El Topo: i significati del western mistico di Jodorowsky

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“Il cuore, la testa, cambiali di posto”

Il western è un genere che ben si sposa con il tema del viaggio: un itinerario in cui il protagonista, come vuole lo schema narrativo dell’avventura dell’eroe, ha i suoi obiettivi, incontri, scontri, aiutanti, tesori e antagonisti. Cosa succede però quando il viaggio in questione non è tanto e soltanto un concreto spostarsi, ma vera e propria elevazione spirituale, metamorfosi da bruco a farfalla, da mascalzone a martire, da talpa a uomo?

Alejandro Jodorowsky nel 1970 è un eclettico artista cileno ancora poco noto: con pochi mezzi a disposizione scrive, dirige, interpreta, scenografa, musica e veste di fantasiosi costumi un western di ambientazione messicana, El Topo. Film che attraverserà il mondo come un fuoco, portato in auge da ammiratori del calibro di John Lennon, fino a permettere al tuttofare Jodorowsky il salto verso produzioni più ampie. Ma anche da regista finalmente nel pieno delle proprie possibilità, il suo film successivo, La montagna sacra (1973), e il progetto mai realizzato Dune (1975), come vedremo, sono filosoficamente debitori e discendenti di El Topo. Prima di analizzarne i numerosi significati, però, è necessario ripercorrerne le vicende narrate.


La trama

El Topo (Official Trailer) Alejandro Jodorowsky | ABKCO Films

In un non meglio precisato deserto, un barbuto pistolero (Alejandro Jodorowsky) che assomiglia all’incrocio fra Armonica di C’era una volta il West e Jigen di Lupin III, invita il figlioletto di pochi anni a seppellire i propri giochi e la fotografia della madre. Il malinconico flauto dell’uomo li accompagna in una città devastata da un manipolo di fuorilegge. Deciso a vendicare l’orrenda strage, El Topo si scontra con la masnada in un convento da questa messo sotto ostaggio. Spodesta il loro generale, vestito da papa, lo castra, libera una prigioniera e abbandona il figlio presso i monaci riconoscenti. Si allontana quindi a cavallo con la donna, Mara, che lo induce ad affrontare i quattro grandi maestri pistoleri per poterli sconfiggere e acquisirne il titolo.

Il primo è un androgino mistico cieco, che grazie alla meditazione rimane immune dai colpi d’arma da fuoco; abita in una torre nel nulla ed è coadiuvato da un uomo senza gambe che ne cavalca un altro senza braccia. El Topo lo vince con un inganno che gli fa perdere la concentrazione. Subito dopo, una donna vestita di nero (Paula Romo) si aggiunge alla coppia di avventurieri: ciò scatena una prima lite fra el Topo e Mara, per via di uno specchio regalato a questa da una sconosciuta. Infastidito dalla vanità della compagna, el Topo spara allo specchio e si mette i frammenti in tasca.

Il secondo maestro è uno zingaro girovago che vive con la madre e un leone: la sua forza risiede nell’avere il controllo totale delle fragilissime piramidi di stuzzicadenti che costruisce con perizia geometrica, e nell’avere una madre che lo ama a differenza del solitario El Topo. Dapprima sconfitto, il pistolero utilizza nuovamente un trucco infimo: fa calpestare alla madre i cocci di vetro e spara all’avversario distratto.

Il terzo maestro è un allevatore di conigli: el Topo suona assieme a lui e si esercita nel mirare a dei corvi. Il maestro gli spiega di mirare al cuore e non alla testa, e poi gli spara con la sua pistola: un’arma fabbricata alla perfezione che però può tirare un solo colpo per volta. El Topo si salva con il più classico degli inganni: una lastra metallica antiproiettili. Uccide così anche il terzo maestro, ma per la prima volta si sente in colpa: ne piange la morte e lo seppellisce sotto i cadaveri dei suoi conigli.

L’ultimo maestro è un eremita che ha barattato la propria pistola per un retino da farfalle: con questa devia i colpi di el Topo, ormai al limite della frustrazione. In un atto di estremo nichilismo, però, il maestro si spara dimostrando di aver vinto pure sulla vita stessa. El Topo, oppresso dalla propria meschinità, ripercorre le tombe dei maestri precedenti: quella dell’allevatore brucia per autocombustione, quella dello zingaro è una piramide di stuzzicadenti, quella del mistico si è trasformata in un enorme favo di miele e quella dei servitori in un arbusto.

