Il caso dei 5 di Central Park: la vera storia di When They See Us

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La serie When They See Us, uscita su Netflix nel Maggio 2019, ha avuto il merito di rispolverare una vecchia storia di cronaca nera statunitense che non tutti ricordavano, sollevandone nuovamente i dubbi e i sospetti che per anni sono girati intorno al funzionamento della giustizia. È stato definito come uno dei casi giuridici con la maggiore visibilità di tutti gli anni ’90, il verdetto ha fatto clamore e gli effetti sulle vite dei condannati sono durati a lungo. Cinque giovani furono condannati a lunghi periodi di detenzione, per poi essere scagionati da ogni accusa oltre dieci anni dopo. Eppure per molti i dubbi ancora restano.

Ripercorriamo quanto successo durante l’intera vicenda, dalla notte in cui sono accaduti i fatti fino al presente.


I fatti

La notte del 19 Aprile 1989 una serie di atti criminali sono avvenuti nel Central Park di New York. Un gruppo di oltre 30 teenager provenienti da Harlem hanno compiuto atti vandalici e aggressioni nei confronti di normali cittadini che passeggiavano nel parco. Sempre all’interno del parco, in un luogo più lontano, avvenne il delitto più grave: una donna di 28 anni di nome Trisha Meili venne aggredita, stuprata e lasciata sanguinante per terra. Venne ritrovata oltre quattro ore dopo e rimase in coma per quasi due settimane, prima di riprendere conoscenza.

Quella notte – e i giorni successivi – la polizia effettuò diversi arresti. I ragazzi arrestati erano tutti neri o ispanici di Harlem. Tutti facevano parte del gruppo esteso che effettuò le aggressioni. Ma risalire al colpevole dello stupro di Trisha si dimostrò ben più complicato.


Le indagini

Per capire il modo in cui si sono evolute le indagini per lo stupro bisogna tenere conto del contesto: New York era stata colpita da una forte ondata di crimini sessuali che avevano riscosso l’attenzione dei media. La città non si sentiva al sicuro, e la polizia era sotto pressione per la qualità del loro lavoro. L’aggressione a Trisha Meili fu considerato l’apice di quell’ondata e tra le fila delle forze di polizia iniziò a circolare la pressione di trovare la soluzione a quel caso. Gli agenti e gli investigatori coinvolti ricevettero dunque un ordine preciso: trovate il colpevole ad ogni costo.

Dei cinque ragazzi che finirono a processo per quel delitto, dvenuti presto famosi come i famigerati cinque di Central Park, due – Raymond Santana Jr e Kevin Richardson – erano tra quelli arrestati quella notte per le aggressioni ai passanti, mentre gli altri tre – Antron McCray, Yusef Salaam e Korey Wise – furono coinvolti in un secondo momento perché nominati dai sospettati.

I cinque di Central Park, durante il processo

Gli interrogatori furono durissimi, durarono oltre dieci ore e furono eseguiti esercitando la massima pressione sui giovani sospettati, senza la presenza di alcun avvocato e in alcuni casi con nessun altro adulto ad assistere. Furono esercitate delle violenze allo scopo di costringere tutti a confessare e i ragazzi furono indotti a pensare che se avessero collaborato, confessando, sarebbero tornati a casa.

È così che vennero prodotte le testimonianze video e le dichiarazioni firmate che poi verranno usate nei processi: in tutte quelle dichiarazioni i ragazzi ammisero di aver partecipato al delitto, sebbene nessuno di loro avesse mai confessato di aver fisicamente stuprato la donna. Le dichiarazioni non coincidevano nei dettagli e nelle modalità, e non c’erano altre prove della loro colpevolezza. I campioni di DNA ritrovati sul corpo della vittima non coincidevano con nessuno dei cinque. Ma in base a quelle confessioni, i giovani furono portati in carcere in attesa del processo.


