Gli youtubers: pregi e difetti nell’era del click selvaggio

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Nel corso della cerimonia di attribuzione di una laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei Media, nell’aula magna della Cavallerizza Reale di Torino, Umberto Eco affermò che «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Presa attraverso l’ormai consueto – e spesso mendace – principio della decontestualizzazione, questa affermazione può sembrare estremamente denigratoria e sociologicamente razzista. Per contro, se si considerano quelle parole con il prezioso bagaglio dell’attribuzione di senso derivante da un ragionamento lungimirante e privo di confini o paraocchi intellettuali – qualità sempre più sconosciuta ad un numero esponenzialmente crescente di persone – si comprenderà, non senza difficoltà ma, di certo, con risultati formativi, l’imprescindibile peso di una simile affermazione in un contesto estremamente vasto e, in tutta sincerità, più confuso che variegato.

Il bivio

La realtà oggettiva, collegabile in maniera diretta alla singola (e cruda) affermazione di Eco, è sotto gli occhi di tutti, malgrado equivalga – per quanto concerne il suo pericolosissimo lato negativo – alla conformazione ideologicamente mutabile del fatidico elefante nella stanza. La sterminata mole di blog, social network, applicazioni e quanto altro di usufruibile in via del tutto gratuita e nel più semplice e, al contempo, efficace dei modi (veramente chiunque riesce ad iscriversi a Facebook, sostanzialmente), ha condotto l’umanità intera al bivio che, inesorabilmente, divide il percorso esistenziale fin qui affrontato in due strade ben precise ma percorribili soltanto singolarmente: da una parte c’è il libero arbitrio regolato, però, da leggi non scritte e non percepibili se non dal proprio stesso sentirsi parte di una comunità mondiale basata comunque, per quanto tuttora possibile, su comportamenti e utilizzi del mezzo coscienziosamente appropriati al raggiungimento di uno scopo, magari non fruttifero ma preciso e rispettoso; dall’altra, su una strada, ahinoi, molto ma molto battuta, a imperare è la trasformazione delle pulsioni umane più primitive (e, quindi, anche bestiali nel vero senso della parola) in qualcosa di molto simile ad un manicomio a porte aperte mescolato al resto del mondo proprio grazie alla gratuità e alla semplicità di utilizzo. La grande domanda, dunque, non è più “chi siamo?” o “da dove veniamo?”, bensì “che strada scegliamo tra quelle due proposte sullo schermo del nostro personal computer?”.

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Tutta questa serie di considerazioni è entrata di diritto nella sfera delle constatazioni primarie per quanto riguarda una potenziale analisi dello stile di vita dell’essere umano odierno. Stando a ciò che si apprende dagli studi più disparati, quasi il 96% degli appartenenti alle nuove generazioni possiede un profilo su di un qualunque social network (studio “Net Children Go Mobile” finanziato dal Safer Internet Programme della Commissione Europea e pubblicato dall’OssCom di Università Cattolica, pubblicato su La Repubblica Affari & Finanza 25 maggio 2015). Si tratta di un dato talmente imponente in termini di interesse antropologico da costruire una nuova definizione generazionale riassumibile nella dicitura “Generazione Z”, ovvero quella costituita dai nativi digitali nati a partire dal 2001 e, quindi, successivi ai precedenti Baby Boomers (i figli del “boom” vissuti in un mondo diviso in due blocchi, nati tra il 1946 e il 1964), agli appartenenti alla ben nota Generazione X (la prima a non conoscere guerre “calde”, a vivere di persona la nascita e lo sviluppo dei computer e, purtroppo, anche la prima a dover fare i conti con Aids e droghe pesanti, composta da individui nati tra il 1965 e il 1980) e ai cosiddetti Millennials (i figli della caduta del muro di Berlino, dell’assenza di ideologie e di una precarietà sia lavorativa che esistenziale, nati tra il 1981 e il 2000).

Youtube tra social e professional

Nel corso del 2015, un sito di proporzioni a dir poco astronomiche come Youtube ha compiuto i suoi primi dieci anni di esistenza. Correva, infatti, il lontano 23 aprile 2005 quando compariva sulla ormai più nota piattaforma audiovisiva del mondo un video di soli 18 secondi intitolato Me at the zoo. Non proprio il massimo, insomma, dal punto di vista dell’utilità come anche da quello riguardante una certa dose di intelligenza sprigionabile a utilizzo altrui. In sostanza, niente di più che un semplice divertissement che si è tentato di condividere o anche solo di conservare su un database personale (il proprio canale) quasi in qualità di filmino di famiglia nella più totale inconsapevolezza dell’evoluzione che la ramificazione cibernetica della specie umana avrebbe subito da lì a qualche anno, fino a lasciarsi – il più delle volte – completamente assorbire da ciò che, invece, dovrebbe rappresentare il tanto sospirato concetto di “realtà aumentata”, ovvero un’utile estensione delle proprie possibilità comunicative (e non solo).