El Topo si dà alla disperazione e viene colpito alle mani e al costato dalle due compagnie di viaggio, che intanto sono diventate amanti.
Sembra già tutto finito, quando scopriamo che una comunità di esseri deformi e reietti porta il corpo morente del pistolero nella caverna sotterranea in cui vive. Venerato come un dio e accudito da una nana innamorata di lui, il nostro si risveglia dal coma, si taglia barba e capelli e si veste da monaco buddista. Promette quindi, assieme alla nuova consorte, di liberare gli storpi portandoli alla città vicina. Per farlo, i due lavorano come saltimbanchi e riscuotono successo nel villaggio. Questo è un vero e proprio covo del vizio, dove finti puritani arricchiti si divertono fra gozzoviglie, orge e uccisioni senza scopo.

In città arriva, contemporaneamente, un misterioso frate predicatore che si scopre essere il figlio ormai cresciuto di el Topo. Egli ha intenzione di uccidere il padre (comprensibilmente, essendo stato abbandonato in un convento a sette anni…) ma la nana lo convince ad aspettare la fine della missione. Gli storpi vengono finalmente liberati dalla caverna e si avviano in massa alla città, dove però vengono massacrati. El Topo, investito di una potenza divina, si ricorda delle tecniche dei maestri e compie una strage vendicativa, per poi darsi fuoco. Il figlio e la nana, che al momento della morte del marito partorisce un bimbo, costruiscono all’eroe un monumento funebre che, come la tomba del primo maestro, si trasforma in un alveare pieno di api e miele.


La struttura del viaggio

Come si evince dalla trama, El Topo è un film complesso nei significati e carico di riferimenti. A differenza del successivo La montagna sacra, però, Jodorowsky adotta una struttura narrativa più classica, che risponde allo schema del viaggio dell’eroe. Si tratta di una delle più note teorie della narrazione strutturalista, portato in auge dallo scrittore Christopher Vogler: rifacendosi alle fiabe popolari, è possibile ritrovarne i punti e gli archetipi in numerosi film di svariati genere, da Il signore degli anelli a Il mago di Oz.

El Topo, essendo un racconto di formazione e al contempo di viaggio, ne presenta alla perfezione quasi tutti gli aspetti. L’abbandono del mondo ordinario, il superamento della prima soglia (l’uccisione dei fuorilegge), la chiamata all’avventura costituiscono il primo atto. I quattro maestri fungono in parte da guardiani della soglia, essenzialmente antagonisti, in parte da mentori in quanto lasciano a el Topo degli insegnamenti che si riveleranno fondamentali; le due donne sono i cosiddetti shapeshifter, personaggi ambigui che possono aiutare e allo stesso tempo mettere in difficoltà l’eroe. È grazie a Mara che el Topo accetta la sfida, ma anche colpa sua se muore apparentemente. Questo momento è l’avvicinamento alla caverna più profonda (Vogler ha un gusto molto letterario nel nominare i punti del viaggio), quando l’eroe sembra spacciato.

La prova centrale invece è ovviamente la liberazione degli storpi e la vendetta sulla città. Qui el Topo incontra anche il figlio, una sorta di personaggio ombra, in quanto antagonista, che rappresenta però il doppio del protagonista stesso e subisce una mutazione in positivo. La terza prova, ovvero la resurrezione, è paradossalmente costituita dall’auto-combustione del nostro: finalmente egli è libero dalla vita, ormai vissuta pienamente, e può reincarnarsi (ai riferimenti al buddismo accenneremo in seguito). Ogni mentore dona all’eroe degli oggetti magici che lo aiutano, e ogni eroe ottiene alla fine del viaggio un elisir: el Topo è divenuto consapevole, padrone di sé, e si è finalmente annullato per un fine universale che trascende la propria finitezza egoista.


I significati del film

Un’analisi sistematica di ogni singolo elemento simbolico presente nel film porterebbe via troppo tempo. Forse è pure un’impresa impossibile, perché ciò che caratterizza Jodorowsky è innanzitutto il sincretismo: buddismo, cristianesimo, culture performative, tarocchi, spaghetti western contribuiscono a fare di El Topo un testo stratificato e interpretabile in più modi, per quanto Jodorowsky non sia uno di quei registi restii a divulgare la propria concezione del mondo ma anzi ne ha fatto un florido business (tutt’altro che una critica) fra libri, collaborazioni e masterclass. Chi può dire se sia più preponderante, per esempio, l’elemento biblico (la città del vizio come Sodoma e Gomorra) o quello dell’autoreferenza artistica (i mimi di el Topo e della nana, che rimandano all’amico e maestro Marcel Marceau)?

