Il male come metafora dei nostri incubi: la filosofia di Hill House

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Per analizzare Hill House servirebbe, in prima istanza, analizzare il concetto di trauma.

Alla fine del 1800 Freud sosteneva che “ogni esperienza in grado di suscitare una cattiva situazione – che sia paura, dolore o ansia – agisce come un trauma”. Lo sviluppo di questo malessere si inserisce come una rottura fra il soggetto interessato da tale condizione e il mondo che lo circonda: una sorta di produzione di un grande meccanismo di vuoto e di solitudine che sfocia nella perdita e nel lutto.

Come può avvenire tutto questo all’interno di dieci episodi di un prodotto televisivo offerto in pasto al grande pubblico di Netflix? Attraverso il sacrificio dei protagonisti che sarà la risposta alle loro sofferenze. Il trauma che vive la famiglia Crain – composta da genitori e cinque figli – è tangibile dal primo frame del primo episodio: la famiglia fugge da una casa abbandonando la mamma nell’abitazione. Uno spazio – che se pur consumato dallo spettatore in pochi istanti – ha la capacità di offrire un vortice gigantesco di emozioni. La perdita di un membro della famiglia, sfocia in un trauma producendo un senso di insicurezza generale in relazione all’abbandono. Diventerà la situazione-condizione trainante dell’intera serie.

The Haunting of Hill House è tratto dall’omonimo romanzo di Shirley Jackson del ’59, e diciamo subito che è un prodotto ben riuscito. La storia si dipana attraverso due linee temporali abilmente costruite attorno alla vita dei sette membri della famiglia, tra il presente e un passato distante poco più di venti anni. Partendo dai più piccoli della famiglia: i gemelli Nell e Luke sono i due personaggi più fragili della serie: vivono in un costante fluido onirico che sembrerà loro non dare mai pace. La Nell adulta subirà un grave lutto e Luke diventerà un tossicodipendente. Theo è la sensibile dei cinque figli: costruisce muri difensivi per proteggere la sua vita costantemente sospesa tra l’inferno e il purgatorio. Shirley è la sorella maggiore: lavora con i cadaveri e ha fatto del cinismo una barriera nei confronti del mondo; infine c’è Steve che ha scritto un libro proprio sulla casa misteriosa abitata da bambino.

Cosa accade in questa “maledetta” casa e cosa rappresenta? Senza grandi giri di parole, e congetture filosofiche, diciamo che la casa è la totale incarnazione del male che deve nutrirsi di anime e corpi pur di sopravvivere. State sereni, non saranno mostri o alieni ad agitare le vostre notti, e non ci sarà nessun Freddy Krueger a turbare i vostri sogni. Hill House ha la capacità di esemplificare le condizioni dello squilibrio mentale inquietando lo spettatore. Le visioni dei protagonisti, il loro passato e il loro presente angosciante, vengono circondati da un elemento comune che farà da collante in tutti gli episodi: il soprannaturale come metafora della vita in cui non sembra esserci mai alcuna via d’uscita. La casa di Hill House non è una vera abitazione, ma è la metafora della vita scandita dai drammi familiari. Hill House spaventa perché mostra in pellicola il pensiero di Schopenhauer. Nella serie il male sembrerebbe vivere nel personaggio della madre, ma se nel male esiste il dolore, esiste il bene?  Quando l’individuo guarda dentro di sé, e trova il suo dolore, la sua voracità, il suo egocentrismo, e ne ha orrore, allora il bene può emergere, in quanto coscienza ed empatia.

L’effetto di porre il male come fulcro della serie, e il bene come costruzione, sta nel fatto che, d’un tratto, ci si accorge dell’altro non più come strumento, ma come strumento che combatte contro lo stesso dolore che si sperimenta ogni giorno. La negatività diviene la chiave di svolta: grazie ad essa, all’empatia che ne consegue, può esserci apertura.

Il sacrificio di Nell – la più piccola della famiglia – è in sostanza il sacrificio inteso da Nietzsche: in un mondo in cui la tavola dei valori è rovesciata, è l’uomo superiore ad essere sacrificato per/dal gregge.

Sacrificio deriva dal latino sacrificium, ossia dall’unione di sacer più il verbo facere, letteralmente «rendere sacro». Propriamente esso indica dunque il gesto tramite cui un elemento viene tolto dalla sua originaria condizione profana e fatto entrare all’interno di una dimensione sacrale come atto propiziatorio o di devozione in favore di una divinità. C’è dunque una chiara connessione di senso con la sfera religiosa. La morte della bambina lascia un vuoto e costringe i membri restanti della famiglia a riunirsi. Riunione che arriva nel giorno del funerale della giovane: la visione del cadavere è la presa di coscienza della fine di ogni emozione, una sorta di messa in atto costruita per rinascere. In definitiva in Hill House c’è un continuo morire e rinascere, ma non corporeo, bensì spirituale.  Come in “Don Chisciotte” lottiamo contro il destino e anche se dobbiamo accettare questo fatto, nel contempo dobbiamo ribellarci coltivando il sentimento dell’immortalità.

L’uomo vive nella sua esistenza, ma l’uomo non limita la sua esistenza nel tempo.

Hill House è in definitiva uno dei migliori prodotti del 2018, e Mike Flanagan, il suo regista, si attesta come uno dei migliori registi di questa generazione. La serie piace perché ha la capacità di non scadere nel classico canovaccio stilistico horror (pur non mancando le scene turbanti). Hill House non è una storia intelaiata per spaventare ma è una storia di possibile rinascita dopo una distruzione causata dal male, ed è per questo che potrebbe diventare la “palingenesi” delle serie tv.

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