava trarre spunto da quella fatidica morte, per dar vita ad un mondo in cui le nuove credenze normalizzassero nuove strutture psichiche migliori e in grado di creare una nuova razionalità che salvaguardi l’individuo e continui a proteggerlo nella sua precarietà esistenziale.

Delineato, per brevi cenni, il quadro teorico e concettuale del senso della morte di Dio, bisogna – in virtù di un’immortalità del concetto, lontana da ogni storicismo – comprendere, oggi, quale sia il motivo per cui questo Dio valoriale continua a morire. Vi è, per certo, una grande componente soggettiva all’interno dell’interpretazione che se ne potrebbe dare, ma questo non ci priva di immolarci all’interno di un itinerario che possa dar senso e significato ad un’attualizzazione del concetto in sé. Uno degli aspetti più contraddittori del nostro tempo e sistema è rappresentato dalla totale assenza di un agire collettivo, nel senso che l’eccessivo individualismo che muove l’uomo lo porta a scorgere nel suo altro un nemico. Hobbes e la sua massima “homo homini lupus” trovano un profondo attecchimento nell’identità del sistema sociale e globale che ci riguarda in quanto mondo. Questo mondo appare come totalmente avvolto nel nulla. I valori che rientrano all’interno degli schemi interpretativi della realtà sono rappresentati dalla totale assenza di sostanza strutturale, dal culto del corpo e dell’estetica svilito attraverso Instagram e Facebook sino ad arrivare a cose più drastiche come il non capire che un cinese è pur sempre una persona e non l’incarnazione letale del coronavirus.

Oggi, la realtà, la si interpreta attraverso la superficialità e in questa si struttura una pericolosa relazione interiore con il sé e con l’Altro, che per l’appunto diventa un implicito nemico poiché ipotetico ostacolo del mio individualismo sfrenato e spasmodico. Dunque, se il sistema presenta questi esempi di contraddizione, che tra l’altro rappresentano una degenerazione di un sistema già precedentemente contraddittorio (se no come saremmo arrivati al nichilismo?), chi è che gli resiste veramente? Chi è colui che vive in contrapposizione adesso? Chi è che non si omologa? Il tema non è l’omologazione e la sua negatività, poiché anch’essa è soggetta alla storia e ai cambiamenti dato che si struttura su dei modelli normalizzati, ma il tema in questione è il come riuscire a contrastare un nichilismo che viene alimentato continuamente.

Albert Camus, nell’opera sopracitata, L’uomo in rivolta, parla della figura di quest’uomo inteso come un individuo capace di sovvertire le logiche normalizzate che trascendono l’intenzionalità e portano all’omologazione. L’uomo in rivolta, diventa dunque, il vessillo metaforico di chi resiste e di chi sovverte attraverso il movimento in direzione opposta. Dunque parlare, oggi, di morte di Dio nel senso solamente religioso ha un senso, ma parlarne in termini di schemi valoriali generali acquisisce un significato più profondo, nel senso che abbraccia totalmente tutti sotto il punto di vista delle varie sfere esistenziali. L’uomo è in rivolta nel momento in cui nega ciò che è determinato come assoluto, come afferma il Camus citando il marchese De Sade di Sodoma e Gomorra, ma potremmo continuare a cercare nella storia altri simboli di questa rivolta contro un sistema che si fa assoluto, arrivando fino al Novecento con Antonio Gramsci e Pier Paolo Pasolini.

Ma la rivolta non è soltanto un concetto che si ferma al contestare, ma essa porta in sé il vero senso che si racchiude all’interno di un’intenzionalità che basa le sue fondamenta sul voler trasformare e cambiare, cioè l’uomo in rivolta è colui che, come il Sade, il Gramsci o il Pasolini, ha saputo rivoltarsi contro un sistema costituito sapendo di mettere in pericolo il suo tutto. Ed è in questo preciso punto concettuale che Camus e Nietzsche si incontrano, poiché l’uomo in rivolta prospettato e delineato da Camus diventa quel superuomo che in Nietzsche rappresenta il simbolo assoluto di ciò che definisce “nichilismo attivo” in contrapposizione al nulla cosmico definito come “nichilismo passivo”.

L’attivismo nichilista viene, dunque, caratterizzato da uno smascheramento determinante dei falsi valori esposti e prefigurati come verità assolute, generando sé individuali (o collettivi nel momento in cui vi è condivisione generale di un’idea) in grado di adattarsi ad un cambiamento, non imposto, ma bensì messo in moto da essi stessi.

Pertanto, sulla scia di una dimensione che presuppone la coesistenza degli araldi rispettivi di un nichilismo passivo e attivo, bisogna tener a mente, nell’assurdità totale che muove le coscienze degli uomini, divisi tra chi è inebriato dal mito distorto del libero arbitrio che legittima ogni azione e chi invece si definisce un ateo materialista con il solo scopo dell’accumulo di denaro, che il nostro mondo, la nostra pedagogia sociale, ha già varcato la soglia del “legittimo” da tempo immemore. Il prevaricare sugli altri, il futuro incerto, la professionalizzazione di ciò che viene concepito come impiego “utile”, il promuovere le differenze etniche con forme sinistre di razzismo, la guerra come costante lotta tra le religioni che sembra non essersi mai estinta, un Papa che all’interno del suo compito fa obliquamente politica, il femminismo che sta ri-nascendo sotto forma di tabù sociale implicando dentro di sé un’idea totalitaria di movimento, un ritorno – per larghe linee velate – a forme di repressione nei confronti dei soggetti percepiti come “devianti”, l’assoluta e pervasiva deriva della tecnologia imperante, le giornate della memoria veicolate secondo un preciso rituale politico, il denaro che diventa il Dio materiale di ogni individuo al fine di rincorrere l’unico scopo di accumularlo, il famoso contratto sociale dissolto nell’assoluta anarchia del potere, tutti elementi che vanno a costruire una torre “quasi” inespugnabile e incrollabile che diventa la reale morte di Dio in questo mondo che non può più aspettare il folle nietzschano, o qualsiasi altra figura dal profilo messianico, perché non si può più permettere di attendere e subire. Dunque, in un mondo così profondamente contraddittorio, ma allo stesso tempo così tremendamente connivente e profondamente pieno di interessi e lucri, bisogna ricordare un’espressione, dalla memoria cartesiana, del nostro Camus:

“Mi rivolto, dunque siamo”

Cover image: Jean-Michel Basquiat, Philistines (1982)

3 comments

  1. Gli dei possono morire ma possono anche rinascere. Dio (religioso) morì e fu sostituito da altri dei (denaro, celebrità…). Tutto dunque si riconduce a qualcosa che si può chiamare fede (possiamo dire che il capitalista ha fede nel denaro) che diventa scelta. Il superuomo quindi forse è colui che compie la SCELTA di fede. Quale sia la scelta giusta sfido chiunque a definirla ma 10000 anni (scusate l’imprecisione) di religioni/filosofie/scienze forse sono serviti a insegnarci (con tanti linguaggi e modi diversi) che di fondo c’è un qualcosa di paradossale, di impossibile e di irraggiungibile che ci tiene tutti uniti.

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