Il primo elemento che salta all’occhio è l’estrema violenza, quasi eccessiva pure per un film degli anni 70 che si rifà a un genere noto per le scene di sangue, il western italiano. Jodorowsky è famoso per non risparmiare qualsiasi mostrazione della corporeità, dal sesso alla morte. Il significato che qui assume la violenza è però congeniale al messaggio del racconto: è la potenza distruttrice e palingenetica, ciò che fa mutare pelle al serpente dell’eterno ritorno. Violento e sterile è lo stadio iniziale dell’esistenza e del mondo del protagonista; violenta e progressiva la sua ascesa, violenta la sua caduta, violenta e rigeneratrice la sua azione finale. Sono i tempi della guerra in Vietnam, delle colonie vecchie e nuove che si confrontano con il capitalismo, dei bagni di sangue in un’America Latina contesa fra capi di stato provvisori e dittatoriali. Lo stesso suicidio buddista del protagonista alla fine, è nel fuoco così come il fuoco attraversa ed arde il globo: si pensi ai monaci bonzi e alla loro forma di protesta più nota, l’autocombustione appunto. Tale è lo Jodorowsky meno mistico è più aderente all’attualità: quella dov’è il selvaggio West, più che epopea, è un non luogo dove i movimenti della Storia, le rivoluzioni, la rabbia si concentrano in qualche sparo di pistola. Potrebbe essere un’opera rock, el Topo, se non ci fosse soltanto la malinconica melodia di flauto a scandirne i passi?

Vi è poi una seconda chiave di lettura: quella spirituale, forse più legata all’autore. Tutto il film ha l’incedere del grande romanzo di formazione dello spirito. Spirito che superando le sfide immanenti della realtà (i quattro maestri), mosso da orgoglio e desiderio futile, è ancora scisso dalla totalità dell’esistente. È individuo, parola che contiene in sé il concetto di divisione. Bisogna morire almeno una volta, nella vita, per capire di essere finiti. Lo spirito ritorna così nel mondo sotterraneo: un mondo sottosopra, dove la logica dei corpi è invertita in quanto abitata da freaks, e torna alla mente l’omonimo film di Tod Browning (1939). Infine, ecco lo spirito che cecando di salvare il mondo lo trascende, vi rinuncia perché la vita è solo l’aspetto visibile, percepibile, di un’esistenza più alta e totale. Forse, eterna. El Topo è come un Odisseo che scende all’Ade e riparte per mare, come la fenice che risorge dalle proprie ceneri, come Cristo che muore per i peccati dell’universo e risorge: non a caso le ferite che gli causano le due donne, a metà del film, hanno l’aspetto delle cinque piaghe cristologiche. I favi di api in cui si trasformano i cadaveri degli illuminati stanno a indicare la natura che non si distrugge ma distruggendosi rinasce nella totalità brulicante (anche qui è la Bibbia a parlare: “Il paese dove scorre latte e miele”). È infine esplicito il riferimento alla dottrina della reincarnazione delle religioni orientali: quando el Topo si annichilisce, nasce il figlio dalla donna che più ha amato.

La montagna sacra è un altro racconto di formazione, stavolta dichiaratamente mistico: qui Jodorowsky non interpreta più l’allievo ma il maestro, dopotutto ha già raggiunto il Nirvana nel film precedente. Vi ritornano però alcuni elementi visuali e simbolici: la violenza, il miele, la finitezza del nostro mondo, stavolta in un tessuto più esplicitamente filosofico e meno narrativo. Dune, progetto mai realizzato, si rifà al ciclo di romanzi di Frank Herbert: che è un’altra storia in cui un eroe raggiunge una maggior consapevolezza di sé e dell’esistenza: elemento che nella pur sfortunata versione di David Lynch (1984) viene sottolineato. Tematiche del genere ritornano nell’ultimo film del maestro cileno, Poesia senza fine (2016): si tratta di un’autobiografia romanzata del giovane poeta che si ribella alla famiglia, fa all’amore con una donna nana, lancia pezzi di interiora animali ai vecchi accademici della poesia cilena fine a se stessa e alla fine salpa verso Parigi.

Il viaggio di el Topo vuole essere quello di Jodorowsky, della sua poetica, del mondo e di tutti noi stessi. Un viaggio senza fine, appunto, come l’anima, come la poesia.

2 comments

  1. Lo vidi 15 anni fa. Lo trovai molto piu’ ermetico de “La montagna sacra”. Andro’ a rivederlo, anche grazie agli spunti che hai fornito in questo articolo.

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