Operando come si è operato nel corso di dieci intensissimi anni di trasformazioni assolutamente radicali, però, non si è riusciti in altro se non nel trasformare una semplice piattaforma digitale in ciò che Jaron Lanier, nel suo illuminante saggio La dignità ai tempi di internet (Il Saggiatore, 2014), chiama “Server Sirena” in qualità di vero e proprio sistema di guadagno esponenziale costruito sull’illusione della gratuità (l’informazione – in questo caso il video che, nel frattempo, non è più o è ancora solo in minuscola parte il filmino di famiglia – trasformata in condivisione e non più intesa come fornitura retribuita) e della semplicità di utilizzo, un sistema che, per dirla in modo semplice, si fa letteralmente beffa della reale proprietà intellettuale di qualunque tipo di contenuto (salvo poi infierire su ben altro perché legato a direttive di marketing molto più estese).

Ancora una volta, e forse per tutte, il terribile bivio è di fronte a noi: ragione di utilizzo (e, quindi, anche pretesa di compenso, oltre che capacità di acquisizione di comportamenti consoni alla collettività) o completo asservimento al “cazzeggio” più becero, volgare e – purtroppo spesso e volentieri – criminale (quindi totale asservimento ad un progetto tecnologico rivolto alla creazione di una vera e propria economia alternativa che sfrutta le persone facendo credere loro di essere dotati di un talento a caso) attribuibile a quello che è ormai divenuto un vero e proprio social network che non fa uso solo di una semplice incorporazione di video ma che, per contro e in maniera parimenti redditizia, proprio sulla produzione di video provenienti da terzi fa leva per il suo continuo incremento di valore economico derivante da un indiscutibile narcisismo di un’utenza ignara o accondiscendente al proprio sfruttamento. La verità sulla potenziale utilità del mezzo, malgrado quest’ultima tristemente reale considerazione, sta esattamente al centro di tutta questa serie di consapevolezze e accondiscendenze.

Volgo hi-tech 2.0

Partiamo dalla deviazione “volgare” di quel bivio per puntualizzare su alcuni aspetti che darebbero, senza alcuna ombra di dubbio, completa ragione all’affermazione di Eco (che in definitiva, da questo punto di vista, è sempre stata anche la nostra).

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Da questa parte del bivio “youtuber” narcisista (con una triste e incontrastata estensione rivolta anche verso altre piattaforme di diffusione video come Dailymotion o Vimeo), mantenendoci sul territorio italiano come campo di studio, un caso patologicamente interessante risponde al nome dello sciacallo (per essere educati) e Andrea Dipré, vale a dire la perfetta incarnazione della più totale disumanizzazione di anima e corpo incentivata dalla gratuità e dalla semplicità di utilizzo del mezzo digitale, nonché riassumibile in produzioni video (reali o costruite che siano, ma ugualmente) contenenti raffigurazioni di strisce di cocaina sniffate dal cadavere di un’anonima ragazza o rivolte alla più blasfema demistificazione del concetto di Arte lasciato sprofondare agli infimi (e infami) livelli della più becera pornografia (anch’essa reale o costruita che sia). Ed ecco, allora, prendere piede (anche grazie allo sguinzagliamento operato da Diprè, vero e proprio talent scout delle bassezze umane) la triste fama di personaggi (che siano reali o costruiti anche loro non ha importanza) come Giuseppe Simone (colui che implora di ricevere in vita almeno “un chilo di vagina”), Rosario Muniz (quello che, nel limbo della sua indecisione di gender, è convinto di avere “la fica nel culo”, motivo per cui le discoteche italiane si sono subito affannate ad ingaggiarlo per serate all’insegna della sua hit single Succhiapulli), Peppe Fetish (un innocuo – per quanto a tratti estremo – feticista del piede trasformato in “trash star” per vera e propria circonvenzione di incapace), o come anche, purtroppo, semplici ragazzini inadatti al mondo dello spettacolo ma spinti a dimostrare chissà quale abilità sempre e solo grazie alla gratuità e alla semplicità di utilizzo della piattaforma Youtube come Laura Scimone o Gemma del sud, entrambe convinte showgirl o interpreti vocali, nella realtà persone con, purtroppo, forse anche gravi difficoltà di costruzione di una vita sociale. C’è, poi, anche chi fa della gratuità e della semplicità di utilizzo del mezzo un’ulteriore via di (eccessiva e irritante) evangelizzazione rispetto alla propria professione di fede: è il caso di Matteo Montesi, un semplice individuo solitario dall’italiano claudicante che se ne va in giro per ore e ore chissà dove a predicare il verbo di Gesù invocando l’Armageddon per l’assenza di morale nel mondo, spesso e volentieri anche urlando la parola evangelica nel mezzo di foreste o intonando canti sacri.