Il processo e la copertura mediatica

Il periodo di avvicinamento al processo fu caratterizzato da grandi tensioni e da un’opinione pubblica spaccata. I media e la gente comune provava odio nei confronti degli accusati, mente la comunità nera protestava energicamente per le modalità usate. A catalizzare l’impatto emotivo si aggiunse anche una campagna pubblicitaria di Donald Trump, che acquistò una pagina dei quattro principali quotidiani della città invocando il ritorno della pena di morte e ribadendo con fierezza il diritto ad odiare chi commette delitti tanto atroci. L’opinione pubblica ne fu molto influenzata, e così la giuria che avrebbe dovuto emettere il verdetto al processo.

La pagina di Donald Trump

I processi furono due ed ebbero luogo nella seconda metà del 1990. Le testimonianze fecero emergere l’assenza di prove inconfutabili della colpevolezza degli imputati, ma furono ovviamente presentate anche le confessioni video e scritte degli accusati. Testimoniò anche la stessa Trisha Meili, e furono mostrate alla giuria le foto della vittima dopo l’aggressione e i suoi vestiti recuperati quella notte. La giuria ne fu ovviamente molto colpita emotivamente.

I verdetti furono emessi prima della fine dell’anno e dichiararono i cinque imputati colpevoli. Vennero emesse delle pene che andavano dai 5 ai 15 anni di carcere. I verdetti furono impugnati in appello, ma vennero confermati.

La confessione

I cinque giovani trascorsero molto tempo in carcere. Alcuni di loro uscirono in libertà condizionale, mentre il più grande, Korey Wise, rimase in prigione per 13 anni.

Nel 2002, tredici anni dopo il delitto, Matias Reyes, un condannato all’ergastolo per stupro, confessò di essere il colpevole del delitto su Trisha Meili e di aver agito da solo. Portò una testimonianza con dettagli che solo il colpevole poteva conoscere, e il confronto del DNA con quello trovato sul corpo della vittima coincise.

A seguito di quella confessione, il procuratore distrettuale ritirò le accuse e chiese che le condanne fossero revocate. Il giudice della Corte Suprema di New York seguì il consiglio e annullò le condanne quello stesso anno, dichiarando tutti gli imputati innocenti.


Il ritorno alla normalità

A seguito della liberazione, alcuni dei condannati fecero causa alla città di New York per il torto subito. Per lungo tempo il processo venne ritardato, finché nel 2014 fu raggiunto un accordo con un risarcimento di 41 milioni di dollari, il più grande mai avvenuto a New York.

Ciononostante, erano ancora molti quelli convinti della colpevolezza dei cinque. Gli investigatori non cambiarono mai idea, né lo fece il procuratore Linda Fairstein che si occupò del caso e che restò sempre convinta delle colpe dei cinque ragazzi. Lo stesso Donald Trump dovette esprimersi a riguardo, dopo le dichiarazioni pubbliche di allora, nella sua recente campagna elettorale per le elezioni presidenziali: dichiarò che il rilascio e il risarcimento sono stati un errore e che non significavano in alcun modo che i ragazzi fossero innocenti.

Oggi la maggior parte dei condannati hanno lasciato New York. Molti di loro sono attivisti e aiutano la società nei casi di vittima della giustizia, hanno famiglia e figli e svolgono un ruolo attivo nel tessuto sociale.

La vicenda, e il modo in cui l’ha rispolverata la serie When They See Us, ha rimesso sotto la lente d’ingrandimento le difficoltà del sistema giudiziario americano, in cui le condanne vengono confermate o rifiutate da una giuria composta da uomini, influenzabili in diversi modi durante il processo. Se ne torna a parlare oggi, quando ormai i ragazzi che hanno scontato la pena hanno lasciato l’adolescenza in prigione e sono riusciti a riprendere in mano la propria vita dopo la soglia dei quarant’anni. Molti altri non hanno avuto la loro fortuna.

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