L’ultimo Metrò: François Truffaut, il Nazismo e l’infanzia ritrovata

Questo articolo racconta il film L’ultimo Metrò di François Truffaut in un formato che intende essere più di una semplice recensione: lo scopo è andare oltre il significato del film e fornire una analisi e una spiegazione delle idee e delle dinamiche che hanno dato vita alla pellicola.

Molte sono state le opere ispirate dalla occupazione tedesca nell’Europa occidentale, anche perché è risultato ai fini del Novecento (secolo che ancora non ha trovato per intensità un suo degno erede) l’evento cardine di molte conquiste nate in seguito alla fine di una dittatura sanguinaria. E c’è chi come il regista parigino François Truffaut, ne L’ultimo Metrò, ha addirittura assaporato la propria fanciullezza durante l’occupazione della sua città natale.

Immaginare una vita spensierata e piena di giochi durante un conflitto mondiale deve essere risultato alquanto complicato, ma si sa, l’immaginario delle nostre sinapsi può addirittura provare una sorta di nostalgia, anche di un evento nefasto. Il romanticismo, dovuto alla “Resistenza” contro un nemico comune e cattivissimo è certamente un forte carburante di emotività, e che cosa, se non l’arte rappresenta di più questa forma di combustibile?

The Last Metro / Le Dernier Métro (1980) - Trailer English Subs

Il magnifico tocco del regista si percepisce anche nei piccoli dettagli, con una ricostruzione storica certosina, che ci dona la routine della vita parigina con una vivida prospettiva anche sulle musiche ascoltate dalla città durante i quattro anni di giogo nazista. La teatralità dei personaggi, contribuisce a rendere la storia ancora più intensa, con i protagonisti che sono delle vere e proprie istituzioni del cinema francese e continentale: una Catherine Deneuve in stato di grazia ed icona di un’eterea bellezza, capace di rendere ogni sua azione ammirabile, e lo scontroso e rude Gérard Depardieu, che in quanto a modi, potrebbe anche ricordare l’Olmo Dalcò di Bertolucciana memoria.

Il lungometraggio rappresenta la duologia di Truffaut, che comprende Effetto Notte del Settantatré e per l’appunto L’Ultimo Metrò, il primo un omaggio alla settima arte, ed il seguito al teatro. L’ultimo film e terzo della saga avrebbe dovuto concludere gli omaggi al mondo dello spettacolo, e sarebbe stato dedicato alla “Music hall”, ma purtroppo non fu mai realizzato.

È certo che la poesia che attraversa l’intera pellicola custodisce in sé un’aura quasi mitologica e poetica, nonostante sia stato girato “solo” nel 1980. Anche se con qualche licenza registica in alcune ricostruzioni, è emblematica la scena in cui una madre lava il capo del figlio, subito dopo che un soldato nazista gliel’ha accarezzato, episodio realmente successo al piccolo François, solo che nel suo caso il gesto lo aveva compiuto la nonna.

La pellicola toccò talmente tanto il cuore della Francia, che raccolse una infinità di riconoscimenti, addirittura dieci premi César, mettendo in risalto – nonostante la guerra – il teatro e la sua complessità, edificato su contrappesi fragili e sognanti. Così come nell’assedio di Leningrado (oggi San Pietroburgo) i cittadini per quanto possibile continuarono a frequentare teatri e biblioteche al posto di rinchiudersi in casa, questo aggrapparsi in modo sfacciato alla vita ha certamente contribuito alla resa del Terzo Reich, anche se nel caso francese il coprifuoco partiva dalle 20.30: da lì l’ultimo appuntamento per prendere l’agognato metrò che avrebbe evitato rogne con la Gestapo.

Il piccolo Thèatre de Montmatre, intento ad apparecchiare una commedia norvegese dal titolo “La scomparsa”, rappresenta a suo modo il guardare oltre le avversità, con il direttore che è stato costretto a nascondersi per via della sua nazionalità, ma che grazie alla moglie e alla commedia in cantiere resiste impunemente al tiro mancino che la vita gli ha riservato. Forse in questo personaggio potrebbe rispecchiarsi il Truffaut stesso, nella fase finale della sua vita e della sua carriera, in un turbinio di trasporto personale.

I diversi livelli emozionali creati dal regista affluiscono in una bolla fugace, retta da un ossimoro che riguarda la realtà rappresentata dalla guerra ed il confortante infingimento dato dal teatro. La perdita di aderenza amorosa della coraggiosa Marion Steiner non viene quasi mai percepito come un vero tradimento, ma come una sottigliezza emotiva, lontana anni luce dal triangolo amoroso di Jules & Jim, dove Jeanne Moreau risulta a tratti decisamente eccessiva ed instabile. La sceneggiatura, scritta a quattro mani dallo stesso Truffaut e dalla sua collaboratrice Suzanne Schiffman, è la perfetta amalgama tra commedia e dramma, che viene risaltata dalle musiche di Georges Delerue, e da una fascinosa fotografia curata dal catalano Néstor Almendros.

La ricostruzione sentimentale adoperata dal regista parigino, che da ragazzino, appena poteva si intrufolava in un cinema per imparare le battute delle pellicole a memoria, e che ricorda vagamente il nostro Salvatore Cascio nel film premio Oscar di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso, riordina le emotività personali anche grazie a racconti di parenti ed amici che hanno vissuto da adulti il nazismo ed i campi di concentramento, dagli articoli di giornale, e addirittura da registrazioni di trasmissioni radiofoniche. L’opera riesce a scomodare anche Jean Paul Sartre con il suo saggio sulla questione ebraica, che parla del “doppio nazismo” che racchiude nella stessa cerchia omosessuali ed ebrei, ed omaggia Hitchcock ed il suo film Omicidio!, ricordando a tutti che nonostante il dramma, si tratta pur sempre di teatro.

Solo pochi altri registi sono stati in grado di reggere il confronto con questo genio assoluto del cinema francese: l’avanguardia cinematografica, fomentata da l’esistenzialismo sartriano (che ebbe esponenti di spicco anche in Italia e Germania, basti pensare a Bertolucci e Fassbinder), è riuscita a ricostruire un tessuto ed una poetica ispirata anche alla coscienza di classe, oggi del tutto cancellata dalla poca voglia di approfondire quello che è stato il Novecento per l’essere umano. Il congedo ideale di un secolo così feroce e pieno di contraddizioni, ma puramente reale e pregno di innumerevole vitalità artistica e sociale.

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