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Ed è qui, però, che entra in gioco qualcosa che sta nella perfetta via intermedia tra l’indiscutibile bravura tecnico-tematica e la derisione gratuita di terziChristian Ice, ad esempio, è un noto fonico e produttore romano reso celebre, ai più, dalla duratura collaborazione col gruppo “porno-rock” demenziale dei Prophilax che, tra le altre cose e grazie al suo abile tecnicismo, ha visto prosperare una serie di ridoppiaggi e riadattamenti video di pellicole di successo tra cui, su tutte, la parodia iperblasfema (ma paradossalmente più che divertente per tempi comici e inventiva, seppur estremamente dissacrante) di un Titanic che per l’occasione (manco a farlo apposta proprio nel 2005) si trasformò in Puttanic. Il buon Ice, ultimamente, si prende ampiamente gioco proprio di tutti i soggetti in precedenza elencati, con maggiori predisposizioni verso Matteo Montesi perché, più di altri, gli concede di sfogare in maniera creativa tutta la sua anticlericalità. Malgrado ci si basi su una sterminata mole di inadempienze psichiche, radicali divergenze ideologiche o sfruttamenti interpersonali per tramite audiovisivo gratuito (sia di utilizzo che di contenuto), dei video di Christian Ice è possibile ridere di gusto essendo trasportati da una vera e propria mareggiata intermedia tra la diffamante derisione di terzi e l’enorme perizia tecnica insita in vere e proprie ricostruzioni filmiche prossime, talvolta, anche al campo del videoclip (si prenda come esempio anche solo il video in cui Christian Ice riedita completamente un altro video in cui Montesi, sempre su Youtube, intonava il Symbolum 77 Tu sei la mia vita facendone una vera e propria cover heavy metal).

Un talento vero

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Superando questa sorta di anello di congiunzione tra l’indecenza e l’estro comico, inventivo o anche intellettuale e propositivo in termini di contenuti o proposte di contenuti, attraverso Youtube Italia si approda a sponde (o, pian piano, all’altra ramificazione della biforcazione post bivio) come quelle su cui dimora, ad esempio, Mario “Synergo” Palladino, già noto per la coppia di “gameplayer” denominata Quei Due Sul Server e, da qualche tempo, messosi anche in proprio a parlare di un certo tipo di cinema sul suo canale Youtube personale sotto la nomenclatura “Cose dell’altro cinema”. Proprio con Synergo si ha la piena consapevolezza del fatto che una piattaforma come Youtube può essere mirabilmente utile a dimostrare una propria particolare bravura, nel suo caso sia dal punto di vista tecnico (con video, grafica e quanto altro di simile lui ci lavora e vive quotidianamente) che affabulatore (specie dove riesce a rivoluzionare una concezione della produzione di video su Youtube assolutamente inutile come quella del “gameplay” – dove un individuo gioca ai videogame e si riprende mentre lo fa, né più né meno – in un dato comico praticamente irresistibile nel momento in cui, giocando ad un videogame come The sims 4 o iscrivendosi ad un sandbox online di massa come Minecraft, riesce a creare delle vere e proprie narrazioni perfettamente godibili come dei veri e propri film).

Quanto al suo canale personale dedicato alla sua primissima passione, ovvero il Cinema, anche in questo caso Synergo riesce ad essere magari non originalissimo ma assolutamente affascinante nel suo prediligere e recensire in video una vasta serie di film orrendi, i cosiddetti “zeta movies”, passati in rassegna in una maniera che coniuga la totale assenza qualitativa con il divertimento insito nella risata scaturita dalla bruttezza sprigionata da una certa seriosità con la quale il film orrendo si pone nei confronti dello spettatore. Il tutto, però, operato attraverso la produzione di videorecensioni e “vlog” (video blog) di alta qualità sia visiva che esplicativa.

Chi è lo “youtuber”?

Partendo dal perno di una netta distinzione tra chi fa di Youtube semplicemente un’estensione (quindi, ad esempio, una band che pubblica i suoi brani musicali per meglio diffonderli) e tra chi, invece, considera la piattaforma quasi come un surrogato (non per forza negativo) della propria professionalità (colui che, spesso e volentieri, spera di trasformare in professione ciò che fa a tempo perso), viene da chiedersi chi sia mai quello che, ad oggi, viene definito ufficialmente come “youtuber”.

Secondo Synergo, lo youtuber «non può essere classificato come una figura standard perché la gente approda sui canali di questo o di quell’altro soggetto per motivi anche molto differenti tra loro. Su Youtube troverai sia colui che si è aperto un canale perché ha delle idee e vuole in qualche modo metterle in pratica, sia l’individuo che, invece, ha aperto un canale per chissà quale motivo ma non riesce mai a prendere una qualunque direzione sensata. Secondo me – sostiene Synergo – lo youtuber attivo non è altro che un ragazzo dotato di un minimo di creatività che quindici anni fa non avrebbe potuto guardare ad altro se non a farsi le sue cose tra le mura della sua stanza e che oggi, invece, ha questo mezzo a disposizione per provare a mettersi in mostra in modo differente rispetto al passato».

Ma di quale creatività parliamo? È creatività quella insita nel mettersi, ad esempio, su Chatroulette e riprendersi mentre si interagisce a monosillabi e vagiti con un interlocutore a random dall’altra parte del pianeta? È creatività quella che si riscontra nel riprendersi mentre si gioca ad un videogame di ultima generazione senza saper dire nient’altro se non “whohaaa” o “yooooo” o “porcatroiaaaaa” nel corso della partita rinunciando, dunque, a fornire qualunque tipo di informazione tecnica o di più generico gradimento sul prodotto in questione? Sostanzialmente no. Decisamente no. Eppure c’è chi così facendo è arrivato ad arricchirsi – per il momento – di fama e soldi grazie a vari sponsor che hanno individuato in lui delle caratteristiche di intrattenimento differenti rispetto a quelle qualitativamente migliori detenute da altri, serie di elementi che fa di lui un vero e proprio personaggio venerato dai moderni adolescenti nativi digitali (vedi il caso di “Favij” il cui canale, “FavijTV”, è diventato addirittura un marchio registrato) in sostituzione di un qualunque nome di provenienza televisiva o cinematografica (con tanto di inviti a fiere del fumetto – o manifestazioni simili – che nulla hanno a che vedere con la categoria youtuber ma che, grazie alla presenza degli stessi youtuber più seguiti, riescono a vendere molti più biglietti del solito).

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Per Marco Farina, alias Farenz, uno dei pochi appassionati videoludici che, nei video prodotti per il proprio canale Youtube, si astengono decisamente dal praticare la più che inutile formula “gameplay” (fatta eccezione per le irresistibili dinamiche stabilite da Quei Due Sul Server) preferendo ad essa la struttura “vlog” ragionata – per quanto comunque ben costruita e divertente – se non proprio un blog a parte (“L’angolo di Farenz”), è proprio il forte rischio di una dilagante assenza di contenuti a fare dello youtuber «un personaggio alla moda, tutt’altro rispetto all’essere qualcuno volenteroso di condividere un’opinione su di un determinato argomento con l’obiettivo di interagire con l’utenza attraverso commenti e rispettive risposte capaci di rendere reale ciò che dovrebbe essere – ed è – il bello di una piattaforma come Youtube, ovvero la possibilità immediata della condivisione diretta di un’opinione e della conseguente nascita di un’eventuale discussione in merito».

A detta di Synergo, «approdai su Youtube quando ancora non era possibile monetizzare i video (usufruire, cioè, di un’applicazione che la piattaforma offre per trasformare il numero di visite ai propri video in denaro, malgrado le cifre siano fondamentalmente irrisorie se basate sui conteggi di Adsense e simili, quantificazioni edificabili dal momento che Youtube è stato acquisito da Google, ndr) semplicemente perché avevo creato alcune cose e, siccome vivo in Molise, per me non c’era l’effettiva possibilità di mostrare a chissà quante persone quello che avevo prodotto. Quindi ho buttato tutto in pasto alla rete affinché potessi sperare di trovare qualcuno desideroso di darmi il suo parere. Per me Youtube, quindi, è stata la prima possibilità di uscire fuori dalla mia stanza grazie alle mie produzioni».

Ma a proposito di monetizzazione, esiste un guadagno per chi fornisce contributi alla piattaforma Youtube o rientra tutto nelle dinamiche da social network per cui l’informazione è solo condivisione e non vi è traccia di proprietà intellettuale soggettiva?

«Un guadagno esiste eccome – sostiene Synergo. Da quando è entrato in gioco Google, Youtube è diventato, di fatto, una televisione. Tramite gli ingressi pubblicitari, Youtube, in qualche modo, paga. Certo, siamo ben lontani dal guadagno capace di offrirti un sostentamento ma, se non altro, se riesci a fare un buon numero di visualizzazioni fornendo un po’ di qualità, riesci comunque a rifornirti di materiale tecnico utile a fare le tue cose sempre un pochino meglio. Non bisogna credere che se si sfonda su Youtube si sfonda nella vita. Credo che il modo più intelligente di essere youtuber sia quello mirato ad affrontare la cosa a cuor leggero: se cazzeggio alcune ore al giorno per fare cose che comunque farei o come lavoro o nel tempo libero, non vengo divorato dai sensi di colpa dovuti alla consapevolezza di perdere tempo prezioso utile a cercare un lavoro vero».

Di avviso più drastico sul concetto di monetizzazione sostenibile è Farenz: «Non vivrai mai grazie al tuo canale Youtube, non lo puoi affatto considerare un lavoro. Nonostante io monetizzi i miei video da quasi cinque anni a questa parte, non ho mai capito su cosa si basano i conteggi e comunque non sono mai riuscito a tirar su più di qualche decina di euro al mese. So solo che con quello che riesco a guadagnare dal mio canale Youtube non ci potrei vivere nemmeno due giorni. Sfido chiunque a trovare qualcuno che, invece, coi suoi video su Youtube guadagna bene senza bisogno di sponsor esterni. A livello di Youtube Italia, non credo si tratti di più di dieci persone. Un conto è mettersi in gioco divertendosi e facendo divertire, un conto è avere intenzione di buttarsi in questa cosa a rotta di collo con l’intenzione di farne una professione: la prima ipotesi è fattibilissima e ci siamo dentro praticamente tutti; la seconda è semplicemente follia».

Stabilire un contatto

Siamo di fronte, insomma, a semplici passioni che restano tali e semplici passioni similari che, grazie a una certa dose di qualità produttiva, emergono dal marasma e riescono a crearsi addirittura un seguito di pubblico che arriverà a colmare buchi di incasso (azione prossima a una sorta di sfruttamento sorridente, per certi versi) con la scusa della presenza del proprio moderno beniamino a questa o quella fiera in cambio di modesti contributi economici.

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Proprio il dato economico rientra a pieno titolo laddove, come si diceva in precedenza, Youtube è ormai diventato una televisione e gli youtuber le star del caso. Con una differenza sociologicamente basilare, pero: «Trent’anni fa – afferma Farenz – era chi parlava in televisione ad offrirti intrattenimento. Oggi, dalla televisione si è spostato tutto sul web. Il modo di vedere lo youtuber oggi non è dissimile da come veniva visto, ad esempio, Gerry Scotti negli anni ’80 e ’90. C’è però una differenza sostanziale tra le due cose: mentre, all’epoca, la televisione era – ed è tuttora – qualcosa che resta comunque distante dall’individuo, il web – e Youtube nello specifico – ti consente di servirti del suo formato “social” per entrare in contatto diretto con la persona che stai seguendo attraverso uno schermo, fino a conoscerla personalmente in quelle occasioni di ritrovo perché, in fin dei conti, si tratterà sempre e comunque di un ragazzo come te, non di un professionista di chissà quale star system con autista e guardia del corpo».

È un fatto assodato che Youtube, rispetto alla televisione, gode di una grande libertà sia di fruizione che di produzione. Soprattutto dal lato della fruizione, Youtube è un perfetto esecutore – se non proprio il fulcro di diffusione – di ciò che oggi si riversa, in parte, nella “tv on demand” o in qualsiasi altra forma di libertà ricettiva (comunque controllata) lasciata tra le mani dell’utente. Youtube può fornire davvero qualunque tipo di contenuto – dal più becero, volgare e criminale al più intelligente e potenzialmente utile – in favore di chiunque voglia ricercare un qualunque tipo di argomentazione o, semplicemente, svago passatempo. Se emergerà, in un dato momento, questo o quell’altro contenuto proveniente da questo o quell’altro youtuber, dipenderà tanto dal gradimento complessivo (il cui quoziente intellettivo può comunque variare di alcune decine di punti in andirivieni tra un contenuto e un altro) quanto – in alcune realtà soprattutto – dal contesto social in cui una piattaforma come Youtube è inserita, secondo le cui dinamiche, in sostanza, non è bello ciò che piace ma è bello ciò che “spammi” (voce del verbo “spammare”, terminologia molto spesso utilizzata in sostituzione di “moda” o “trend” imposto da dinamiche di indicizzazione).

In ogni caso, Youtube offre contenuti che non passano attraverso i normali network televisivi, per quanto multiformi e variegati essi possano essere (esistono canali unicamente basati su vlog o gameplay?), e che quindi non soffrono, in un modo o nell’altro, di particolari limitazioni di creatività non essendoci uno share prestabilito da valutare (motivo per cui proprio la televisione – come anche il cinema – sta cominciando a servirsi di molti youtuber per diminuire drasticamente le spese di retribuzione del personale, ottenendo un considerevole seguito grazie ai tanti seguaci che uno youtuber affermato, indirettamente, trasforma in spettatori).

Recuperare il dibattito

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Un fattore positivo che può emergere da tutte queste considerazioni sul contesto comunicazionale offerto da una piattaforma come Youtube, in sostanza, è una sorta di fattore di rinascita, se vogliamo, per il concetto di dibattito (ovviamente nei limiti del potabile, cioè ben al di fuori di ogni volgarissima dinamica da “troll”, tanto per intendersi). Secondo Synergo, è estremamente importante la possibilità di ricevere, in questa specifica realtà, «una risposta immediata alle opinioni proposte in video. Il potere che il mezzo acquisisce nel riuscire ad annullare la distanza tra la fruizione di un video e la risposta del pubblico è il fulcro della creazione di una rete infinita di opinioni che vanno ad incastrarsi tra loro. Certo, uno youtuber affermato non riesce mai a tenere sempre sotto controllo gli svariati messaggi che riceve anche su video molto vecchi, però il bello sta nel fatto che, proprio a partire da uno spunto che tu hai lanciato senza aspettare il consenso di nessun autore o produttore televisivo, tanta gente pensa a quello che hai detto e ha voglia di rispondere».

La televisione del nuovo millennio

Youtube, insomma, al di là di un pur sempre vivo e sterminato oceano di spazzatura pura e indefinibile, potrebbe anche essere inteso come la vera televisione del nuovo millennio? Probabilmente sì se andiamo ad esplorare anche altri fattori di utilizzo della piattaforma che non mettono in campo necessariamente ciò che interessa unicamente alle nuove generazioni se non per certi aspetti comunque similari a quanto espresso finora.

Ad esempio, chi di Youtube se ne serve più come estensione che come surrogato, ovvero appartenente a una tipologia di youtuber che non si definisce tale perché utilizza il mezzo come, per l’appunto, estensione dialettica e liberamente ideologica di ciò che già è – dunque non come strumento per mettersi in mostra divenendo qualcosa o qualcuno – è lo scrittore siciliano, ma romano di adozione, Fulvio Abbate, detentore di un canale da lui stesso definito come “televisione monolocale” (con tanto di libro pubblicato al seguito, Manuale italiano di sopravvivenza. Come fare una televisione monolocale e vivere felici in un paese perduto, Cooper 2010), vale a dire Teledurruti (che, tra l’altro, gli è valso addirittura il Premio Satira Politica 2013; Teledurruti è stata chiusa, ma Abbate ha aperto un canale simile: Pack).

È stato possibile, tempo fa, incontrare Fulvio un paio di volte a breve distanza grazie alla sua più che cordiale e amichevole gentilezza derivante, più di tutto, dal sempre sveglio desiderio di conversazione incentrato davvero su qualunque tipologia di argomento con qualunque compagnia capiti al suo fianco. Oltre alla comune e intima passione per la mente e la persona di Pier Paolo Pasolini, da sempre il sottoscritto è colpito dal suo modo di relazionarsi con la particolare (in verità misera) realtà genericamente culturale che è possibile vivere al giorno d’oggi in Italia.

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Affrontando ogni tipo di argomentazione riconducibile all’ambito culturale italiano odierno, dunque, Abbate riesce a sorvolare ogni dato di fatto tangibile per trasformarlo drasticamente in soluzione fantastica, libera da ogni convenzione morale o semiotica eppure riconducibile a un modo di trascorrere la propria stessa esistenza assolutamente fattibile e condivisibile, tanto nel nonsense più deliberatamente surrealista (Abbate è anche un grande esperto di Arte Contemporanea) quanto nel semplice (che proprio semplice non è mai) sguinzagliamento dell’ironia più feroce (non sono un caso le tante partecipazioni alla nota trasmissione di Rai Tre “Blob”).

Mentre si riflette sul fatto che proprio Abbate è stato uno tra i primi a rispondere (tra l’altro creativamente) alla provocazione iniziale di Eco («I social media ci sono, sono una realtà. Punto. Hanno sostituito quello che un tempo era il muro del cesso dove uno andava a scrivere “Caterina è la più bella”. Un tempo lo facevi sul muro del cesso del vespasiano pubblico, adesso hai la possibilità di farlo sui social»; fonte intelligonews.it), riaffiora alla mente uno di quegli incontri in cui prevalse il piacere di passare con lui una bellissima mattinata al tavolino di una nota pasticceria di Monteverde Vecchio, a due passi dalla storica abitazione proprio di Pasolini (che della televisione, per certi versi, voleva fare cartastraccia e a ragione). Proprio in quel frangente, Fulvio confessò la fierezza che il canale Youtube Teledurruti gli regalava nel «mostrare tutta la mia intelligenza e tutta la mia idiozia allo stesso tempo. Posso parlare di tutto perché Teledurruti è invettiva, commento ma anche un laboratorio espressivo che il Premio Satira Politica ha legittimato come figlio delle Avanguardie, del Surrealismo».

Nel suo libro sopra citato, Abbate elogia le possibilità offerte dalla rete e, nello specifico, da Youtube in quanto mezzo capace di «regalare a se stessi una vera emittente in tempi di orrore mediatico, povertà di idee, ma anche censura esplicita, dichiarata, ringhiosa e non più implicita nel suo cinismo» al fine di raggiungere quel grado di legittimazione non per forza unicamente individuale in quanto anche «soddisfazione umana e addirittura sessuale, forse perfino politica». Secondo Abbate, inoltre, la possibilità di non scadere in un certo onanismo intellettualoide e, di conseguenza, la garanzia di godere di un pur minimo quoziente di gradimento spettatoriale esiste automaticamente laddove «in tempo di assenza di autentica immaginazione, basta un po’ di libertà allo stato puro, gassoso, per trovare sostenitori di ogni tipo e grado».

Una nuova “window”

Il versante specificamente televisivo di una piattaforma come Youtube, però, trova forse il suo sbocco più popolare – ma non per questo meno avanguardistico – a livello di intrattenimento a suon di fiction grazie a quella che si potrebbe quasi definire come un’ulteriore ramificazione coniugabile al cosiddetto “sistema delle windows” distributivo che – in un certo senso e almeno fino ad ora – regola i vari step dell’offerta disponibile in termini di spettacolo audiovisivo. Laddove «esiste una sequenza temporale che stabilisce una sorta di gerarchia fra i vari canali […] che vede al primo posto la sala cinematografica, seguita dall’home video e poi via via da una serie di “finestre” che si aprono e si chiudono (o restano aperte) nel tempo a seconda dei canali di diffusione esistenti» (A. Pasquale, Investire nel cinema, Gruppo24Ore, 2012), una piattaforma come Youtube può arrivare a rivoluzionare la catena distributiva in maniera radicale se considerata in favore principalmente degli emergenti meritevoli (ovvero la fetta degli aventi diritto alla produzione e al caricamento video – vale a dire il mondo intero – che effettivamente è capace di offrire alla visione produzioni di qualità).

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Più che in quello cinematografico – che comunque ha le stesse possibilità di sbocco qualitativo – nel campo recentemente più battuto dalle produzioni mondiali e più frequentato dall’utenza internazionale, vale a dire quello dei serial televisivi (ambito creativo che, è evidente, permette di sperimentare linguaggi narrativi e visivi molto più di quanto riescano a concedere le produzioni cinematografiche più indipendentemente sperimentali e avanguardistiche), si sono riversate moltissime personalità effettivamente capaci di gestire linguaggi tecnici e narrativi di tutto rispetto e pregni di idee originali.

Al di là delle soluzioni comiche di ben più ampio e garantito raggio d’azione (soprattutto nella contemporaneità, l’individuo medio cerca sempre prima la risata spensierata della riflessione), quale network televisivo avrebbe mai investito mezzo centesimo, ad esempio, per la produzione o anche solo la diffusione di una serie televisiva, a metà strada fra il thriller e il drammatico, in cui i protagonisti sono esclusivamente un ragazzo e un orsacchiotto di peluche rinchiusi in un seminterrato mentre fuori sembra essere esplosa un’epidemia di rabbia assassina? È esattamente quello che ha messo in tavola di recente il giovane regista piemonese Vittorio Gazzera per la sua prima web serie autoprodotta Bunker, vincitrice di tre premi ai Roma Web Awards 2015 come miglior locandina, miglior fotografia e migliori cliffhangers, e sulla quale il sottoscritto ha anche una piccola esperienza diretta avendo fornito due brani in contributo alla colonna sonora (nominata al Miami Web Fest 2015), con il duo di elettronica ambient Agate Rollings.

Tutte le dodici puntate di Bunker sono estremamente cosparse di ammirevole suspense e tensione, nonché di un continuo andirivieni tra psicologia e filosofia assolutamente degno delle migliori intuizioni analitiche lynchiane. Eppure, almeno per il momento, non vedrete mai una cosa del genere sullo schermo del vostro televisore, neanche ora che il campo seriale dei network internazionali più disparati è ancora più libero di quanto non lo fosse stato già in precedenza.

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«Dal momento che davvero chiunque può piazzare un suo canale su Youtube – afferma Gazzera – nella maggior parte dei casi le serie create per il web sono amatoriali, quindi spesso dotate di una qualità molto bassa per via dell’assenza di una produzione che garantisca un certo budget monetario. Ma tutto dipende anche da come e quanto ci si impegna nel fare ciò che si vuole fare. Personalmente, anche senza soldi, ce la metto tutta per cercare di portare nelle mie produzioni online esattamente lo stesso impegno e lo stesso sacrificio che impiegherei se dovessi lavorare ad un film o con un network televisivo. La differenza sostanziale, quindi, è qualitativa. Almeno in Italia, Youtube, per una buona percentuale dei casi, è visto ancora come un gioco o un passatempo e non come una vera e propria vetrina professionale. Il più delle volte, poi, si preferisce usarlo più come trampolino di lancio per approdare in televisione o al cinema che come mezzo di espressione autonoma e alternativa. Sul lungo periodo, questo è un errore perché si finisce per uniformarsi e non distinguersi dal contesto televisivo che, in sostanza, non ha più grandi idee da offrire».

Quanto alla risposta dell’utenza Youtube nel campo delle web series ma non solo, Gazzera puntualizza sul fatto che, se da una parte ci si deve sempre e comunque confrontare con un marasma sterminato di produzioni che penalizza moltissimo le possibilità di visualizzazione dei propri video, dall’altra – malgrado si debba necessariamente diventare “virali” o avere delle agenzie di sponsorizzazione alle spalle (quindi soldi da investire) per scalare un po’ di più la marmaglia globale – il fattore qualitativo diventa necessariamente un elemento preponderante nel momento in cui, reiterandosi, riesce a trasformarsi in garanzia per una serie di utenti che, facendo affidamento proprio su di esso in relazione, ovviamente, ai propri gusti generali, troverà fiducia nella novità del prodotto incontrato per strada, offrendogli considerazione e feedback.

«Credo che il boom delle piattaforme online come Youtube sia prima tecnologico e poi culturale – sostiene Gazzera – Gli artisti più capaci, in qualche modo, se ne sono accorti e hanno cominciato a considerare questo potenziale come una direzione proficua per il proprio lavoro. Dati alla mano, oggi la gente passa più tempo su Youtube che davanti ad un televisore, trasformandosi automaticamente in una fetta di mercato che, qualora si riesca ad intercettare, porterebbe anche un certo profitto». Da questo punto di vista, una conferma potrebbe arrivare da un’ulteriore piattaforma come Netflix se non ci si limitasse esclusivamente al potenziale riscontro economico (le speranze di una soluzione veramente plausibile, ad ogni modo, sono veramente poche se di mezzo ci sono Telecom e il quoziente intellettivo della grande imprenditoria italiana).

Una conclusione

Alla luce di quanto fin qui valutato, dunque, si può constatare l’effettiva efficienza di una piattaforma di utenza planetaria come Youtube a patto che venga messa al bando (il modo c’è, basta andare seriamente a stanare i veri criminali della rete, non chi usa trenta secondi di un brano musicale qualunque per un minimo di sottofondo ad un suo video) la vera sporcizia digitale che purtroppo, il più delle volte, è anche tangibile a livello fisico se non proprio profondamente umano. Ma siccome tanto, se non tutto, dipende dalla conformazione intellettiva dell’utenza (non si spiega il successo dei vari Diprè e soci, così come anche dei Favij di turno – che su certi versi dimorano quasi sullo stesso livello, chi vuole intendere intenda – se non andando a studiare antropologicamente l’evoluzione della psiche umana residente nello stivale), chi è davvero l’utente medio di Youtube? È una persona dotata di idee, gusti e opinioni competitive nell’arduo territorio – sempre più in estinzione – del progredire intellettuale tricolore? O è semplicemente colui che, dopo una qualunque tipologia di giornata lavorativa, desidera esclusivamente accendere il computer e godersi ciò che di più spensierato e non per forza utile (ma di intrattenimento) gli passa il convento?

Su questo ci sarebbe da studiare e stendere ulteriori trattati ben più approfonditi in sede sociologica e (ora e per sempre) antropologica. Per il momento, ci basti riflettere su ciò che di recente ha affermato il caro vecchio Zygmunt Bauman sulla scia della sua tangibilissima considerazione “liquida” della realtà odierna: «L’identità scelta deve essere “messa sul mercato” per “trovare il suo valore”. L’identità progettata ed esibita (come anche recepita e condivisa, ndr) che non trova e non crea una sua clientela è punita con l’esclusione […] che è l’equivalente sociale del bidone dei rifiuti. I “più talentuosi” sono quelli con più contatti, sia sui social network, nonché sui loro blog personali che sono già più di settanta milioni e diventano sempre più numerosi. […] “Identità allargata” significa soprattutto una più ampia esposizione: più gente da guardare e da cui essere guardati (utenti di internet / banda larga), un maggior numero di appassionati di internet stimolati / eccitati / divertiti da ciò che vedono, e sollecitati a tal punto da voler condividere l’evento con i loro contatti. Tutti sanno bene che la probabilità di diventare famosi attraverso un blog personale è di poco superiore alla probabilità che una palla di neve resista al caldo dell’inferno, ma tutti sanno anche che la probabilità di vincere alla lotteria senza comperare un biglietto è zero» (La Repubblica, 21 maggio 2015).

Articolo pubblicato originariamente su La Seconda Visione e concesso ad Auralcrave per la ripubblicazione.

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